ROQUENTIN SCRIVE (PARLA):
Improvvisamente
sono sbucato sulla banchina dei Bacini del
Nord. Barche da pesca, piccoli yachts. Ho posato il
piede su un anello murato nella pietra. Qui, lontano dalle
case, lontano dalle porte, avrei forse avuto un istante di
respiro. Sull'acqua calma, picchiettata di semi neri, galleggiava un
turacciolo.
«
E sotto l'acqua? non hai pensato a quello che può avvenire
sotto l'acqua? »
Una
bestia? Un grande guscio, mezzo affondato nel fango?
Dodici paia di zampe lavorano lentamente la melma. La
bestia si solleva un po', di quando in quando. In fondo
all'acqua. Mi son avvicinato per intercettare un risucchio, un
debole ondeggiamento. Il turacciolo restava immobile
in mezzo ai semi neri.
Suonano le quattro. È già un'ora che son qui, con le braccia penzoloni sulla mia sedia. Comincia a far buio. A parte questo, nella stanza nulla è cambiato; la carta bianca è sempre sul tavolo, accanto alla stilografica e all'inchiostro.
Ma non scriverò mai più sul foglio cominciato. Non andrò più per via dei Mutilati e il viale del Fortino, in biblioteca a consultare gli archivi.
Ho voglia di alzarmi e d'uscire; di fare una cosa qualsiasi per stordirmi. Ma se alzo un dito, se non me ne sto assolutamente fermo, so benissimo cosa mi capiterà. E non voglio che mi capiti ancora. Tornerà sempre anche troppo presto. Non mi muovo: macchinalmente leggo sul foglio del blocco il brano incompiuto:
« Avevano avuto cura di spargere le voci più
sinistre. Evidentemente il signor di Rollebon dovette lasciarsi trarre in inganno, poiché, in data 13 settembre, scriveva al nipote di aver redatto il proprio testamento ».
Il grande affare Rollebon è finito, come una grande passione. Bisognerà trovare qualche altra cosa. Qualche anno fa, a Sciangaì, nell'ufficio di Mercier, uscii improvvisamente da un sogno, mi svegliai. Poi feci un altro sogno: vivevo alla corte degli Zar, in vecchi palazzi cosi freddi che d'inverno sopra le porte si formavano stalattiti di ghiaccio. -Oggi mi sono svegliato davanti a un blocco di carta bianca. Le fiaccole, le feste glaciali, le uniformi, le belle spalle tremanti sono scomparse. Al loro posto, qualcosa resta nella stanza tiepida, qualcosa ch'io non voglio vedere.
Il signor di Rollebon era mio socio: per esistere aveva bisogno di me, e io avevo bisogno di lui per non sentire la mia esistenza. Io fornivo la materia bruta; di questa ne avevo da vendere e non sapevo che farne: l'esistenza, la mia esistenza.Lui, invece, la sua parte era di rappresentare. Mi stava di fronte e s'era impadronito della mia vita per rappresentarmi la sua. Non m'accorgevo più che esistevo; non esistevo più in me, ma in lui: era per lui che mangiavo, per lui che respiravo, ognuno dei miei movimenti trovava la sua giustificazione al di fuori, là, di fronte a me, in lui; non vedevo più la mia mano che tracciava le parole sulla carta, e nemmeno la frase che avevo scritta - ma dietro, al di là della carta, vedevo il marchese, che aveva reclamato questo gesto e del quale questo gesto prolungava e consolidava l'esistenza. Io non ero che un mezzo di farlo vivere, lui era la mia ragion d'essere, mi aveva liberato da me stesso. Cos'avrei fatto, ora?
Soprattutto non muoversi, non muoversi... Ah! Questo movimento delle spalle, non ho potuto trattenerlo... La Cosa, che aspettava, s'è svegliata, mi s'è sciolta addosso, cola dentro di me, ne son pieno... Non è niente: la Cosa sono io. L'esistenza liberata, svincolata, rifluisce in me. Esisto. Esisto. È dolce, dolcissimo, lentissimo. E leggero: si direbbe che stia sospeso in aria da solo. Si muove. Mi sfiora dappertutto, sì scioglie, svanisce. Dolcissimo, dolcissimo. Ho la bocca piena d'acqua spumosa. L'inghiotto, mi scivola in gola, mi carezza, ed ecco che mi rinasce in bocca:
nella bocca mi rimane di continuo una piccola pozza d'acqua biancastra, discreta, che mi sfiora la lingua. E questa pozza sono ancora io. E la lingua. E la gola, sono io.
Vedo la mia mano che sì schiude sul tavolo. Essa vive - sono io. Si apre, le dita si spiegano e si tendono. È posata sul dorso. Mi mostra il suo ventre grasso. Sembra una bestia rovesciata. Le dita sono le zampe. Mi diverto a muoverle, in fretta, come le zampe d'un granchio caduto sul dorso. Il granchio è morto, le zampe si rattrappiscono, si richiudono sul ventre della mia mano. Vedo le unghie - la sola cosa di me che non viva. E ancora. La mia mano si rivolta, si stende pancia a terra, adesso mi presenta il dorso. Un dorso argentato, un po' brillante - sembrerebbe un pesce, se non avesse dei peli rossi al principio delle falangi. Sento la mia mano. Sono io, queste due bestie che s'agitano all'estremità delle mie braccia. La mia mano si gratta una zampa con l'unghia d'un'altra zampa: sento il suo peso sul tavolo, che non sono io. Continua, continua questa impressione del peso, non passa mai. Non c'è ragione perché passi. Alla lunga, è intollerabile... Ritiro la mano, me la metto in tasca. Ma subito, attraverso la stoffa, sento il calore della coscia. Ritraggo subito la mano di tasca e la lascio penzolare contro lo schienale della sedia. Adesso ne sento il peso in cima al braccio. Pesa un po', appena appena, mollemente, midollosamente esiste. Non insisto più: dovunque la metta, continuerà ad esistere ed io continuerò a sentire che esiste; non posso sopprimerla, come non posso sopprimere il resto del mio corpo, il calore umido che m'insudicia la camicia, né tutto questo grasso caldo che si muove pigramente come se lo si rimescolasse col cucchiaio, né tutte le sensazioni che circolano lì dentro, che vanno e vengono, che salgono dal fianco all'ascella, oppure vegetano tranquillamente, dal mattino alla sera, nel loro angolo abituale.
Mi alzo di scatto: se soltanto potessi smettere di pensare, andrebbe già meglio. I pensieri, non c'è niente di più insipido. Ancora più insipido della carne. Sì trascinano a non finire e lasciano un gusto strano. E poi ci sono le parole, dentro i pensieri, le parole incompiute, le frasi abbozzate che ritornano sempre: «Bisogna che fini... Io esi... Morto... Il signor di Roll è morto... Non sono... Io esi...» E cosi via, cosi via..., non finisce mai. È peggio di tutto il resto, perché me ne sento responsabile e complice. Per esempio questo doloroso rimuginare: io esisto, sono io stesso che lo faccio durare. Io. Il corpo, quello vive da solo, una volta che ha cominciato. Ma il pensiero sono io che lo continuo, lo svolgo. Esisto. Penso che esisto. Oh! che lunga serpentina, questo sentimento di esistere, e sono io che Io voglio, piano, piano... Se potessi trattenermi dal pensare. Provo, ci riesco; mi pare che la testa mi s'empia di fumo... ed ecco che ricomincia: «Fumo... non pensare... non voglio pensare... penso che non voglio pensare. Non bisogna che pensi che non voglio pensare. Perché anche questo è un pensiero ».
Non finirà mai, dunque?
Il mio pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso... e non posso impedirmi di pensare. In questo momento stesso — è spaventoso - se esisto è perché ho orrore di esistere. Sono io, io, che mi traggo dal niente al quale aspiro: l'odio, il disgusto di esistere sono altrettanti modi di farmi esistere; di affondarmi nell'esistenza. I pensieri nascono dietro di me, come una vertigine, me li sento nascere dietro la testa... se cedo, mi arriveranno davanti, tra gli occhi - e io cedo sempre, e il pensiero s'ingrossa, s'ingrossa ed eccolo, immenso, che mi riempie tutt'intero e rinnova la mia esistenza. La mia saliva è dolciastra, il corpo è tiepido, mi sento insipido.
Il mio temperino è sul tavolo. L'apro. Perché no? In ogni modo porterà un piccolo cambiamento. Poso la mano sinistra sul block-notes e mi vibro un bel colpo sulla palma. Il gesto era troppo nervoso; la lama è scivolata, la
ferita è superficiale. Sanguina. E adesso? Cosa c'è di cambiato? Comunque, guardo con soddisfazione, sul foglio bianco, sopra le righe che ho scritto poco fa, questa piccola pozza di sangue che ha cessato finalmente di essere me. Quattro righe su un foglio bianco, una macchia di sangue, ecco un bel ricordo. Dovrò scriverci sotto: « In questo giorno ho rinunciato a fare il mio libro sul marchese dì Rollebon ».
Debbo medicarmi la mano? Esito. Guardo il monotono sgorgare del sangue. Ecco che si coagula. È finito. La pelle è come arrugginita intorno al taglio. Sotto la pelle non rimane che una piccola sensazione eguale alle altre, forse ancor più insipida.
Suonano le cinque e mezzo. Mi alzo. La camicia fredda mi s'incolla alla carne. Ecco. Perché? Be', perché non ho pìù ragione per non farlo. Anche se rimanessi, anche se mi rannicchiassi in silenzio in un angolo, non mi dimenticherei. Sarei li, peserei sul pavimento. Sono.
Strada facendo compro un giornale. Sensazionale. Il corpo della piccola Luciana è stato ritrovato. Odore d'inchiostro, la carta mi si gualcisce tra le dita. L'ignobile individuo è fuggito. La bambina è stata violata. Hanno ritrovato il suo corpo, le dita contratte nel fango. Spiegazzo il giornale, ne faccio una palla, le dite contratte sul giornale; odore d'inchiostro. Mio Dio, come esistono forte, oggi, le cose! La piccola Luciana è stata violata. Strangolata. Il suo corpo esiste ancora, la sua carne martoriata. Lei non esiste piu. Le sue mani. Non esiste più. Le case. Cammino tra le case, sono tra le case, ritto sul selciato; il selciato sotto i miei piedi, esiste, le case si richiudono su di me, come l'acqua sì richiude su di me sulla carta in montagna di cigno, sono. Sono, esisto, penso dunque sono; sono perché penso, e perché penso? non voglio più pensare, sono perché penso che non voglio essere, penso che... perché... puà! Fuggo, l'ignobile individuo è fuggito, il suo corpo violato. Lei ha sentito quell'altra carne che penetrava nella sua. Io... ecco che io... Violata. Un dolce, sanguinoso desiderio di stupro, mi prende da dietro, dolcissimo, dietro le orecchie, le orecchie s'allungano dietro di me, i capelli rossi, sono rossi sulla mia testa, un'erba bagnata, un'erba rossa, sono ancora io? e il giornale sono ancora io? Tenere il giornale, esistenza contro esistenza, le cose esistono le une contro le altre, lascio cadere il giornale. Sorge la casa, esiste; davanti a me, lungo il muro io passo, lungo il lungo muro esisto, davanti al muro, un passo, il muro esiste davanti a me, uno, due, dietro di me, il muro è dietro di me, un dito che gratta nei miei calzoni, gratta, gratta e tira il dito della bambina macchiato di fango, il fango sul mio dito che usciva dal rigagnolo fangoso e ricadeva dolcemente, pian piano, s'afflosciava, grattava meno forte le dita della bambina ch'era strangolata, l'ignobile individuo, grattavano il fango, la terra meno forte, il dito scivola pian piano, e ricade a testa in giù e carezza rotolando caldo contro la mia coscia; l'esistenza è molle e rotola e sballotta, ed io sballotto tra le case, io sono, io esisto, penso dunque sballotto, sono, l'esistenza è una caduta, non cadrà, cadrà, il dito gratta contro la bottega, l'esistenza è un'imperfezione. Il signore. Il bel signore esiste. Il signore sente dì esistere. No, il bel signore che passa, fiero e dolce come un vilucchio, non sente dì esistere. Riposarsi; la mano ferita mi fa male, esiste, esiste, esiste. Il bel signore esiste Legion d'Onore, esiste baffi e basta; come si deve esser felici di non essere che una Legion d'Onore, e dei baffi, e il resto nessuno lo vede, vede le due punte dei baffi ai lati del naso; non penso dunque sono dei baffi. Non vede né il suo corpo magro, né i grandi piedi, frugandoli in fondo ai
pantaloni certo si scoprirebbe un paio di piccole gomme grige. Ha la Legion d'Onore, gli Sporcaccioni hanno il diritto di esistere: « esisto perché ne ho il diritto ». Ho il diritto di esistere, quindi ho il diritto di non pensare: il dito si alza. Forse sto per?... carezzare fra i bianchi lenzuoli dischiusi la carne bianca che si schiude e ricade dolcemente, toccare le fiorite umidità delle ascelle, gli elisir, i liquori, le infiorescenze della carne, entrare
nell'esistenza altrui, nelle rosse mucose dal pesante, dolce, dolce odore dì esistenza, sentirmi esistere tra le dolci labbra bagnate, le labbra rosse di pallido sangue, le labbra palpitanti che sì schiudono tutte bagnate d'esistenza, tutte bagnate di un pus chiaro, tra le labbra bagnate zuccherine che lacrimano come occhi? Il mio corpo dì carne che vive, la carne che brulica e rimescola lentamente liquori, che rimescola crema, la carne che mescola, mescola, mescola, l'acqua dolce e zuccherina della mia carne, il sangue della mia mano, ho male, un male dolce nella mia carne tormentata, che rimescola cammina io cammino, io fuggo, sono un ignobile individuo dalla carne tormentata, tormentata dall'esistenza contro questi muri. Ho freddo, faccio un passo, ho freddo, un passo, volto a sinistra, lui volta a sinistra, pensa che volta a sinistra, pazzo, sono pazzo? Dice che ha paura di essere pazzo, l'esistenza, vedi tu piccolo nell'esistenza, si ferma, il corpo si ferma, pensa che si ferma, da dove viene? Che cosa fa? Riprende a camminare, ha paura, molta paura, ignobile individuo, il desiderio come una nebbia, il desiderio, il disgusto, dice ch'è disgustato di esistere, è disgustato? stanco del disgusto di esistere. Corre. Cosa spera?
Corre per sfuggirsi, va a gettarsi in mare? Corre il cuore, il cuore che batte è una festa, il cuore esiste, le gambe esistono, il respiro esiste, esistono correndo, respirando, battendo, mollemente, pian piano si sfiata, mi sfiata, dice che si sfiata; l'esistenza mi prende i pensieri da dietro e lentamente li schiude da dietro; mi si prende da dietro, mi si costringe da dietro a pensare, e quindi ad essere qualcosa, dietro di me, che respiro in leggere bolle di esistenza, è bolla di nebbia di desiderio, è pallido nello specchio come un morto. Rollebon è morto, Antonio Roquentin non è morto, svanire; dice che vorrebbe svanire, corre, corre il furetto (da dietro) da dietro, da dietro, la piccola Luciana assalita da dietro, violata dall'esistenza da dietro, chiede grazia, ha vergogna di chiedere grazia, pietà, aiuto, aiuto, dunque esisto, entra al Bar della Marina, i piccoli specchi del piccolo bordello, è pallido nei piccoli specchi del piccolo bordello quel grande rosso molle che si lascia cadere sul sedile, il radiogrammofono suona, esiste, tutto gira, esiste il radiogrammofono, il cuore batte; girate, girate liquori della vita, girate gelatine, sciroppi della mia carne, dolcezze... il radiogrammofono:
When the mellow moon begins to beam
Every night I dream a little dream.
L'Autodidatta si raddolcisce. Aveva temuto una resistenza maggiore da parte mia. Vuol proprio passare una spugna su tutto quello che ha detto. Si piega verso di me con un'aria confidenziale:
- In fondo, lei li ama, signore, li ama come me: noi siamo separati soltanto da parole.
Non posso più parlare, chino la testa. Il viso dell'Autodidatta è proprio contro il mio. Sorride con aria sciocca, vicinissimo al mio viso, come negl'incubi. Mastico penosamente un pezzo di pane che non mi decido a trangugiare.
Gli uomini. Bisogna amarli, gli uomini. Gli uomini sono mirabili. Ho voglia di vomitare - e d'un tratto, ci siamo: ecco la Nausea.
Una bella crisi, che mi scuote da capo a piedi. È un'ora che la sentivo venire, soltanto non volevo confessarmelo. Questo sapore di formaggio dentro la mia bocca... L'Autodidatta chiacchiera, e la sua voce mi ronza
dolcemente alle orecchie. Ma non so più affatto di che cosa parla. Approvo macchinalmente con la testa. La mia mano è contratta sul manico del coltello da dessert. Sento questo manico di legno nero. È la mia mano che lo tiene. La mia mano. Personalmente, piuttosto lo lascerei tranquillo, questo coltello: a che scopo star sempre a toccare qualche cosa? Gli oggetti non son fatti perché uno li tocchi. È molto meglio scivolare tra di essi, evitandoli il più possibile. Qualche volta se ne prende uno in mano e si è costretti a lasciarlo al più presto. Il coltello cade sul piatto.
Al rumore il signore dai capelli bianchi sussulta e mi guarda. Riprendo il coltello, appoggio la lama contro la tavola e la faccio piegare. È dunque questa, la Nausea: quest'accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto - il mondo esiste - ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giuocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare.
Stavo per lanciare quel sassolino, l'ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. C'è stata la Nausea del « Ritrovo dei ferrovieri » e poi un'altra, prima, una notte in cui guardavo dalla finestra, e poi un'altra al giardino pubblico, una domenica, e poi altre. Ma non era mai stata cosi forte come oggi.
- ...della Roma antica, signore?
Mi pare che l'Autodidatta mi stia interrogando. Mi volgo verso di lui e gli sorrido. Ebbene? Che c'è? Perché si raggomitola sulla sua sedia? Faccio dunque paura, in questo momento? Doveva pur finire cosi. D'altronde m'è indifferente.
Non hanno affatto torto d'aver paura: sento che potrei fare qualunque cosa. Per esempio affondare questo coltello da formaggio nell'occhio deli'Autodidatta.
Dopo di che tutta questa gente mi calpesterebbe, mi spezzerebbe i denti a colpi di scarpa. Ma non è questo che mi trattiene: un sapore di sangue, in bocca, invece di questo sapore dì formaggio, non farebbe differenza. Soltanto bisognerebbe fare un gesto, far nascere un avvenimento superfluo:
sarebbe di troppo, il grido che lancerebbe l'Autodidatta - e il sangue che colerebbe sulla sua guancia, e il sussulto di tutta questa gente. Ce ne son già abbastanza di cose che esistono a questo mondo.
Tutti mi guardano; i due rappresentanti della giovinezza hanno interrotto il loro dolce colloquio. La donna ha aperto la bocca a culo di piccione. E tuttavia dovrebbe pur vedere che sono inoffensivo.
Mi alzo, tutto gira attorno a me. L'Autodidatta mi fissa coi suoi grandi occhi che non spaccherò.
- Se ne va di già? — mormora.
- Sono un po' stanco. È stato molto gentile ad invitarmi.
Arrivederci.
Andandomene, m'accorgo d'aver conservato in mano il coltello da dessert. Lo getto sul piatto che tintinna. Traverso la sala in mezzo al silenzio. Non mangiano più, mi guardano, il loro appetito è stato mozzato di colpo. Se
m'avanzassi verso la giovane donna facendo «Hon! » si metterebbe a urlare, ne son sicuro. Non ne vale la pena. Comunque, prima di uscire mi rivolgo e mostro loro la mia faccia, affinché possano imprimersela nella memoria.
- Arrivederci, signori e signore.
Non rispondono. Me ne vado. Ora le loro guance riprenderanno colore, e tutti si rimetteranno a chiacchierare. Non so dove andare e resto piantato accanto al cuoco di cartone. Non ho bisogno di voltarmi per sapere che mi stanno guardando attraverso i vetri: guardano la mia schiena con sorpresa e disgusto; credevano ch'io fossi come loro, che fossi un uomo ed io li ho ingannati. D'un tratto, ho perduto la mia apparenza d'uomo ed hanno visto un granchio che fuggiva a ritroso da quella sala così umana. Ora, l'intruso smascherato è fuggito; la seduta continua. Mi dà fastidio sentirmi sulla schiena tutto questo brulichio d'occhi e di pensieri sgomenti. Traverso la strada. L'altro marciapiede costeggia la spiaggia e le cabine da bagno. C'è molta gente che passeggia lungo il mare, volgono verso il mare volti primaverili, poetici: è per via del
sole, sono in festa. Ci sono donne vestite di chiaro, che hanno messo l'abito della primavera scorsa: passano lunghe e bianche come guanti di pelle lucida; vi son anche dei ragazzoni che vanno al liceo o alla Scuola commerciale, dei vecchi decorati. Non si conoscono, ma si guardano con un'aria di connivenza, perché il tempo è cosi bello e loro sono uomini. Nei giorni di dichiarazione di guerra gli uomini s'abbracciano senza conoscersi, e ad ogni primavera si sorridono. Un prete s'avanza a passi lenti, leggendo il breviario. Di quando in quando alza la testa e guarda il mare con aria d'approvazione, anche il
mare è un breviario, parla di Dio. Colori leggeri, leggeri profumi, animi primaverili. « È bel tempo, il mare è verde, preferisco questo freddo secco all'umidità ». Poeti! Se ne prendessi uno per il risvolto del cappotto, e gli dicessi « vienimi in aiuto», penserebbe «cos'è questo granchio?» e fuggirebbe lasciandomi il cappotto tra le mani.
Volgo loro la schiena, m'appoggio con ambe le mani alla balaustrata. Il vero mare è freddo e nero, pieno di bestie; striscia sotto questa sottile pellicola verde, fatta apposta per ingannare la gente. I silfi che mi circondano ci son cascati: non vedono altro che la sottile pellicola, essa è la prova dell'esistenza di Dio. Ma io vedo quello che c'è sotto! I colori fondono, le piccole scorze vellutate e brillanti, le piccole scorze di pesca del buon Dio vengono meno dappertutto, sotto il mio sguardo, si spaccano, si schiudono. Ecco il tram di Saint-Elémir, mi giro su me stesso e le cose girano con me, pallide e verdi come ostriche.
Inutile, era inutile saltar su poiché non voglio andare in nessun posto. Dietro i vetri sfilano oggetti bluastri, tutti rigidi e alteri, a scossoni. Persone, muri; attraverso le finestre aperte una casa m'offre il suo cuore nero; e i vetri fanno impallidire, azzurrano tutto ciò che è nero, azzurrano questo grande edifìcio in mattoni gialli che s'avanza esitando, rabbrividendo e che s'arresta di colpo impuntandosi. Sale un signore e si siede davanti a me. L'edificio giallo riparte, scivola d'un balzo contro i vetri, è talmente vicino che se ne vede soltanto più una parte, s'è oscurato. I vetri tremano. S'innalza, schiacciante, ben più alto di quanto non si possa vedere, con centinaia di finestre aperte sugli interni neri; scivola lungo la scatola, la rasenta; si è fatto buio, tra i vetri che tremano. Scivola interminabilmente, giallo come fango, e i vetri sono azzurro cielo. E di colpo non c'è più, è rimasto indietro, una viva chiarità grigia invade la scatola e si espande dappertutto con inesorabile giustìzia: è ìl cielo; attraverso i vetri si vedono ancora spessori e spessori di cielo, poiché si sale su per la collina Eìiphar e c'è un'ampia vista da tutt'e due le parti, a destra fino al mare, a sinistra fino al campo d'aviazione. Proibito fumare, perfino una gitane. Appoggio la mano sul sedile ma la ritiro precipitosamente: esiste. Questa cosa sulla quale son seduto, sulla quale appoggiavo la mano si chiama sedile. L'hanno fatta apposta perché uno possa sedercisi, hanno preso del cuoio, delle molle, della stoffa, e si son messi al lavoro con l'idea di fare un sedile, e quando hanno finito, era questo che avevano fatto. L'hanno portato qui, in questa scatola, e adesso la scatola rotola e traballa, coi vetri che tremano, e porta nel suoi fianchi questa cosa rossa. Mormoro: è un sedile, un po' come un esorcismo. Ma la parola mi resta sulle labbra: rifiuta d'andare a posarsi sulla cosa. Questa rimane quella che è, con la sua felpa rossa, con migliaia di striscette rosse, tutte rigide, che sembrano zampette morte. Questo enorme ventre all'aria, sanguinante, rigonfio - rimpinzato, con tutte le sue zampe morte, ventre che fluttua in questa scatola, nel cielo grigio, non è un sedile. Potrebbe essere altrettanto bene un asino morto, per esempio, gonfiato dall'acqua, e che fluttua alla deriva, a pancia all'aria, in un gran fiume grigio, un fiume d'inondazione; ed io sarei seduto sul ventre dell'asino, ed i miei piedi sarebbero a bagno nell'acqua chiara. Le cose si sono disfatte dei loro nomi. Son li, grottesche, caparbie, gigantesche, e sembra stupido chiamarle sedili o dire qualsiasi cosa su di esse: io sono in mezzo alle Cose, le innominabili.
Solo, senza parole, senza difesa, esse mi circondano, sotto di me, dietro di me, sopra di me. Non esigono nulla, non s'impongono: son lì. Sotto il cuscino del sedile, contro la parete di legno c'è una piccola linea d'ombra, una piccola linea nera che corre lungo il sedile con un'aria misteriosa e birichina, quasi un sorriso. So benissimo che non è un sorriso, e tuttavia esiste, corre sotto i vetri biancastri, sotto il fracasso dei vetri, s'ostina sotto le immagini azzurre che sfilano dietro i vetri e s'arrestano e ripartono; s'ostina, come il ricordo impreciso d'un sorriso, come una parola a metà obliata di cui non ci si ricorda che la prima sillaba e il meglio che si possa fare è di girare gli occhi e di pensare ad altro, a quell'uomo semisdraiato sul sedile, lì, davanti a me. La sua testa di terracotta dagli occhi azzurri. Tutta la parte destra del suo corpo s'è abbandonata, il braccio destro è incollato al corpo, il lato destro vive appena, con fatica, con avarizia, come fosse paralizzato. Ma su tutto il lato sinistro c'è una piccola esistenza parassita che prolifera, un cancro: il braccio si è messo a tremargli, e poi s'è alzato, e la mano, in cima, era rigida. Poi anche la mano s'è messa a tremargli, e quando è arrivata all'altezza del cranio, un dito s'è messo a grattare con l'unghia il cuoio capelluto. Una specie dì smorfia voluttuosa è venuta ad abitare la parte destra della bocca, mentre la parte sinistra restava morta. I vetri tremano, il braccio trema, l'unghia gratta, gratta, la bocca sorride sotto gli occhi fissi, e l'uomo sopporta senza accorgersene questa piccola esistenza che gli gonfia il lato destro, e che per realizzarsi ha preso in prestito il suo braccio destro e la guancia destra.
Il bigliettaio mi sbarra la strada.
- Aspettate la fermata.
Ma lo respingo e salto giù dal tram. Non ne potevo più. Non potevo sopportare che le cose fossero cosi vicine. Spingo un cancello, entro, delle leggere esistenze balzano su e s'appollaiano sulle cime. Ora mi riconosco, so dove sono: sono al giardino pubblico. Mi lascio cadere su una panchina tra i grandi tronchi neri, tra le mani nere e nodose che si tendono verso il cielo. Un albero gratta la terra sotto i miei piedi con un'unghia nera. Vorrei tanto lasciarmi andare, dimenticarmi, dormire. Ma non posso, soffoco: l'esistenza mi penetra da tutte le parti, dagli occhi, dal naso, dalla bocca...
E d'un tratto, d'un sol tratto, il velo si squarcia, ho compreso, ho visto.
Le sei di sera.
Non posso dire di sentirmi sollevato né contento: al contrario, è una cosa che m'accascia. Soltanto, il mio scopo è raggiunto: so quello che volevo sapere; tutto quello che m'è accaduto dal mese di gennaio l'ho capito
ora. La Nausea non m'ha lasciato e non credo che mi lascerà tanto presto; ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso.
Dunque, poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s'affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po' chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto questo lampo d'illuminazione.
Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire «esistere». Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro « il mare è verde; quel punto bianco, lassù, è un gabbiano » ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un « gabbiano esistente»; di solito l'esistenza si nasconde. È li, attorno a noi, è noi, non si può dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca. Quando credevo di pensare ad essa, evidentemente non pensavo nulla, avevo la testa vuota, o soltanto una parola, in testa, la parola «essere». Oppure pensavo... come dire? Pensavo all'appartenenza, mi dicevo che il mare apparteneva alla classe degli oggetti verdi o che il verde faceva parte delle qualità del mare. Anche quando guardavo le cose, ero a cento miglia dal pensare che esistevano: m'apparivano come un ornamento. Le prendevo in mano, mi servivano come utensili, prevedevo la loro resistenza ma tutto ciò accadeva alla superficie. Se mi avessero domandato che cosa era l'esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d'un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l'esistenza s'era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell'esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s'era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine — nude, d'una spaventosa e oscena nudità.
Mi astenevo dal fare il minimo movimento ma non avevo bisogno di muovermi per vedere, dietro gli alberi, le colonne azzurre e il lampadario del chiosco della musica, e la Velleda in mezzo ad un gruppo di allori. Tutti questi oggetti... come dire? M'infastidivano: avrei desiderato che esistessero in maniera meno forte, in un modo più secco, più astratto, con più ritegno. Il castagno mi si premeva contro gli occhi. Una ruggine verde lo copriva sino a mezz'altezza; la corteccia nera e rigonfia sembrava di cuoio bollito.
Il tenue rumore d'acqua della fontana Masqueret mi scorreva dentro le orecchie e vi si faceva un nido, le riempiva di sospiri; le mie narici traboccavano d'un odore verde e putrido. Ogni cosa si lasciava andare all'esistenza, dolcemente, teneramente, come quelle donne stanche che s'abbandonano al riso e dicono: «Ridere fa bene» con voce molle; le cose si stendevano l'una di fronte all'altra facendosi l'abbietta confidenza della propria esistenza.
Compresi che non c'era via di mezzo tra l'inesistenza e questa sdilinquita abbondanza. Se si esisteva, bisognava esistere fin li, fino alla muffa, al rigonfiamento, all'oscenità. In un altro mondo, i circoli, le arie musicali conservano le loro linee pure e rigide. Ma l'esistenza è un cedimento. Degli alberi, dei pilastri blu-notte, il rantolo felice d'una fontana, degli odori acuti, dei piccoli cirri di calore che fluttuavano nell'aria fredda, un uomo rosso che faceva il chilo su una panchina: tutte queste sonnolenze, tutte queste digestioni prese insieme offrivano un aspetto vagamente comico. Comico... no: non arrivava a tanto, niente di ciò che esiste può essere comico; era come un'analogia fluttuante, quasi inafferrabile, con certe situazioni da operetta. Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser li, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose, Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda... Ed io — fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri — anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e polite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità.
La parola Assurdità nasce ora sotto la mia penna; poco fa, al giardino, non l'avevo trovata, ma nemmeno la cercavo, non ne avevo bisogno: pensavo senza parole, sulle cose, con le cose. L'assurdità non era un'idea nella mia
testa, né un soffio di voce, ma quel lungo serpente morto che avevo al piedi, quel serpente di legno. Serpente o radice o artiglio d'avvoltoio, poco importa. E senza nulla formulare nettamente capivo che avevo trovato la chiave dell'Esistenza, la chiave delle mie Nausee, della mia vita stessa. Difatti, tutto ciò che ho potuto afferrare in seguito si riporta a questa assurdità fondamentale. Assurdità: ancora una parola; mi dibatto contro le parole; laggiù nel giardino, la toccavo, la cosa. Ma qui vorrei fissare il carattere assoluto di quest'assurdità. Un gesto, un avvenimento nel piccolo mondo colorito degli uomini non è mai assurdo che relativamente: in rapporto alle circostanze che l'accompagnano. I discorsi d'un pazzo, per esempio, sono assurdi in rapporto alla situazione in cui si trova, ma non in rapporto al suo delirio. Ma io, poco fa, ho fatto l'esperienza dell'assoluto: l'assoluto o l'assurdo. Quella radice: non v'era nulla in rapporto a cui essa non fosse assurda.
Oh! Come potrò spiegare questo con parole? Assurda: in rapporto ai sassi, ai cespugli d'erba gialla, al fango secco, all'albero, al cielo, alle panche verdi. Assurda, irriducibile; niente — nemmeno un delirio profondo e segreto della natura- poteva spiegarla. Naturalmente, io non sapevo tutto, non avevo visto il germe svilupparsi e l'albero crescere. Ma davanti a quella grossa zampa rugosa, né l'ignoranza né il sapere avevano importanza: il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell'esistenza. Un cerchio non è assurdo, si spiega benissimo con la rotazione d'un segmento attorno ad una delle sue estremità. Ma pure il cerchio non esiste. Quella radice, al contrario, esisteva, e in modo che io non potevo spiegarla. Nodosa, inerte, senza nome, essa mi affascinava, mi riempiva gli occhi, mi riportava continuamente alla sua propria esistenza. Avevo un bel ripetermi: « È una radice » - non attaccava più. Capivo bene che non si poteva passare dalla sua funzione di radice, di pompa aspirante, a questo, a questa pelle dura e compatta di foca, a quell'aspetto oleoso, calloso, caparbio. La funzione non spiegava niente: permetteva di comprendere all'ingrosso che cosa era una radice, ma per nulla affatto la radice stessa. Questa radice qui, col suo colore, la sua forma, il suo movimento congelato, era... al di sotto di qualsiasi spiegazione. Ciascuna delle sue qualità le sfuggiva un poco, traboccava fuori di essa, si solidificava a metà, diventava quasi una cosa; ciascuna di esse era di troppo nella radice, e il ceppo tutt'intero mi dava ora l'impressione di rotolare un po' fuori di se stesso, di negarsi, di perdersi in uno strano eccesso. Ho raschiato il mio tallone contro quell'artiglio nero: avrei voluto scorticarlo un po'. Per niente, per sfida, per far apparire su quel cuoio conciato il rosa assurdo d'un'abrasione: per giuocare con l'assurdità del mondo. Ma quando ho ritirato il piede ho visto che la corteccia era rimasta nera.
Nera? Ho sentito la parola sgonfiarsi, svuotarsi del suo senso con una rapidità straordinaria. Nera? La radice non era nera. Non c'era del nero su quel pezzo di legno - c'era... un'altra cosa: il nero, come il cerchio, non esisteva.
Guardavo la radice: era più che nera o quasi nera? Ma ben presto ho smesso d'interrogarmi poiché ho avuto l'impressione di trovarmi in una zona che conoscevo. Si, avevo già scrutato, con quella stessa inquietudine,
innumerevoli oggetti, avevo già cercato — vanamente — di pensare qualcosa su di essi: ed avevo già sentito le loro qualità, fredde e inerti, sottrarsi e scivolarmi di tra le dita. Le bretelle d'Adolfo, l'altra sera, al « Ritrovo dei ferrovieri », non erano viola. Ho riveduto le due macchie indefinibili sulla camicia. E il ciottolo, quel famoso ciottolo, l'origine di tutta questa storia: non era... non mi son ricordato bene, esattamente, ciò che si era rifiutato di essere, ma non avevo dimenticato la sua resistenza passiva. E la mano dell'Autodidatta; l'avevo presa e stretta, un giorno, in biblioteca, e poi avevo avuto l'impressione che non fosse proprio una mano. Avevo pensato ad un grosso verme bianco, ma non era neanche questo. E poi quella losca trasparenza del bicchiere di birra al caffè Mably. Loschi, ecco che cosa erano, i suoni, i profumi, i sapori. Quando vi passavano rapidamente sotto il naso come lepri stanate, e non vi si faceva troppa attenzione, si poteva crederli del tutto semplici e rassicuranti, si poteva credere che al mondo ci fosse del vero azzurro, del vero rosso, del vero odore di mandorla o di violetta. Ma non appena uno li tratteneva un istante, questo senso di conforto, di sicurezza, cedeva il posto ad un profondo disagio: i colori, i sapori, gli odori, non erano mai veri, mai del tutto schiettamente se stessi e null'altro che se stessi. La qualità più semplice, la più indecomponibile aveva del di più, in se stessa, in rapporto a se stessa, nel suo stesso seno. Quel nero, lì, contro il mio piede, non aveva l'aria d'essere del nero, ma piuttosto lo sforzo confuso per immaginare del nero di qualcuno che non ne aveva mai visto, che non aveva saputo fermarsi, ed aveva immaginato un essere ambiguo, al di là dei colori. Rassomigliava a un colore, ma pure... ad una lividura, o, ancora, ad una secrezione, ad una essudazione — e ad altro, a un odore, per esempio, si fondeva in un odore di terra bagnata, di legno tiepido e bagnato, in odore nero steso come una vernice su quel legno nervato, in sapore di fibra masticata, zuccherina. Non lo vedevo semplicemente, questo nero: la vista è un'invenzione astratta, un'idea ripulita, semplificata, una idea d'uomo. Quel nero lì, presenza amorfa e fiacca, oltrepassava di gran lunga la vista, l'odorato e il gusto. Ma questa dovizia finiva per diventare confusione, e, infine, non era più niente perché era troppo.
Questo momento è stato straordinario. Ero lì, immobile e gelato, immerso in un'estasi orribile. Ma nel seno stesso di quest'estasi era nato qualcosa di nuovo: comprendevo la Nausea, ora, la possedevo. A dire il vero, non mi formulavo
la mia scoperta. Ma credo che ora mi sarebbe facile metterla in parole. L'essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l'esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C'è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c'è alcun essere necessario che può spiegare l'esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un'apparenza che si può dissipare; è l'assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare, come l'altra sera al « Ritrovo dei ferrovieri »: ecco la Nausea; ecco quello che gli Sporcaccioni - quelli di Poggio Verde e gli altri - tentano di nascondersi con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.
Quanto è durato quell'incantesimo? Io ero la radice del castagno. O meglio io ero, tutt'intero, la coscienza della sua esistenza. Ancora staccato da essa - poiché ne avevo coscienza — e tuttavia perduto in essa, nient'altro che essa.
Una coscienza a disagio e che tuttavia si lasciava andare con tutto il peso, in equilibrio instabile, su quel pezzo di legno inerte. Il tempo s'era fermato: una piccola pozza nera ai miei piedi; era impossibile che venisse qualcosa dopo quel momento lì. Avrei voluto strapparmi a quell'atroce godimento, ma non pensavo nemmeno che ciò fosse possibile; ci ero dentro; il ceppo nero non passava, mi restava lì, negli occhi, come un boccone troppo grosso resta di traverso in una gola. Non potevo né accettarlo né rifiutarlo. A prezzo di quale sforzo son riuscito ad alzare gli occhi? Anzi, lì ho proprio alzati? non mi son piuttosto annullato per un istante, per rinascere l'istante dopo con la testa voltata e gli occhi stornati verso l'alto? In realtà, non ho avuto coscienza d'un passaggio. Ma, d'un tratto, m'è divenuto impossibile pensare all'esistenza della radice. S'era cancellata, avevo un bel ripetermi: essa esiste, è ancora lì, sotto la panca, contro il mio piede destro, ciò non voleva più dir nulla. L'esistenza non è qualcosa che si lasci pensare da lontano: bisogna che v'invada bruscamente, che si fermi su di voi, che vi pesi greve sullo stomaco come una grossa bestia immobile - altrimenti non c'è assolutamente più nulla.
Non c'era assolutamente più nulla; avevo gli occhi vuoti, ed ero felice della mia liberazione. E poi, d'un tratto, qualcosa s'è messo ad agitarmisi davanti agli occhi, dei movimenti leggeri e incerti: il vento scuoteva la cima dell'albero.
Non mi dispiaceva veder muoversi qualcosa, ciò rappresentava una variante di tutte quelle esistenze immobili che mi guardavano come occhi fissi. Seguendo con lo sguardo il dondolio dei rami mi dicevo: i movimenti non esistono mai del tutto, sono passaggi, sono intermediari tra due esistenze, intervalli. Mi preparavo a vederli uscire dal nulla, maturare progressivamente, svilupparsi: stavo finalmente per sorprendere delle esistenze in procinto di nascere.
In meno di tre secondi tutte le mie speranze sono state spazzate via. Su quei rami esitanti che brancolavano ciecamente all'intorno, non sono riuscito ad afferrare alcun « passaggio » all'esistenza. Quest'idea di passaggio era un'altra invenzione degli uomini. Un'idea troppo chiara. Tutte quelle minute agitazioni s'isolavano, si determinavano per se stesse. Traboccavano da tutte le parti dai rami e i ramoscelli. Turbinavano attorno a quelle mani secche, le avvolgevano di piccoli cicloni. Naturalmente, un movimento era una cosa diversa da un albero. Ma era ugualmente un assoluto. Una cosa. I miei occhi non incontravano mai altro che del pieno. In cima ai rami brulicavano esistenze, esistenze che si rinnovavano continuamente e che non nascevano mai. Il vento esistente veniva a posarsi sull'albero come una grossa mosca, e l'albero rabbrividiva. Ma il brivido non era una qualità nascente, un passaggio dalla potenzialità all'atto; era una cosa; una cosa-brivido scorreva nell'albero, se ne impadroniva, lo scuoteva, e di colpo l'abbandonava, se ne andava più in là a girare su se stessa. Tutto era pieno, tutto era in atto, non c'era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po' d'esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all'albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l'esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo. L'esistenza dappertutto, all'infinito, esistenza di troppo, sempre e dappertutto; l'esistenza — che non è mai limitata che dall'esistenza. Mi son lasciato andare sulla panchina, stordito, ottuso di quella profusione di esseri senza origine: dappertutto sbocci, sviluppi, le mie orecchie ronzavano d'esistenza, la mia carne stessa palpitava e si schiudeva, s'abbandonava al pullulamento universale, una cosa ripugnante. « Ma perché, - ho pensato, - perché tante esistenze, visto che si rassomigliano tutte? » A che pro tanti alberi tutti simili? Tante esistenze mancate e ostinatamente ricominciate e di nuovo mancate — come gli sforzi maldestri d'un insetto caduto sul dorso? (Io ero uno di questi sforzi). Quell'abbondanza non faceva l'effetto della generosità, al contrario. Era tetra, meschina, imbarazzata di se stessa. Quegli alberi, quei gran corpi sgraziati... Mi son messo a ridere poiché d'un tratto ho pensato alle formidabili primavere che si descrivono nei libri, piene di spaccature, di scoppi, di sbocci giganteschi.
C'erano imbecilli che venivano a parlarvi di volontà di potenza e di lotta per la vita. Si vede che non avevano mai guardato una bestia né un albero. Quel platano, con le sue macchie di tigna, quella quercia mezza fradicia,
avrebbero voluto gabellarmele per giovani forze violente che zampillavano verso il cielo. E quella radice? Senza dubbio avrei dovuto rappresentarmela come un artiglio vorace che squarciava la terra, per strapparle il suo nutrimento?
Impossibile veder le cose a quel modo. Delle mollezze, delle debolezze, questo sì. Gli alberi ondeggiavano. Uno zampillamento verso il cielo? Era piuttosto un afflosciamento, da un momento all'altro m'aspettavo di vedere i tronchi raggrinzirsi come verghe stanche, afflosciarsi e cadere al suolo in un mucchio nero pieno di pieghe. Non avevano voglia di esistere, solo che non potevano esimersene, ecco. E allora facevano tutte le loro piccole funzioni, pianamente, senza slancio: la linfa saliva lentamente entro i vasi, controvoglia, e le radici s'affondavano lentamente nella terra. Ma ad ogni momento sembravano sul punto di piantar tutto lì e annullarsi. Stanchi e vecchi, continuavano ad esistere, di malavoglia, semplicemente perché erano troppo deboli per morire, perché la morte poteva venir loro solo dall'esterno: solo le arie musicali sanno portare fieramente la loro propria morte in sé come una necessità interna; soltanto che esse non esistono. Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione. Mi son lasciato andare all'indietro e ho chiuso gli occhi. Ma le mie fantasie, subito risvegliate, son balzate su e son venute a riempire d'esistenze i miei occhi chiusi: l'esistenza è un pieno che l'uomo non può abbandonare.
Strane immagini. Rappresentavano una folla di cose. Non cose vere, altre che gli rassomigliavano. Oggetti di legno che rassomigliavano a sedie, a zoccoli, altri oggetti che rassomigliavano a piante. E poi due facce: era la coppia che aveva pranzato vicino a me, l'altra domenica, alla birreria Vézelize. Grassi, caldi, sensuali, assurdi, con le orecchie rosse. Vedevo le spalle e il petto della donna.
Esistenza nuda. Quei due là - d'un tratto, ciò mi ha fatto orrore -, quei due là continuavano ad esistere da qualche parte di Bouville; da qualche parte - in mezzo a quali odori? — quel petto morbido continuava a carezzarsi contro stoffe fresche, a raccogliersi nei merletti e la donna continuava a sentirsi il petto esistere nella sua blusa, a pensare: « le mie tettine, i miei bei frutti », e a sorridere misteriosamente, attenta all'espandersi dei suoi seni che la solleticavano, e poi ho gridato e mi son ritrovato, con gli occhi sbarrati.
Ch'io l'abbia sognata, quell'enorme presenza? Era lì, posata sul giardino, precipitata negli alberi, moltissima, impiastricciando tutto, densissima, una mostarda. Ed io ci ero dentro, io, con tutto il giardino? Avevo paura, ma soprattutto ero arrabbiato, trovavo ch'era una cosa cosi stupida, così fuori posto, e l'odiavo, quell'ignobile marmellata. Quanta ce n'era! Arrivava fino al cielo, e invadeva tutto, tutto riempiva col suo abbraccio gelatinoso, e ne vedevo in quantità sempre più grande, ben oltre i confini del giardino, oltre le case, oltre Bouville, non ero più a Bouville, non ero in nessun posto, fluttuavo. Non ero sorpreso, sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d'un tratto, e soffocavo di rabbia contro questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c'era stato niente prima di esso. Niente. Non c'era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m'irritava: senza dubbio non c'era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile: per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un'idea nella mia testa, un'idea esistente, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era venuto prima dell'esistenza, era un'esistenza come un'altra e apparsa dopo molte altre. Ho gridato «che porcheria, che porcheria!» e mi son scrollato per sbarazzarmi di questa porcheria appiccicosa, ma questa teneva duro, e ce n'era tanta, tonnellate e tonnellate d'esistenza, indefinitamente: soffocavo nel fondo di quest'immensa noia. E poi, d'un tratto, il giardino s'è vuotato come per un gran buco, il mondo è sparito allo stesso modo come era venuto, oppure mi son risvegliato - in ogni caso non l'ho visto più: attorno a me rimaneva della terra gialla, dalla quale uscivano dei rami morti drizzati in aria.
Mi sono alzato, sono uscito. Arrivato alla cancellata mi son voltato. Allora il giardino m'ha sorriso. Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo. Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualche cosa; era questo il vero segreto dell'esistenza. Mi son ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie d'aria di complicità. Era diretta a me? Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là, sul tronco del castagno... era il castagno. Le cose si sarebbero dette pensieri che si fermassero a metà strada, che s'obliassero, che obliassero ciò che avevano voluto pensare, e che restassero cosi, ondeggianti, con un bizzarro, piccolo significato che le sorpassava. M'infastidiva, questo piccolo significato: non potevo comprenderlo, nemmeno se fossi rimasto centosette anni appoggiato a quella cancellata; avevo appreso sull'esistenza tutto quello che potevo sapere.
Me ne sono andato, sono rientrato all'albergo, ed ecco qua, ho scritto.
Suonano le quattro. È già un'ora che son qui, con le braccia penzoloni sulla mia sedia. Comincia a far buio. A parte questo, nella stanza nulla è cambiato; la carta bianca è sempre sul tavolo, accanto alla stilografica e all'inchiostro.
Ma non scriverò mai più sul foglio cominciato. Non andrò più per via dei Mutilati e il viale del Fortino, in biblioteca a consultare gli archivi.
Ho voglia di alzarmi e d'uscire; di fare una cosa qualsiasi per stordirmi. Ma se alzo un dito, se non me ne sto assolutamente fermo, so benissimo cosa mi capiterà. E non voglio che mi capiti ancora. Tornerà sempre anche troppo presto. Non mi muovo: macchinalmente leggo sul foglio del blocco il brano incompiuto:
« Avevano avuto cura di spargere le voci più
sinistre. Evidentemente il signor di Rollebon dovette lasciarsi trarre in inganno, poiché, in data 13 settembre, scriveva al nipote di aver redatto il proprio testamento ».
Il grande affare Rollebon è finito, come una grande passione. Bisognerà trovare qualche altra cosa. Qualche anno fa, a Sciangaì, nell'ufficio di Mercier, uscii improvvisamente da un sogno, mi svegliai. Poi feci un altro sogno: vivevo alla corte degli Zar, in vecchi palazzi cosi freddi che d'inverno sopra le porte si formavano stalattiti di ghiaccio. -Oggi mi sono svegliato davanti a un blocco di carta bianca. Le fiaccole, le feste glaciali, le uniformi, le belle spalle tremanti sono scomparse. Al loro posto, qualcosa resta nella stanza tiepida, qualcosa ch'io non voglio vedere.
Il signor di Rollebon era mio socio: per esistere aveva bisogno di me, e io avevo bisogno di lui per non sentire la mia esistenza. Io fornivo la materia bruta; di questa ne avevo da vendere e non sapevo che farne: l'esistenza, la mia esistenza.Lui, invece, la sua parte era di rappresentare. Mi stava di fronte e s'era impadronito della mia vita per rappresentarmi la sua. Non m'accorgevo più che esistevo; non esistevo più in me, ma in lui: era per lui che mangiavo, per lui che respiravo, ognuno dei miei movimenti trovava la sua giustificazione al di fuori, là, di fronte a me, in lui; non vedevo più la mia mano che tracciava le parole sulla carta, e nemmeno la frase che avevo scritta - ma dietro, al di là della carta, vedevo il marchese, che aveva reclamato questo gesto e del quale questo gesto prolungava e consolidava l'esistenza. Io non ero che un mezzo di farlo vivere, lui era la mia ragion d'essere, mi aveva liberato da me stesso. Cos'avrei fatto, ora?
Soprattutto non muoversi, non muoversi... Ah! Questo movimento delle spalle, non ho potuto trattenerlo... La Cosa, che aspettava, s'è svegliata, mi s'è sciolta addosso, cola dentro di me, ne son pieno... Non è niente: la Cosa sono io. L'esistenza liberata, svincolata, rifluisce in me. Esisto. Esisto. È dolce, dolcissimo, lentissimo. E leggero: si direbbe che stia sospeso in aria da solo. Si muove. Mi sfiora dappertutto, sì scioglie, svanisce. Dolcissimo, dolcissimo. Ho la bocca piena d'acqua spumosa. L'inghiotto, mi scivola in gola, mi carezza, ed ecco che mi rinasce in bocca:
nella bocca mi rimane di continuo una piccola pozza d'acqua biancastra, discreta, che mi sfiora la lingua. E questa pozza sono ancora io. E la lingua. E la gola, sono io.
Vedo la mia mano che sì schiude sul tavolo. Essa vive - sono io. Si apre, le dita si spiegano e si tendono. È posata sul dorso. Mi mostra il suo ventre grasso. Sembra una bestia rovesciata. Le dita sono le zampe. Mi diverto a muoverle, in fretta, come le zampe d'un granchio caduto sul dorso. Il granchio è morto, le zampe si rattrappiscono, si richiudono sul ventre della mia mano. Vedo le unghie - la sola cosa di me che non viva. E ancora. La mia mano si rivolta, si stende pancia a terra, adesso mi presenta il dorso. Un dorso argentato, un po' brillante - sembrerebbe un pesce, se non avesse dei peli rossi al principio delle falangi. Sento la mia mano. Sono io, queste due bestie che s'agitano all'estremità delle mie braccia. La mia mano si gratta una zampa con l'unghia d'un'altra zampa: sento il suo peso sul tavolo, che non sono io. Continua, continua questa impressione del peso, non passa mai. Non c'è ragione perché passi. Alla lunga, è intollerabile... Ritiro la mano, me la metto in tasca. Ma subito, attraverso la stoffa, sento il calore della coscia. Ritraggo subito la mano di tasca e la lascio penzolare contro lo schienale della sedia. Adesso ne sento il peso in cima al braccio. Pesa un po', appena appena, mollemente, midollosamente esiste. Non insisto più: dovunque la metta, continuerà ad esistere ed io continuerò a sentire che esiste; non posso sopprimerla, come non posso sopprimere il resto del mio corpo, il calore umido che m'insudicia la camicia, né tutto questo grasso caldo che si muove pigramente come se lo si rimescolasse col cucchiaio, né tutte le sensazioni che circolano lì dentro, che vanno e vengono, che salgono dal fianco all'ascella, oppure vegetano tranquillamente, dal mattino alla sera, nel loro angolo abituale.
Mi alzo di scatto: se soltanto potessi smettere di pensare, andrebbe già meglio. I pensieri, non c'è niente di più insipido. Ancora più insipido della carne. Sì trascinano a non finire e lasciano un gusto strano. E poi ci sono le parole, dentro i pensieri, le parole incompiute, le frasi abbozzate che ritornano sempre: «Bisogna che fini... Io esi... Morto... Il signor di Roll è morto... Non sono... Io esi...» E cosi via, cosi via..., non finisce mai. È peggio di tutto il resto, perché me ne sento responsabile e complice. Per esempio questo doloroso rimuginare: io esisto, sono io stesso che lo faccio durare. Io. Il corpo, quello vive da solo, una volta che ha cominciato. Ma il pensiero sono io che lo continuo, lo svolgo. Esisto. Penso che esisto. Oh! che lunga serpentina, questo sentimento di esistere, e sono io che Io voglio, piano, piano... Se potessi trattenermi dal pensare. Provo, ci riesco; mi pare che la testa mi s'empia di fumo... ed ecco che ricomincia: «Fumo... non pensare... non voglio pensare... penso che non voglio pensare. Non bisogna che pensi che non voglio pensare. Perché anche questo è un pensiero ».
Non finirà mai, dunque?
Il mio pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso... e non posso impedirmi di pensare. In questo momento stesso — è spaventoso - se esisto è perché ho orrore di esistere. Sono io, io, che mi traggo dal niente al quale aspiro: l'odio, il disgusto di esistere sono altrettanti modi di farmi esistere; di affondarmi nell'esistenza. I pensieri nascono dietro di me, come una vertigine, me li sento nascere dietro la testa... se cedo, mi arriveranno davanti, tra gli occhi - e io cedo sempre, e il pensiero s'ingrossa, s'ingrossa ed eccolo, immenso, che mi riempie tutt'intero e rinnova la mia esistenza. La mia saliva è dolciastra, il corpo è tiepido, mi sento insipido.
Il mio temperino è sul tavolo. L'apro. Perché no? In ogni modo porterà un piccolo cambiamento. Poso la mano sinistra sul block-notes e mi vibro un bel colpo sulla palma. Il gesto era troppo nervoso; la lama è scivolata, la
ferita è superficiale. Sanguina. E adesso? Cosa c'è di cambiato? Comunque, guardo con soddisfazione, sul foglio bianco, sopra le righe che ho scritto poco fa, questa piccola pozza di sangue che ha cessato finalmente di essere me. Quattro righe su un foglio bianco, una macchia di sangue, ecco un bel ricordo. Dovrò scriverci sotto: « In questo giorno ho rinunciato a fare il mio libro sul marchese dì Rollebon ».
Debbo medicarmi la mano? Esito. Guardo il monotono sgorgare del sangue. Ecco che si coagula. È finito. La pelle è come arrugginita intorno al taglio. Sotto la pelle non rimane che una piccola sensazione eguale alle altre, forse ancor più insipida.
Suonano le cinque e mezzo. Mi alzo. La camicia fredda mi s'incolla alla carne. Ecco. Perché? Be', perché non ho pìù ragione per non farlo. Anche se rimanessi, anche se mi rannicchiassi in silenzio in un angolo, non mi dimenticherei. Sarei li, peserei sul pavimento. Sono.
Strada facendo compro un giornale. Sensazionale. Il corpo della piccola Luciana è stato ritrovato. Odore d'inchiostro, la carta mi si gualcisce tra le dita. L'ignobile individuo è fuggito. La bambina è stata violata. Hanno ritrovato il suo corpo, le dita contratte nel fango. Spiegazzo il giornale, ne faccio una palla, le dite contratte sul giornale; odore d'inchiostro. Mio Dio, come esistono forte, oggi, le cose! La piccola Luciana è stata violata. Strangolata. Il suo corpo esiste ancora, la sua carne martoriata. Lei non esiste piu. Le sue mani. Non esiste più. Le case. Cammino tra le case, sono tra le case, ritto sul selciato; il selciato sotto i miei piedi, esiste, le case si richiudono su di me, come l'acqua sì richiude su di me sulla carta in montagna di cigno, sono. Sono, esisto, penso dunque sono; sono perché penso, e perché penso? non voglio più pensare, sono perché penso che non voglio essere, penso che... perché... puà! Fuggo, l'ignobile individuo è fuggito, il suo corpo violato. Lei ha sentito quell'altra carne che penetrava nella sua. Io... ecco che io... Violata. Un dolce, sanguinoso desiderio di stupro, mi prende da dietro, dolcissimo, dietro le orecchie, le orecchie s'allungano dietro di me, i capelli rossi, sono rossi sulla mia testa, un'erba bagnata, un'erba rossa, sono ancora io? e il giornale sono ancora io? Tenere il giornale, esistenza contro esistenza, le cose esistono le une contro le altre, lascio cadere il giornale. Sorge la casa, esiste; davanti a me, lungo il muro io passo, lungo il lungo muro esisto, davanti al muro, un passo, il muro esiste davanti a me, uno, due, dietro di me, il muro è dietro di me, un dito che gratta nei miei calzoni, gratta, gratta e tira il dito della bambina macchiato di fango, il fango sul mio dito che usciva dal rigagnolo fangoso e ricadeva dolcemente, pian piano, s'afflosciava, grattava meno forte le dita della bambina ch'era strangolata, l'ignobile individuo, grattavano il fango, la terra meno forte, il dito scivola pian piano, e ricade a testa in giù e carezza rotolando caldo contro la mia coscia; l'esistenza è molle e rotola e sballotta, ed io sballotto tra le case, io sono, io esisto, penso dunque sballotto, sono, l'esistenza è una caduta, non cadrà, cadrà, il dito gratta contro la bottega, l'esistenza è un'imperfezione. Il signore. Il bel signore esiste. Il signore sente dì esistere. No, il bel signore che passa, fiero e dolce come un vilucchio, non sente dì esistere. Riposarsi; la mano ferita mi fa male, esiste, esiste, esiste. Il bel signore esiste Legion d'Onore, esiste baffi e basta; come si deve esser felici di non essere che una Legion d'Onore, e dei baffi, e il resto nessuno lo vede, vede le due punte dei baffi ai lati del naso; non penso dunque sono dei baffi. Non vede né il suo corpo magro, né i grandi piedi, frugandoli in fondo ai
pantaloni certo si scoprirebbe un paio di piccole gomme grige. Ha la Legion d'Onore, gli Sporcaccioni hanno il diritto di esistere: « esisto perché ne ho il diritto ». Ho il diritto di esistere, quindi ho il diritto di non pensare: il dito si alza. Forse sto per?... carezzare fra i bianchi lenzuoli dischiusi la carne bianca che si schiude e ricade dolcemente, toccare le fiorite umidità delle ascelle, gli elisir, i liquori, le infiorescenze della carne, entrare
nell'esistenza altrui, nelle rosse mucose dal pesante, dolce, dolce odore dì esistenza, sentirmi esistere tra le dolci labbra bagnate, le labbra rosse di pallido sangue, le labbra palpitanti che sì schiudono tutte bagnate d'esistenza, tutte bagnate di un pus chiaro, tra le labbra bagnate zuccherine che lacrimano come occhi? Il mio corpo dì carne che vive, la carne che brulica e rimescola lentamente liquori, che rimescola crema, la carne che mescola, mescola, mescola, l'acqua dolce e zuccherina della mia carne, il sangue della mia mano, ho male, un male dolce nella mia carne tormentata, che rimescola cammina io cammino, io fuggo, sono un ignobile individuo dalla carne tormentata, tormentata dall'esistenza contro questi muri. Ho freddo, faccio un passo, ho freddo, un passo, volto a sinistra, lui volta a sinistra, pensa che volta a sinistra, pazzo, sono pazzo? Dice che ha paura di essere pazzo, l'esistenza, vedi tu piccolo nell'esistenza, si ferma, il corpo si ferma, pensa che si ferma, da dove viene? Che cosa fa? Riprende a camminare, ha paura, molta paura, ignobile individuo, il desiderio come una nebbia, il desiderio, il disgusto, dice ch'è disgustato di esistere, è disgustato? stanco del disgusto di esistere. Corre. Cosa spera?
Corre per sfuggirsi, va a gettarsi in mare? Corre il cuore, il cuore che batte è una festa, il cuore esiste, le gambe esistono, il respiro esiste, esistono correndo, respirando, battendo, mollemente, pian piano si sfiata, mi sfiata, dice che si sfiata; l'esistenza mi prende i pensieri da dietro e lentamente li schiude da dietro; mi si prende da dietro, mi si costringe da dietro a pensare, e quindi ad essere qualcosa, dietro di me, che respiro in leggere bolle di esistenza, è bolla di nebbia di desiderio, è pallido nello specchio come un morto. Rollebon è morto, Antonio Roquentin non è morto, svanire; dice che vorrebbe svanire, corre, corre il furetto (da dietro) da dietro, da dietro, la piccola Luciana assalita da dietro, violata dall'esistenza da dietro, chiede grazia, ha vergogna di chiedere grazia, pietà, aiuto, aiuto, dunque esisto, entra al Bar della Marina, i piccoli specchi del piccolo bordello, è pallido nei piccoli specchi del piccolo bordello quel grande rosso molle che si lascia cadere sul sedile, il radiogrammofono suona, esiste, tutto gira, esiste il radiogrammofono, il cuore batte; girate, girate liquori della vita, girate gelatine, sciroppi della mia carne, dolcezze... il radiogrammofono:
When the mellow moon begins to beam
Every night I dream a little dream.
L'Autodidatta si raddolcisce. Aveva temuto una resistenza maggiore da parte mia. Vuol proprio passare una spugna su tutto quello che ha detto. Si piega verso di me con un'aria confidenziale:
- In fondo, lei li ama, signore, li ama come me: noi siamo separati soltanto da parole.
Non posso più parlare, chino la testa. Il viso dell'Autodidatta è proprio contro il mio. Sorride con aria sciocca, vicinissimo al mio viso, come negl'incubi. Mastico penosamente un pezzo di pane che non mi decido a trangugiare.
Gli uomini. Bisogna amarli, gli uomini. Gli uomini sono mirabili. Ho voglia di vomitare - e d'un tratto, ci siamo: ecco la Nausea.
Una bella crisi, che mi scuote da capo a piedi. È un'ora che la sentivo venire, soltanto non volevo confessarmelo. Questo sapore di formaggio dentro la mia bocca... L'Autodidatta chiacchiera, e la sua voce mi ronza
dolcemente alle orecchie. Ma non so più affatto di che cosa parla. Approvo macchinalmente con la testa. La mia mano è contratta sul manico del coltello da dessert. Sento questo manico di legno nero. È la mia mano che lo tiene. La mia mano. Personalmente, piuttosto lo lascerei tranquillo, questo coltello: a che scopo star sempre a toccare qualche cosa? Gli oggetti non son fatti perché uno li tocchi. È molto meglio scivolare tra di essi, evitandoli il più possibile. Qualche volta se ne prende uno in mano e si è costretti a lasciarlo al più presto. Il coltello cade sul piatto.
Al rumore il signore dai capelli bianchi sussulta e mi guarda. Riprendo il coltello, appoggio la lama contro la tavola e la faccio piegare. È dunque questa, la Nausea: quest'accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto - il mondo esiste - ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giuocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare.
Stavo per lanciare quel sassolino, l'ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. C'è stata la Nausea del « Ritrovo dei ferrovieri » e poi un'altra, prima, una notte in cui guardavo dalla finestra, e poi un'altra al giardino pubblico, una domenica, e poi altre. Ma non era mai stata cosi forte come oggi.
- ...della Roma antica, signore?
Mi pare che l'Autodidatta mi stia interrogando. Mi volgo verso di lui e gli sorrido. Ebbene? Che c'è? Perché si raggomitola sulla sua sedia? Faccio dunque paura, in questo momento? Doveva pur finire cosi. D'altronde m'è indifferente.
Non hanno affatto torto d'aver paura: sento che potrei fare qualunque cosa. Per esempio affondare questo coltello da formaggio nell'occhio deli'Autodidatta.
Dopo di che tutta questa gente mi calpesterebbe, mi spezzerebbe i denti a colpi di scarpa. Ma non è questo che mi trattiene: un sapore di sangue, in bocca, invece di questo sapore dì formaggio, non farebbe differenza. Soltanto bisognerebbe fare un gesto, far nascere un avvenimento superfluo:
sarebbe di troppo, il grido che lancerebbe l'Autodidatta - e il sangue che colerebbe sulla sua guancia, e il sussulto di tutta questa gente. Ce ne son già abbastanza di cose che esistono a questo mondo.
Tutti mi guardano; i due rappresentanti della giovinezza hanno interrotto il loro dolce colloquio. La donna ha aperto la bocca a culo di piccione. E tuttavia dovrebbe pur vedere che sono inoffensivo.
Mi alzo, tutto gira attorno a me. L'Autodidatta mi fissa coi suoi grandi occhi che non spaccherò.
- Se ne va di già? — mormora.
- Sono un po' stanco. È stato molto gentile ad invitarmi.
Arrivederci.
Andandomene, m'accorgo d'aver conservato in mano il coltello da dessert. Lo getto sul piatto che tintinna. Traverso la sala in mezzo al silenzio. Non mangiano più, mi guardano, il loro appetito è stato mozzato di colpo. Se
m'avanzassi verso la giovane donna facendo «Hon! » si metterebbe a urlare, ne son sicuro. Non ne vale la pena. Comunque, prima di uscire mi rivolgo e mostro loro la mia faccia, affinché possano imprimersela nella memoria.
- Arrivederci, signori e signore.
Non rispondono. Me ne vado. Ora le loro guance riprenderanno colore, e tutti si rimetteranno a chiacchierare. Non so dove andare e resto piantato accanto al cuoco di cartone. Non ho bisogno di voltarmi per sapere che mi stanno guardando attraverso i vetri: guardano la mia schiena con sorpresa e disgusto; credevano ch'io fossi come loro, che fossi un uomo ed io li ho ingannati. D'un tratto, ho perduto la mia apparenza d'uomo ed hanno visto un granchio che fuggiva a ritroso da quella sala così umana. Ora, l'intruso smascherato è fuggito; la seduta continua. Mi dà fastidio sentirmi sulla schiena tutto questo brulichio d'occhi e di pensieri sgomenti. Traverso la strada. L'altro marciapiede costeggia la spiaggia e le cabine da bagno. C'è molta gente che passeggia lungo il mare, volgono verso il mare volti primaverili, poetici: è per via del
sole, sono in festa. Ci sono donne vestite di chiaro, che hanno messo l'abito della primavera scorsa: passano lunghe e bianche come guanti di pelle lucida; vi son anche dei ragazzoni che vanno al liceo o alla Scuola commerciale, dei vecchi decorati. Non si conoscono, ma si guardano con un'aria di connivenza, perché il tempo è cosi bello e loro sono uomini. Nei giorni di dichiarazione di guerra gli uomini s'abbracciano senza conoscersi, e ad ogni primavera si sorridono. Un prete s'avanza a passi lenti, leggendo il breviario. Di quando in quando alza la testa e guarda il mare con aria d'approvazione, anche il
mare è un breviario, parla di Dio. Colori leggeri, leggeri profumi, animi primaverili. « È bel tempo, il mare è verde, preferisco questo freddo secco all'umidità ». Poeti! Se ne prendessi uno per il risvolto del cappotto, e gli dicessi « vienimi in aiuto», penserebbe «cos'è questo granchio?» e fuggirebbe lasciandomi il cappotto tra le mani.
Volgo loro la schiena, m'appoggio con ambe le mani alla balaustrata. Il vero mare è freddo e nero, pieno di bestie; striscia sotto questa sottile pellicola verde, fatta apposta per ingannare la gente. I silfi che mi circondano ci son cascati: non vedono altro che la sottile pellicola, essa è la prova dell'esistenza di Dio. Ma io vedo quello che c'è sotto! I colori fondono, le piccole scorze vellutate e brillanti, le piccole scorze di pesca del buon Dio vengono meno dappertutto, sotto il mio sguardo, si spaccano, si schiudono. Ecco il tram di Saint-Elémir, mi giro su me stesso e le cose girano con me, pallide e verdi come ostriche.
Inutile, era inutile saltar su poiché non voglio andare in nessun posto. Dietro i vetri sfilano oggetti bluastri, tutti rigidi e alteri, a scossoni. Persone, muri; attraverso le finestre aperte una casa m'offre il suo cuore nero; e i vetri fanno impallidire, azzurrano tutto ciò che è nero, azzurrano questo grande edifìcio in mattoni gialli che s'avanza esitando, rabbrividendo e che s'arresta di colpo impuntandosi. Sale un signore e si siede davanti a me. L'edificio giallo riparte, scivola d'un balzo contro i vetri, è talmente vicino che se ne vede soltanto più una parte, s'è oscurato. I vetri tremano. S'innalza, schiacciante, ben più alto di quanto non si possa vedere, con centinaia di finestre aperte sugli interni neri; scivola lungo la scatola, la rasenta; si è fatto buio, tra i vetri che tremano. Scivola interminabilmente, giallo come fango, e i vetri sono azzurro cielo. E di colpo non c'è più, è rimasto indietro, una viva chiarità grigia invade la scatola e si espande dappertutto con inesorabile giustìzia: è ìl cielo; attraverso i vetri si vedono ancora spessori e spessori di cielo, poiché si sale su per la collina Eìiphar e c'è un'ampia vista da tutt'e due le parti, a destra fino al mare, a sinistra fino al campo d'aviazione. Proibito fumare, perfino una gitane. Appoggio la mano sul sedile ma la ritiro precipitosamente: esiste. Questa cosa sulla quale son seduto, sulla quale appoggiavo la mano si chiama sedile. L'hanno fatta apposta perché uno possa sedercisi, hanno preso del cuoio, delle molle, della stoffa, e si son messi al lavoro con l'idea di fare un sedile, e quando hanno finito, era questo che avevano fatto. L'hanno portato qui, in questa scatola, e adesso la scatola rotola e traballa, coi vetri che tremano, e porta nel suoi fianchi questa cosa rossa. Mormoro: è un sedile, un po' come un esorcismo. Ma la parola mi resta sulle labbra: rifiuta d'andare a posarsi sulla cosa. Questa rimane quella che è, con la sua felpa rossa, con migliaia di striscette rosse, tutte rigide, che sembrano zampette morte. Questo enorme ventre all'aria, sanguinante, rigonfio - rimpinzato, con tutte le sue zampe morte, ventre che fluttua in questa scatola, nel cielo grigio, non è un sedile. Potrebbe essere altrettanto bene un asino morto, per esempio, gonfiato dall'acqua, e che fluttua alla deriva, a pancia all'aria, in un gran fiume grigio, un fiume d'inondazione; ed io sarei seduto sul ventre dell'asino, ed i miei piedi sarebbero a bagno nell'acqua chiara. Le cose si sono disfatte dei loro nomi. Son li, grottesche, caparbie, gigantesche, e sembra stupido chiamarle sedili o dire qualsiasi cosa su di esse: io sono in mezzo alle Cose, le innominabili.
Solo, senza parole, senza difesa, esse mi circondano, sotto di me, dietro di me, sopra di me. Non esigono nulla, non s'impongono: son lì. Sotto il cuscino del sedile, contro la parete di legno c'è una piccola linea d'ombra, una piccola linea nera che corre lungo il sedile con un'aria misteriosa e birichina, quasi un sorriso. So benissimo che non è un sorriso, e tuttavia esiste, corre sotto i vetri biancastri, sotto il fracasso dei vetri, s'ostina sotto le immagini azzurre che sfilano dietro i vetri e s'arrestano e ripartono; s'ostina, come il ricordo impreciso d'un sorriso, come una parola a metà obliata di cui non ci si ricorda che la prima sillaba e il meglio che si possa fare è di girare gli occhi e di pensare ad altro, a quell'uomo semisdraiato sul sedile, lì, davanti a me. La sua testa di terracotta dagli occhi azzurri. Tutta la parte destra del suo corpo s'è abbandonata, il braccio destro è incollato al corpo, il lato destro vive appena, con fatica, con avarizia, come fosse paralizzato. Ma su tutto il lato sinistro c'è una piccola esistenza parassita che prolifera, un cancro: il braccio si è messo a tremargli, e poi s'è alzato, e la mano, in cima, era rigida. Poi anche la mano s'è messa a tremargli, e quando è arrivata all'altezza del cranio, un dito s'è messo a grattare con l'unghia il cuoio capelluto. Una specie dì smorfia voluttuosa è venuta ad abitare la parte destra della bocca, mentre la parte sinistra restava morta. I vetri tremano, il braccio trema, l'unghia gratta, gratta, la bocca sorride sotto gli occhi fissi, e l'uomo sopporta senza accorgersene questa piccola esistenza che gli gonfia il lato destro, e che per realizzarsi ha preso in prestito il suo braccio destro e la guancia destra.
Il bigliettaio mi sbarra la strada.
- Aspettate la fermata.
Ma lo respingo e salto giù dal tram. Non ne potevo più. Non potevo sopportare che le cose fossero cosi vicine. Spingo un cancello, entro, delle leggere esistenze balzano su e s'appollaiano sulle cime. Ora mi riconosco, so dove sono: sono al giardino pubblico. Mi lascio cadere su una panchina tra i grandi tronchi neri, tra le mani nere e nodose che si tendono verso il cielo. Un albero gratta la terra sotto i miei piedi con un'unghia nera. Vorrei tanto lasciarmi andare, dimenticarmi, dormire. Ma non posso, soffoco: l'esistenza mi penetra da tutte le parti, dagli occhi, dal naso, dalla bocca...
E d'un tratto, d'un sol tratto, il velo si squarcia, ho compreso, ho visto.
Le sei di sera.
Non posso dire di sentirmi sollevato né contento: al contrario, è una cosa che m'accascia. Soltanto, il mio scopo è raggiunto: so quello che volevo sapere; tutto quello che m'è accaduto dal mese di gennaio l'ho capito
ora. La Nausea non m'ha lasciato e non credo che mi lascerà tanto presto; ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso.
Dunque, poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s'affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po' chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto questo lampo d'illuminazione.
Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire «esistere». Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro « il mare è verde; quel punto bianco, lassù, è un gabbiano » ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un « gabbiano esistente»; di solito l'esistenza si nasconde. È li, attorno a noi, è noi, non si può dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca. Quando credevo di pensare ad essa, evidentemente non pensavo nulla, avevo la testa vuota, o soltanto una parola, in testa, la parola «essere». Oppure pensavo... come dire? Pensavo all'appartenenza, mi dicevo che il mare apparteneva alla classe degli oggetti verdi o che il verde faceva parte delle qualità del mare. Anche quando guardavo le cose, ero a cento miglia dal pensare che esistevano: m'apparivano come un ornamento. Le prendevo in mano, mi servivano come utensili, prevedevo la loro resistenza ma tutto ciò accadeva alla superficie. Se mi avessero domandato che cosa era l'esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d'un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l'esistenza s'era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell'esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s'era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine — nude, d'una spaventosa e oscena nudità.
Mi astenevo dal fare il minimo movimento ma non avevo bisogno di muovermi per vedere, dietro gli alberi, le colonne azzurre e il lampadario del chiosco della musica, e la Velleda in mezzo ad un gruppo di allori. Tutti questi oggetti... come dire? M'infastidivano: avrei desiderato che esistessero in maniera meno forte, in un modo più secco, più astratto, con più ritegno. Il castagno mi si premeva contro gli occhi. Una ruggine verde lo copriva sino a mezz'altezza; la corteccia nera e rigonfia sembrava di cuoio bollito.
Il tenue rumore d'acqua della fontana Masqueret mi scorreva dentro le orecchie e vi si faceva un nido, le riempiva di sospiri; le mie narici traboccavano d'un odore verde e putrido. Ogni cosa si lasciava andare all'esistenza, dolcemente, teneramente, come quelle donne stanche che s'abbandonano al riso e dicono: «Ridere fa bene» con voce molle; le cose si stendevano l'una di fronte all'altra facendosi l'abbietta confidenza della propria esistenza.
Compresi che non c'era via di mezzo tra l'inesistenza e questa sdilinquita abbondanza. Se si esisteva, bisognava esistere fin li, fino alla muffa, al rigonfiamento, all'oscenità. In un altro mondo, i circoli, le arie musicali conservano le loro linee pure e rigide. Ma l'esistenza è un cedimento. Degli alberi, dei pilastri blu-notte, il rantolo felice d'una fontana, degli odori acuti, dei piccoli cirri di calore che fluttuavano nell'aria fredda, un uomo rosso che faceva il chilo su una panchina: tutte queste sonnolenze, tutte queste digestioni prese insieme offrivano un aspetto vagamente comico. Comico... no: non arrivava a tanto, niente di ciò che esiste può essere comico; era come un'analogia fluttuante, quasi inafferrabile, con certe situazioni da operetta. Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser li, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose, Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda... Ed io — fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri — anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e polite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità.
La parola Assurdità nasce ora sotto la mia penna; poco fa, al giardino, non l'avevo trovata, ma nemmeno la cercavo, non ne avevo bisogno: pensavo senza parole, sulle cose, con le cose. L'assurdità non era un'idea nella mia
testa, né un soffio di voce, ma quel lungo serpente morto che avevo al piedi, quel serpente di legno. Serpente o radice o artiglio d'avvoltoio, poco importa. E senza nulla formulare nettamente capivo che avevo trovato la chiave dell'Esistenza, la chiave delle mie Nausee, della mia vita stessa. Difatti, tutto ciò che ho potuto afferrare in seguito si riporta a questa assurdità fondamentale. Assurdità: ancora una parola; mi dibatto contro le parole; laggiù nel giardino, la toccavo, la cosa. Ma qui vorrei fissare il carattere assoluto di quest'assurdità. Un gesto, un avvenimento nel piccolo mondo colorito degli uomini non è mai assurdo che relativamente: in rapporto alle circostanze che l'accompagnano. I discorsi d'un pazzo, per esempio, sono assurdi in rapporto alla situazione in cui si trova, ma non in rapporto al suo delirio. Ma io, poco fa, ho fatto l'esperienza dell'assoluto: l'assoluto o l'assurdo. Quella radice: non v'era nulla in rapporto a cui essa non fosse assurda.
Oh! Come potrò spiegare questo con parole? Assurda: in rapporto ai sassi, ai cespugli d'erba gialla, al fango secco, all'albero, al cielo, alle panche verdi. Assurda, irriducibile; niente — nemmeno un delirio profondo e segreto della natura- poteva spiegarla. Naturalmente, io non sapevo tutto, non avevo visto il germe svilupparsi e l'albero crescere. Ma davanti a quella grossa zampa rugosa, né l'ignoranza né il sapere avevano importanza: il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell'esistenza. Un cerchio non è assurdo, si spiega benissimo con la rotazione d'un segmento attorno ad una delle sue estremità. Ma pure il cerchio non esiste. Quella radice, al contrario, esisteva, e in modo che io non potevo spiegarla. Nodosa, inerte, senza nome, essa mi affascinava, mi riempiva gli occhi, mi riportava continuamente alla sua propria esistenza. Avevo un bel ripetermi: « È una radice » - non attaccava più. Capivo bene che non si poteva passare dalla sua funzione di radice, di pompa aspirante, a questo, a questa pelle dura e compatta di foca, a quell'aspetto oleoso, calloso, caparbio. La funzione non spiegava niente: permetteva di comprendere all'ingrosso che cosa era una radice, ma per nulla affatto la radice stessa. Questa radice qui, col suo colore, la sua forma, il suo movimento congelato, era... al di sotto di qualsiasi spiegazione. Ciascuna delle sue qualità le sfuggiva un poco, traboccava fuori di essa, si solidificava a metà, diventava quasi una cosa; ciascuna di esse era di troppo nella radice, e il ceppo tutt'intero mi dava ora l'impressione di rotolare un po' fuori di se stesso, di negarsi, di perdersi in uno strano eccesso. Ho raschiato il mio tallone contro quell'artiglio nero: avrei voluto scorticarlo un po'. Per niente, per sfida, per far apparire su quel cuoio conciato il rosa assurdo d'un'abrasione: per giuocare con l'assurdità del mondo. Ma quando ho ritirato il piede ho visto che la corteccia era rimasta nera.
Nera? Ho sentito la parola sgonfiarsi, svuotarsi del suo senso con una rapidità straordinaria. Nera? La radice non era nera. Non c'era del nero su quel pezzo di legno - c'era... un'altra cosa: il nero, come il cerchio, non esisteva.
Guardavo la radice: era più che nera o quasi nera? Ma ben presto ho smesso d'interrogarmi poiché ho avuto l'impressione di trovarmi in una zona che conoscevo. Si, avevo già scrutato, con quella stessa inquietudine,
innumerevoli oggetti, avevo già cercato — vanamente — di pensare qualcosa su di essi: ed avevo già sentito le loro qualità, fredde e inerti, sottrarsi e scivolarmi di tra le dita. Le bretelle d'Adolfo, l'altra sera, al « Ritrovo dei ferrovieri », non erano viola. Ho riveduto le due macchie indefinibili sulla camicia. E il ciottolo, quel famoso ciottolo, l'origine di tutta questa storia: non era... non mi son ricordato bene, esattamente, ciò che si era rifiutato di essere, ma non avevo dimenticato la sua resistenza passiva. E la mano dell'Autodidatta; l'avevo presa e stretta, un giorno, in biblioteca, e poi avevo avuto l'impressione che non fosse proprio una mano. Avevo pensato ad un grosso verme bianco, ma non era neanche questo. E poi quella losca trasparenza del bicchiere di birra al caffè Mably. Loschi, ecco che cosa erano, i suoni, i profumi, i sapori. Quando vi passavano rapidamente sotto il naso come lepri stanate, e non vi si faceva troppa attenzione, si poteva crederli del tutto semplici e rassicuranti, si poteva credere che al mondo ci fosse del vero azzurro, del vero rosso, del vero odore di mandorla o di violetta. Ma non appena uno li tratteneva un istante, questo senso di conforto, di sicurezza, cedeva il posto ad un profondo disagio: i colori, i sapori, gli odori, non erano mai veri, mai del tutto schiettamente se stessi e null'altro che se stessi. La qualità più semplice, la più indecomponibile aveva del di più, in se stessa, in rapporto a se stessa, nel suo stesso seno. Quel nero, lì, contro il mio piede, non aveva l'aria d'essere del nero, ma piuttosto lo sforzo confuso per immaginare del nero di qualcuno che non ne aveva mai visto, che non aveva saputo fermarsi, ed aveva immaginato un essere ambiguo, al di là dei colori. Rassomigliava a un colore, ma pure... ad una lividura, o, ancora, ad una secrezione, ad una essudazione — e ad altro, a un odore, per esempio, si fondeva in un odore di terra bagnata, di legno tiepido e bagnato, in odore nero steso come una vernice su quel legno nervato, in sapore di fibra masticata, zuccherina. Non lo vedevo semplicemente, questo nero: la vista è un'invenzione astratta, un'idea ripulita, semplificata, una idea d'uomo. Quel nero lì, presenza amorfa e fiacca, oltrepassava di gran lunga la vista, l'odorato e il gusto. Ma questa dovizia finiva per diventare confusione, e, infine, non era più niente perché era troppo.
Questo momento è stato straordinario. Ero lì, immobile e gelato, immerso in un'estasi orribile. Ma nel seno stesso di quest'estasi era nato qualcosa di nuovo: comprendevo la Nausea, ora, la possedevo. A dire il vero, non mi formulavo
la mia scoperta. Ma credo che ora mi sarebbe facile metterla in parole. L'essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l'esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C'è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c'è alcun essere necessario che può spiegare l'esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un'apparenza che si può dissipare; è l'assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare, come l'altra sera al « Ritrovo dei ferrovieri »: ecco la Nausea; ecco quello che gli Sporcaccioni - quelli di Poggio Verde e gli altri - tentano di nascondersi con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.
Quanto è durato quell'incantesimo? Io ero la radice del castagno. O meglio io ero, tutt'intero, la coscienza della sua esistenza. Ancora staccato da essa - poiché ne avevo coscienza — e tuttavia perduto in essa, nient'altro che essa.
Una coscienza a disagio e che tuttavia si lasciava andare con tutto il peso, in equilibrio instabile, su quel pezzo di legno inerte. Il tempo s'era fermato: una piccola pozza nera ai miei piedi; era impossibile che venisse qualcosa dopo quel momento lì. Avrei voluto strapparmi a quell'atroce godimento, ma non pensavo nemmeno che ciò fosse possibile; ci ero dentro; il ceppo nero non passava, mi restava lì, negli occhi, come un boccone troppo grosso resta di traverso in una gola. Non potevo né accettarlo né rifiutarlo. A prezzo di quale sforzo son riuscito ad alzare gli occhi? Anzi, lì ho proprio alzati? non mi son piuttosto annullato per un istante, per rinascere l'istante dopo con la testa voltata e gli occhi stornati verso l'alto? In realtà, non ho avuto coscienza d'un passaggio. Ma, d'un tratto, m'è divenuto impossibile pensare all'esistenza della radice. S'era cancellata, avevo un bel ripetermi: essa esiste, è ancora lì, sotto la panca, contro il mio piede destro, ciò non voleva più dir nulla. L'esistenza non è qualcosa che si lasci pensare da lontano: bisogna che v'invada bruscamente, che si fermi su di voi, che vi pesi greve sullo stomaco come una grossa bestia immobile - altrimenti non c'è assolutamente più nulla.
Non c'era assolutamente più nulla; avevo gli occhi vuoti, ed ero felice della mia liberazione. E poi, d'un tratto, qualcosa s'è messo ad agitarmisi davanti agli occhi, dei movimenti leggeri e incerti: il vento scuoteva la cima dell'albero.
Non mi dispiaceva veder muoversi qualcosa, ciò rappresentava una variante di tutte quelle esistenze immobili che mi guardavano come occhi fissi. Seguendo con lo sguardo il dondolio dei rami mi dicevo: i movimenti non esistono mai del tutto, sono passaggi, sono intermediari tra due esistenze, intervalli. Mi preparavo a vederli uscire dal nulla, maturare progressivamente, svilupparsi: stavo finalmente per sorprendere delle esistenze in procinto di nascere.
In meno di tre secondi tutte le mie speranze sono state spazzate via. Su quei rami esitanti che brancolavano ciecamente all'intorno, non sono riuscito ad afferrare alcun « passaggio » all'esistenza. Quest'idea di passaggio era un'altra invenzione degli uomini. Un'idea troppo chiara. Tutte quelle minute agitazioni s'isolavano, si determinavano per se stesse. Traboccavano da tutte le parti dai rami e i ramoscelli. Turbinavano attorno a quelle mani secche, le avvolgevano di piccoli cicloni. Naturalmente, un movimento era una cosa diversa da un albero. Ma era ugualmente un assoluto. Una cosa. I miei occhi non incontravano mai altro che del pieno. In cima ai rami brulicavano esistenze, esistenze che si rinnovavano continuamente e che non nascevano mai. Il vento esistente veniva a posarsi sull'albero come una grossa mosca, e l'albero rabbrividiva. Ma il brivido non era una qualità nascente, un passaggio dalla potenzialità all'atto; era una cosa; una cosa-brivido scorreva nell'albero, se ne impadroniva, lo scuoteva, e di colpo l'abbandonava, se ne andava più in là a girare su se stessa. Tutto era pieno, tutto era in atto, non c'era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po' d'esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all'albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l'esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo. L'esistenza dappertutto, all'infinito, esistenza di troppo, sempre e dappertutto; l'esistenza — che non è mai limitata che dall'esistenza. Mi son lasciato andare sulla panchina, stordito, ottuso di quella profusione di esseri senza origine: dappertutto sbocci, sviluppi, le mie orecchie ronzavano d'esistenza, la mia carne stessa palpitava e si schiudeva, s'abbandonava al pullulamento universale, una cosa ripugnante. « Ma perché, - ho pensato, - perché tante esistenze, visto che si rassomigliano tutte? » A che pro tanti alberi tutti simili? Tante esistenze mancate e ostinatamente ricominciate e di nuovo mancate — come gli sforzi maldestri d'un insetto caduto sul dorso? (Io ero uno di questi sforzi). Quell'abbondanza non faceva l'effetto della generosità, al contrario. Era tetra, meschina, imbarazzata di se stessa. Quegli alberi, quei gran corpi sgraziati... Mi son messo a ridere poiché d'un tratto ho pensato alle formidabili primavere che si descrivono nei libri, piene di spaccature, di scoppi, di sbocci giganteschi.
C'erano imbecilli che venivano a parlarvi di volontà di potenza e di lotta per la vita. Si vede che non avevano mai guardato una bestia né un albero. Quel platano, con le sue macchie di tigna, quella quercia mezza fradicia,
avrebbero voluto gabellarmele per giovani forze violente che zampillavano verso il cielo. E quella radice? Senza dubbio avrei dovuto rappresentarmela come un artiglio vorace che squarciava la terra, per strapparle il suo nutrimento?
Impossibile veder le cose a quel modo. Delle mollezze, delle debolezze, questo sì. Gli alberi ondeggiavano. Uno zampillamento verso il cielo? Era piuttosto un afflosciamento, da un momento all'altro m'aspettavo di vedere i tronchi raggrinzirsi come verghe stanche, afflosciarsi e cadere al suolo in un mucchio nero pieno di pieghe. Non avevano voglia di esistere, solo che non potevano esimersene, ecco. E allora facevano tutte le loro piccole funzioni, pianamente, senza slancio: la linfa saliva lentamente entro i vasi, controvoglia, e le radici s'affondavano lentamente nella terra. Ma ad ogni momento sembravano sul punto di piantar tutto lì e annullarsi. Stanchi e vecchi, continuavano ad esistere, di malavoglia, semplicemente perché erano troppo deboli per morire, perché la morte poteva venir loro solo dall'esterno: solo le arie musicali sanno portare fieramente la loro propria morte in sé come una necessità interna; soltanto che esse non esistono. Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione. Mi son lasciato andare all'indietro e ho chiuso gli occhi. Ma le mie fantasie, subito risvegliate, son balzate su e son venute a riempire d'esistenze i miei occhi chiusi: l'esistenza è un pieno che l'uomo non può abbandonare.
Strane immagini. Rappresentavano una folla di cose. Non cose vere, altre che gli rassomigliavano. Oggetti di legno che rassomigliavano a sedie, a zoccoli, altri oggetti che rassomigliavano a piante. E poi due facce: era la coppia che aveva pranzato vicino a me, l'altra domenica, alla birreria Vézelize. Grassi, caldi, sensuali, assurdi, con le orecchie rosse. Vedevo le spalle e il petto della donna.
Esistenza nuda. Quei due là - d'un tratto, ciò mi ha fatto orrore -, quei due là continuavano ad esistere da qualche parte di Bouville; da qualche parte - in mezzo a quali odori? — quel petto morbido continuava a carezzarsi contro stoffe fresche, a raccogliersi nei merletti e la donna continuava a sentirsi il petto esistere nella sua blusa, a pensare: « le mie tettine, i miei bei frutti », e a sorridere misteriosamente, attenta all'espandersi dei suoi seni che la solleticavano, e poi ho gridato e mi son ritrovato, con gli occhi sbarrati.
Ch'io l'abbia sognata, quell'enorme presenza? Era lì, posata sul giardino, precipitata negli alberi, moltissima, impiastricciando tutto, densissima, una mostarda. Ed io ci ero dentro, io, con tutto il giardino? Avevo paura, ma soprattutto ero arrabbiato, trovavo ch'era una cosa cosi stupida, così fuori posto, e l'odiavo, quell'ignobile marmellata. Quanta ce n'era! Arrivava fino al cielo, e invadeva tutto, tutto riempiva col suo abbraccio gelatinoso, e ne vedevo in quantità sempre più grande, ben oltre i confini del giardino, oltre le case, oltre Bouville, non ero più a Bouville, non ero in nessun posto, fluttuavo. Non ero sorpreso, sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d'un tratto, e soffocavo di rabbia contro questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c'era stato niente prima di esso. Niente. Non c'era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m'irritava: senza dubbio non c'era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile: per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un'idea nella mia testa, un'idea esistente, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era venuto prima dell'esistenza, era un'esistenza come un'altra e apparsa dopo molte altre. Ho gridato «che porcheria, che porcheria!» e mi son scrollato per sbarazzarmi di questa porcheria appiccicosa, ma questa teneva duro, e ce n'era tanta, tonnellate e tonnellate d'esistenza, indefinitamente: soffocavo nel fondo di quest'immensa noia. E poi, d'un tratto, il giardino s'è vuotato come per un gran buco, il mondo è sparito allo stesso modo come era venuto, oppure mi son risvegliato - in ogni caso non l'ho visto più: attorno a me rimaneva della terra gialla, dalla quale uscivano dei rami morti drizzati in aria.
Mi sono alzato, sono uscito. Arrivato alla cancellata mi son voltato. Allora il giardino m'ha sorriso. Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo. Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualche cosa; era questo il vero segreto dell'esistenza. Mi son ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie d'aria di complicità. Era diretta a me? Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là, sul tronco del castagno... era il castagno. Le cose si sarebbero dette pensieri che si fermassero a metà strada, che s'obliassero, che obliassero ciò che avevano voluto pensare, e che restassero cosi, ondeggianti, con un bizzarro, piccolo significato che le sorpassava. M'infastidiva, questo piccolo significato: non potevo comprenderlo, nemmeno se fossi rimasto centosette anni appoggiato a quella cancellata; avevo appreso sull'esistenza tutto quello che potevo sapere.
Me ne sono andato, sono rientrato all'albergo, ed ecco qua, ho scritto.
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