Domani tornerò a Bouville col treno di mezzogiorno.
Mi basterà di restarci due giorni: per fare le valige e sistemare
le mie faccende alla banca. Immagino che all'albergo
Printania vorranno che paghi una quindicina in più
perché non li ho preavvisati. Dovrò anche restituire alla
biblioteca i libri che ho presi in prestito. In ogni modo
sarò di ritorno a Parigi prima della fine della settimana.
E che cosa ci guadagnerò nel cambio? È sempre una
città: questa è traversata da un fiume, quella è costeggiata
dal mare, a parte questo si rassomigliano. Si sceglie una
zona brulla, sterile, e vi si rotolano delle grandi pietre scavate.
In queste pietre son prigionieri degli odori, odori più
pesanti dell'aria. A volte li si getta dalla finestra nelle
strade ed essi vi restano fino a che i venti non li abbiano
lacerati. Quando è bel tempo, i rumori entrano da un capo
della città ed escono dall'altro, dopo aver attraversato tutti
i muri, altre volte girano in tondo, tra quelle pietre che il
sole cuoce e che il gelo fende.
Ho paura delle città. Ma non bisogna uscirne. Se ci si
avventura troppo lontano, s'incontra il cerchio della Vegetazione.
La Vegetazione ha strisciato per chilometri verso
le città. Attende. Quando la città sarà morta essa l'invaderà,
s'arrampicherà sulle pietre, le imprigionerà, le rovisterà,
le farà scoppiare con le sue lunghe pinze nere, ne accecherà
i buchi e lascerà pendere dappertutto delle zampe
verdi. Bisogna restare nelle città fintanto che son vive, non
bisogna penetrare da soli in questa grande chioma che è
alle loro porte: bisogna lasciarla ondeggiare e crollare senza
testimoni. Nelle città, se ci si sa aggiustare, se si sa scegliere
le ore in cui le bestie digeriscono o dormono nei
loro buchi, dietro i mucchi di detriti organici, non s'incontra
altro che minerali, i meno spaventosi degli esìstenti.
Tornerò a Bouville. La Vegetazione assedia Bouville
soltanto da tre lati. Sul quarto lato c'è un gran buco pieno
d'un'acqua nera che si muove da sola. Il vento fischia tra
le case. Gli odori vi restano meno a lungo che altrove:
cacciati sul mare dal vento, filano sul pelo dell'acqua come
nuvolette pazzerelle. Piove. Hanno lasciato che alcune
piante si spingessero tra quattro cancellate. Delle piante
castrate, addomesticate, inoffensive, tanto son grasse. Hanno
enormi foglie biancastre che pendono come orecchie.
A toccare sembra cartilagine. Tutto è grasso e bianco, a
Bouville, per via di quest'acqua che cade dal cielo. Tornerò
a Bouville. Che orrore!
Martedì a Bouville.
Sarebbe questa, la libertà? Sotto dì me i giardini scendono
mollemente verso la città, e, in ogni giardino, s'eleva
una casa. Vedo il mare, greve, immobile, vedo Bouville.
È bel tempo.
Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere,
tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più
immaginarne altre. Sono ancora abbastanza giovane, ho
ancora abbastanza forza per ricominciare. Ma che cosa bisogna
ricominciare? Soltanto ora comprendo quanto contassi
su Anny per salvarmi, in mezzo ai miei più forti terrori,
alle mie nausee. Il mio passato è morto. Il signor di
Rollebon è morto. Anny è tornata soltanto per togliermi
ogni speranza. Sono solo in questa strada bianca fiancheggiata
da giardini. Solo e libero. Ma questa libertà assomiglia
un poco alla morte.
Oggi la mia vita finisce. Domani avrò lasciato questa
città che si stende ai miei piedi, e dove son vissuto per
tanto tempo. Non sarà più che un nome, tozzo, borghese,
molto francese, un nome nella mia memoria, meno ricco
di quello di Firenze o di Bagdad. Verrà un'epoca in cui
mi domanderò: « Ma infine, quando ero a Bouville, che
cosa facevo tutto il giorno? » E di questo sole, di questo
pomeriggio, non resterà niente, nemmeno un ricordo.
Tutta la mia vita è dietro di me. La vedo tutt'intera,
vedo la sua forma e i suoi lenti movimenti che m'hanno
condotto fin qui. C'è poco da dirne: è una partita perduta,
ecco tutto. Son tre anni che ho fatto il mio ingresso a
Bouville, solennemente. Avevo perduto la prima mano.
Ho voluto giuocare la seconda ed ho perduto anche questa:
ho perduto la partita. E nel tempo stesso ho appreso
che si perde sempre. Ci son solo gli sporcaccioni che credono
di vincere. Adesso farò come Anny, mi sopravviverò. Mangiare,
dormire. Dormire, mangiare. Esistere, lentamente,
dolcemente, come questi alberi, come una pozza d'acqua,
come il sedile rosso del tram.
La Nausea mi lascia un breve respiro. Ma so che ritornerà:
è il mio stato normale. Soltanto, oggi il mio corpo
è troppo esausto per sopportarla. Anche i malati hanno
delle felici debolezze che gli tolgono per qualche ora la
coscienza del loro male. Mi annoio, ecco tutto. Ogni tanto
sbadiglio così forte che le lacrime mi scendono giù per le
guance. È una noia profonda, profonda, il profondo cuore
dell'esistenza, la materia stessa di cui son fatto. Non mi
trascuro, tutt'altro: stamane ho fatto il bagno, mi son
fatto la barba. Soltanto, quando ripenso a tutti questi piccoli
atti solleciti non capisco come abbia potuto farli: son
così vani. Sono le abitudini, senza dubbio, che li hanno
compiuti per me. Non sono morte, loro, continuano a
darsi da fare, a tessere pian piano, insidiosamente, le loro
trame, mi lavano, mi asciugano, mi vestono, come balie.
Che siano state pure esse a condurmi su questa collina?
Non ricordo più come ci son venuto. Per la scalinata Dautry,
senza dubbio: che davvero abbia salito uno ad uno
quei centodieci gradini? Quello che forse è ancora più
difficile immaginare è che tra poco li ridiscenderò. Tuttavia
lo so: tra un momento mi ritroverò al piede del Poggio
Verde, tra un momento, alzando la testa, potrò vedere
accendersi in lontananza le finestre di queste case che ora
sono cosi vicine. In lontananza. Sopra la mia testa; e quest'istante,
dal quale non posso uscire, che mi rinchiude e
mi limita da tutti i lati, quest'istante di cui son fatto, non
sarà più che un sogno confuso.
Guardo ai miei piedi i grigi scintillii di Bouville. Sembra
vi siano al sole mucchi di conchiglie, di scaglie, di
schegge d'ossa, di ghiaia. Perdute tra questi resti, minuscole
schegge di vetro o di mica gettano di quando in
quando leggeri bagliori. I canaletti, le trincee, i sottili
solchi che corrono tra le conchiglie, tra un'ora saranno
strade, ed io camminerò in quelle strade, tra i muri. Quei
minuscoli ometti neri che distinguo in via Boulibet, tra
un'ora sarò uno di loro.
Come mi sento distante da loro, dall'alto di questa col-
lina. Mi sembra d'appartenere ad un'altra specie. Escono
dagli uffici, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le
case e le piazze con un'aria soddisfatta, pensano che è la
loro città, una « bella città borghese ». Non hanno paura,
si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l'acqua
addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che
sprizza dalle lampade quando si preme l'interruttore, che
gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali.
Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente,
che il mondo obbedisce a leggi fìsse e immutabili.
I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la
stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i
giorni alle sedici d'inverno, e alle diciotto d'estate, il
piombo fonde a 335° gradi, l'ultimo tram parte dal Municipio
alle ventitre e cinque. Son pacifici, un po' melanconici,
pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro
oggi; le città non dispongono che d'una sola giornata che
ritorna sempre uguale ogni mattina. La s'impennacchia un
po' la domenica. Che imbecilli. Mi ripugna il pensare che
sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza.
Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno
l'estrema stupidità di fare figli. E frattanto la grande natura
incolta s'è insinuata nella loro città, s'è infiltrata dappertutto,
nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non
si muove, sì mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in
pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori,
a venti miglia dalla città. Io la vedo, questa natura, la
vedo... So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch'essa
non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza...
Non ha che abitudini, e le può cambiare domani.
E se capitasse qualcosa? Se d'un tratto si mettesse a
palpitare? Allora s'accorgerebbero della sua presenza e gli
sembrerebbe dì sentirsi scoppiare il cuore. A che cosa
gli servirebbero, allora, le loro dighe, Ì loro argini, le loro
centrali elettriche, i loro altiforni, i loro magli a vapore?
Ciò potrebbe succedere in qualunque momento, magari subito:
i presagi ci sono. Per esempio, un padre dì famiglia
a passeggio vedrà venire verso di lui, attraverso la strada,
uno straccio rosso come spinto dal vento. E quando lo
straccio gli sarà vicinissimo vedrà che è un pezzo di carne
marcia, imbrattato di polvere, che si trascina strisciando,
a sbalzi, un pezzo di carne torturata che si rotola nei rigagnoli
proiettando a spasmi getti di sangue. Oppure una
madre guarderà la guancia del suo bambino e gli domanderà:
— Che cos'hai, li, una pustola? — e vedrà la carne
gonfiarsi un poco, screpolarsi, schiudersi, e in fondo alla
screpolatura apparirà un terzo occhio, un occhio beffardo.
Oppure si sentiranno dolci sfioramenti per tutto il corpo,
come le carezze che i giunchi dei fiumi fanno ai nuotatori.
E si accorgeranno che le loro vesti son divenute cose viventi.
E un altro s'accorgerà che qualcosa lo solletica dentro
la bocca. S'accosterà ad uno specchio, aprirà la bocca:
e la lingua gli sarà diventata un enorme millepiedi vivo,
che agiterà le zampe raschiandogli il palato. Vorrà sputarlo,
ma il millepiedi sarà una parte di lui stesso, e dovrà
strapparselo con le mani. E apparirà una quantità di cose
per le quali bisognerà trovare nomi nuovi, l'occhio di pietra,
il gran braccio tricorno, l'alluce-gruccia, il ragno-mascella.
E colui che si sarà addormentato nel suo buon letto,
nella sua dolce camera calda si risveglierà tutto nudo sopra
un suolo bluastro, in una foresta dì verghe rumoreggianti,
rosse e bianche, erette verso il cielo come le ciminiere di
Jouxtebouville, con grossi coglioni a metà fuori di terra,
villosi e turgidi come cipolle. E attorno a quelle verghe
svolazzeranno uccelli che le becchetteranno facendole sanguinare,
e da queste ferite colerà dello sperma, pian piano,
lentamente, sperma mescolato a sangue, vitreo e tiepido,
con piccole bolle. O anche, niente di tutto questo succederà,
non vi sarà alcun cambiamento apprezzabile, ma la
gente, una mattina, aprendo le persiane, sarà sorpresa da
una specie di senso orribile, pesantemente posato sulle
cose, e che sembrerà aver l'aria d'attendere. Null'altro
che questo: ma per poco che questo duri vi saranno suicidi
a centinaia. Ebbene, sì! Che tutto questo cambi un
poco, non domando di meglio. Se ne vedranno altri, allora,
piombati bruscamente nella solitudine. Uomini completamente
soli, solissimi, con orribili mostruosità, correranno
per le strade, passeranno pesantemente davanti a me, con
gli occhi fissi, fuggendo i loro mali e portandoli con sé,
con la bocca aperta e la loro lingua-insetto che sbatterà le
ali. Allora io creperò dalle risa, anche se il mio corpo sarà
coperto di luride croste sospette che sbocceranno in fiori
di carne, in viole, in ranuncoli. M'addosserò ad un muro,
e griderò al loro passaggio: - Che ne avete fatto della vostra
scienza? Che ne avete fatto del vostro umanitarismo?
dov'è andata a finire la vostra dignità di canna pensante?
- Io non avrò paura — o almeno, non più che in questo
momento. Forse che ciò non sarà pur sempre esistenza?
delle variazioni sull'esistenza? Tutti quegli occhi che mangeranno
lentamente un volto saranno di troppo, senza
dubbio, ma non più dei due primi. È dell'esistenza che
io ho paura.
Scende la sera, nella città s'accendono le prime lampade.
Mio Dio! Che aria naturale ha la città, come sembra
schiacciata dalla sera, nonostante tutte le sue geometrie. È
talmente... evidente, da qui, possibile che io sia il solo a
vederlo? Non c'è nessun'altra Cassandra in nessun posto,
che dalla cima di qualche collina guardi ai suoi piedi una
città inghiottita in fondo alla natura? E d'altronde che
m'importa? Che cosa potrei dirle?
Il mio corpo, pian piano, si volta verso est, oscilla un
poco e si mette in cammino.
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