Ci sono malattie la cui manifestazione insinua negli animi un così profondo senso di condivisione del destino da inscenare, di colpo, lo spettacolo di una grande corrente comunitaria, è il caso, per esempio, della peste valtellinese del 1630, così come ci sono malattie che disgregano così a fondo il legame sociale tanto che l’individuo è come proiettato all'interno di uno spazio di solitudine assoluta, di radicale negazione di ogni comunicabilità - è il caso della tisi polmonare del XIX e XX secolo e delle depressioni attuali, di cui il mondo alpino è portatore. La malattia afferisce all'identità collettiva, aggrega e disgrega le comunità, determina la plastica del carattere “regionale”. Presa nel suo senso metafisico essa si presenta come un’entità spirituale in stretto rapporto con quello che noi chiameremmo fatalità. Per poter comprendere il destino che si accumula tutto intorno ai nostri stati di salute occorrerebbe pertanto sviluppare qualcosa come una diagnostica filosofica o una mantica degli stati morbosi, ma senza ricondurli alla notte del mito, per evitare l’invariabile annegamento nel caos archetipico.
Nel secolo XVII la compagine valtellinese cercò la propria nascita politica attraverso un atto violento, il cosiddetto “Sacro Macello”, un pogrom antiprotestante avvenuto nella Valtellina del 1620 (le fonti oscillano, nel designare il numero delle vittime, da un minimo di 300 [fonti cattoliche] a un massimo di 3000 [fonti protestanti]). Nel 1630 questa comunità del sangue viene orribilmente sfigurata da una feroce pestilenza: metà della popolazione se ne va al creatore. Questa nuova “violenza”, ora subita dall'intero gruppo sociale (e non da una sola parte di esso) e ad opera di un agente morboso indiscriminato, fatale, lava la colpa collettiva e, così facendo, genera la comunità, la contrae nei lacci di una comunanza di destino. Certo non ci sfugge l’esistenza di tutta quella letteratura, da Lucrezio a Camus, che rappresenta gli effetti psicosociali della peste come uno sfrenarsi di fronte alla legge, come l’esplodere di un edonismo incontrollato, di una rescissione dei legami col cielo. Ma vi è anche “un sogno politico della peste” che all’orgia collettiva oppone la divisione rigorosa dei sani e degli infetti, alla trasgressione la regolamentazione ferrea del quotidiano, all’arbitrio dei rapporti sociali la gerarchia dei poteri, al disordine del contagio l’ordine esemplare del supplizio (vedi laStoria della colonna infame).
La peste sembra così produrre assai più senso e appartenenza che non la forma-rivoluzione. All’apice della modernità, tra XIX e XX secolo, ritroviamo invece la grande epopea della tisi. Questa malattia della lenta consunzione interna ed interiore, eterea, esangue, così consona all’immaginario piretico dell’umanità tardomoderna, ha trasformato, quasi all'improvviso, le Alpi da ricettacolo di ogni selvatichezza a paradiso della purezza pneumatica: la Valtellina partecipa con slancio a questa trasfigurazione della montagna, edificando enormi, fantasmagorici complessi sanatoriali. La tisi introduce però una novità assoluta rispetto alla peste: ad essa non si lega più alcun sogno politico, alcuna realtà veramente ecclesiale che non sia quella, separata, caricaturale, del sanatorio. Se la peste è un elemento di organizzazione del collettivo, la tisi è un fermento di decomposizione: i malati giacciono in un isolamento del tutto particolare, il mondo scivola via da loro nauseato e atterrito, come mai sarebbe successo in tempo di peste, lasciandoli sospesi nel vuoto di una morte anticipata.
Alla svolta del secolo XX la tisi regredisce, svuotando i sanatori, i quali, in qualche caso, vengono letteralmente abbandonati e trasformati in un cumulo di piranesiane rovine. Nasce forse qui quella strana contraddizione tra l’immagine saluberrima delle vallate boscose, disseminate di acque curative e costellate delle vestigia dei grandi teatri del risanamento polmonare, con quella sorta di “male oscuro” che contempera il mondo alpino alla metropoli contemporanea: la depressione - quasi che la modernità, all’epoca del suo tramonto, si fosse raccolta ai margini della terra urbanizzata, tra-i-monti, ristagnandovi come una nebbia perniciosa. La depressione, in un certo senso, popolarizza l'esperienza del vuoto e dell'assurdo che si era sviluppata in seno al sanatorio, facendole assumere i contorni di una vera e propria epidemia. Non è forse questo il dato su cui occorre maggiormente riflettere? Sì, oggi assistiamo, in questo piccolo lembo di terra, a un’accelerazione esiziale dei ritmi, a un accumulo fantastico delle esperienze, dei viaggi, degli scambi sessuali, al dilagare del furor economico e, al contempo, ad una sospensione stuporosa dell'attenzione per la comunità, per la terra, per il futuro. I valtellinesi vivono come schiacciati sul presente, il loro avvenire appare opaco, mentre il passato alimenta in loro la ruminazione. Disposizione ereditaria? Eccesso di sudorazione, ptialina, sperma? Oppure collera repressa, lunghi e cocenti dispiaceri, attaccamento eccessivo alle forme di vita tradizionali, repentini e violenti nell'ambiente naturale e sociale?
La depressione disarticola l’appartenenza, è per questo che noi vediamo la nostra vita sociale ridursi a brevi e rare occasioni e conduciamo un’esistenza sempre più appartata. Si tratta di una semplice anomalia chimica che modifica il comportamento di certe strutture cerebrali, o di un’inaudita esperienza della disperazione? La malinconia valtellinese, così prossima alla disperazione dell’Ecclesiaste, ci sembra piuttosto il frutto della nostalgia per la scomparsa della comunità rustica, della collera per esserne stata l’agente, del nuovo stato del mondo e della libertà che questo, avendo dissolto ogni ordine nell’identità e ogni gerarchia nella significazione, introduce, riportando la terra verso un nuovo inizio. Ecco dunque configurarsi, attraverso il rapporto con i grandi morbi storici, una vicenda esemplare. Un piccolo gruppo di vallate alpine, da un efferato atto di sanguinaria intolleranza, trae lo spunto per immaginare un castigo purificatore, il quale, comminando ai suoi abitanti indiscriminate sofferenze, introduce un vincolo di appartenenza. In un secondo tempo, dal grande afflusso di tubercolotici sulle montagne circostanti, deriva la convinzione di aver ricevuto in dote un ambiente naturale, salutare ma che, per un fatale gioco di compensazione cosmica, rimane come segnato dall’angoscia sottile dei malati e dalle loro oscure meditazioni. E Infine, a causa della fermentazione di quelle febbricitanti introspezioni, affonda nella depressione. Causa ed effetto ad un tempo dell'emancipazione dovuta allo sviluppo anomalo dell’idea di spendibilità del territorio, in base alle sue caratteristiche mediche, salutari e poi genericamente naturalistiche e grazie al carattere malinconico della tisi, la depressione alpina manifesta ora un duplice carattere: essa è insieme lo specchio della modernità e l’orizzonte del declino del mondo rustico, la perdita della Selva e la sua riproduzione patologica nella sfera onirica e pulsionale.
Nel secolo XVII la compagine valtellinese cercò la propria nascita politica attraverso un atto violento, il cosiddetto “Sacro Macello”, un pogrom antiprotestante avvenuto nella Valtellina del 1620 (le fonti oscillano, nel designare il numero delle vittime, da un minimo di 300 [fonti cattoliche] a un massimo di 3000 [fonti protestanti]). Nel 1630 questa comunità del sangue viene orribilmente sfigurata da una feroce pestilenza: metà della popolazione se ne va al creatore. Questa nuova “violenza”, ora subita dall'intero gruppo sociale (e non da una sola parte di esso) e ad opera di un agente morboso indiscriminato, fatale, lava la colpa collettiva e, così facendo, genera la comunità, la contrae nei lacci di una comunanza di destino. Certo non ci sfugge l’esistenza di tutta quella letteratura, da Lucrezio a Camus, che rappresenta gli effetti psicosociali della peste come uno sfrenarsi di fronte alla legge, come l’esplodere di un edonismo incontrollato, di una rescissione dei legami col cielo. Ma vi è anche “un sogno politico della peste” che all’orgia collettiva oppone la divisione rigorosa dei sani e degli infetti, alla trasgressione la regolamentazione ferrea del quotidiano, all’arbitrio dei rapporti sociali la gerarchia dei poteri, al disordine del contagio l’ordine esemplare del supplizio (vedi laStoria della colonna infame).
La peste sembra così produrre assai più senso e appartenenza che non la forma-rivoluzione. All’apice della modernità, tra XIX e XX secolo, ritroviamo invece la grande epopea della tisi. Questa malattia della lenta consunzione interna ed interiore, eterea, esangue, così consona all’immaginario piretico dell’umanità tardomoderna, ha trasformato, quasi all'improvviso, le Alpi da ricettacolo di ogni selvatichezza a paradiso della purezza pneumatica: la Valtellina partecipa con slancio a questa trasfigurazione della montagna, edificando enormi, fantasmagorici complessi sanatoriali. La tisi introduce però una novità assoluta rispetto alla peste: ad essa non si lega più alcun sogno politico, alcuna realtà veramente ecclesiale che non sia quella, separata, caricaturale, del sanatorio. Se la peste è un elemento di organizzazione del collettivo, la tisi è un fermento di decomposizione: i malati giacciono in un isolamento del tutto particolare, il mondo scivola via da loro nauseato e atterrito, come mai sarebbe successo in tempo di peste, lasciandoli sospesi nel vuoto di una morte anticipata.
Alla svolta del secolo XX la tisi regredisce, svuotando i sanatori, i quali, in qualche caso, vengono letteralmente abbandonati e trasformati in un cumulo di piranesiane rovine. Nasce forse qui quella strana contraddizione tra l’immagine saluberrima delle vallate boscose, disseminate di acque curative e costellate delle vestigia dei grandi teatri del risanamento polmonare, con quella sorta di “male oscuro” che contempera il mondo alpino alla metropoli contemporanea: la depressione - quasi che la modernità, all’epoca del suo tramonto, si fosse raccolta ai margini della terra urbanizzata, tra-i-monti, ristagnandovi come una nebbia perniciosa. La depressione, in un certo senso, popolarizza l'esperienza del vuoto e dell'assurdo che si era sviluppata in seno al sanatorio, facendole assumere i contorni di una vera e propria epidemia. Non è forse questo il dato su cui occorre maggiormente riflettere? Sì, oggi assistiamo, in questo piccolo lembo di terra, a un’accelerazione esiziale dei ritmi, a un accumulo fantastico delle esperienze, dei viaggi, degli scambi sessuali, al dilagare del furor economico e, al contempo, ad una sospensione stuporosa dell'attenzione per la comunità, per la terra, per il futuro. I valtellinesi vivono come schiacciati sul presente, il loro avvenire appare opaco, mentre il passato alimenta in loro la ruminazione. Disposizione ereditaria? Eccesso di sudorazione, ptialina, sperma? Oppure collera repressa, lunghi e cocenti dispiaceri, attaccamento eccessivo alle forme di vita tradizionali, repentini e violenti nell'ambiente naturale e sociale?
La depressione disarticola l’appartenenza, è per questo che noi vediamo la nostra vita sociale ridursi a brevi e rare occasioni e conduciamo un’esistenza sempre più appartata. Si tratta di una semplice anomalia chimica che modifica il comportamento di certe strutture cerebrali, o di un’inaudita esperienza della disperazione? La malinconia valtellinese, così prossima alla disperazione dell’Ecclesiaste, ci sembra piuttosto il frutto della nostalgia per la scomparsa della comunità rustica, della collera per esserne stata l’agente, del nuovo stato del mondo e della libertà che questo, avendo dissolto ogni ordine nell’identità e ogni gerarchia nella significazione, introduce, riportando la terra verso un nuovo inizio. Ecco dunque configurarsi, attraverso il rapporto con i grandi morbi storici, una vicenda esemplare. Un piccolo gruppo di vallate alpine, da un efferato atto di sanguinaria intolleranza, trae lo spunto per immaginare un castigo purificatore, il quale, comminando ai suoi abitanti indiscriminate sofferenze, introduce un vincolo di appartenenza. In un secondo tempo, dal grande afflusso di tubercolotici sulle montagne circostanti, deriva la convinzione di aver ricevuto in dote un ambiente naturale, salutare ma che, per un fatale gioco di compensazione cosmica, rimane come segnato dall’angoscia sottile dei malati e dalle loro oscure meditazioni. E Infine, a causa della fermentazione di quelle febbricitanti introspezioni, affonda nella depressione. Causa ed effetto ad un tempo dell'emancipazione dovuta allo sviluppo anomalo dell’idea di spendibilità del territorio, in base alle sue caratteristiche mediche, salutari e poi genericamente naturalistiche e grazie al carattere malinconico della tisi, la depressione alpina manifesta ora un duplice carattere: essa è insieme lo specchio della modernità e l’orizzonte del declino del mondo rustico, la perdita della Selva e la sua riproduzione patologica nella sfera onirica e pulsionale.
Marco Baldino
v. 'NARRENSCHIFF', https://www.facebook.com/groups/174236892692926/
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