Voglio iniziare con un’immagine.
Si tratta
di una sequenza che appartiene al film Barbarossa1 di Akira Kurosawa.
Il film si
svolge in un ospedale nel 1800. Un’intera famiglia si suicida con
il veleno per topi per disperazione, per fame. I genitori sono morti.
Il bambino, ben conosciuto nell’ospedale perché era stato scoperto
a rubacchiare di nascosto in cucina e per questo allontanato, a cui
le donne avevano dato il soprannome di “Topino”, sta morendo. I
medici dichiarano che non c’è più nulla da fare, dichiarano che
loro (con la loro scienza) non possono più fare nulla, perciò si
appellano alle donne dell’ospedale affinché facciano il loro
tentativo. Le donne accettano: si dispongono in gruppo, in cerchio
intorno ad un pozzo, rivolte verso il fondo del pozzo e chiamano,
chiamano forte e ripetutamente il nome del bambino. Le loro voci
invocanti verso il vuoto profondo e nero del pozzo formano l’unisono
di una cappa sonora che amplifica un intento di richiamo alla vita e
così, e per questo, il bambino vivrà.
È una
sequenza di bellezza struggente sul rapporto fra morte e vita, fra
desiderio di morte (nel film il suicidio) e desiderio di vita, fra
impotenza delle certezze sedimentate e acquisite in un sapere pratico
già sistematizzato (i medici che dichiarano di non poter più fare
nulla) e potenza di un’intenzione vitale che accetta il rischio di
fallire, sorretta unicamente dal desiderio sostenuto da un amore per
la vita. Nel film queste posizioni sono incarnate da uomini e da
donne che condividono un’esperienza di rapporto con la malattia,
con la morte e con la vita.
È
un’immagine forte di ciò che tendenzialmente accade in una
relazione di cura psicoanalitica di fronte ad un pericolo generato
dalla distruttività di un desiderio di morte nel suo impasto e nel
suo disimpasto con il desiderio di vita. Da un lato la ricerca di un
orientamento facendo leva sulle conoscenze acquisite, essendo anche
capaci di non assolutizzarle, di vivere l’esperienza di
un’impotenza delle certezze, di cedere il passo. Dall’altro lato,
attraverso l’accettazione del limite e del rischio legato al non
avere coordinate già date, osare riorientarsi contando unicamente
sulla fiducia arrischiata (per certi versi cieca/senza certezze) che,
in un contatto con il pericolo mortifero, il desiderio vitale di un
amore per la vita possa essere, per così dire, un decisivo sostegno
nel correre questo rischio.
Nel lavoro
terapeutico la capacità dell’analista di integrare queste funzioni
consente il mantenimento di una alleanza profonda con le risorse
vitali psichiche del paziente il più delle volte presenti in forma
criptata nei suoi sintomi.
Sono i
sintomi peraltro che offrono a chi li patisce e a chi li cura le
forme possibili di un adattamento, ma insieme di un disadattamento ad
un equilibrio dato, e convogliano la domanda di cura e di relazione.
Il sintomo infatti non è solo ripetizione, è anche depositario di
un disorientamento potenzialmente trasformativo rispetto ad un
equilibrio dato. C’è una sofferenza, che per quanto bloccata e
distorta nel sintomo, è espressione di un desiderio o della sua
nostalgia se il desiderio è eclissato, e questa sofferenza vuole
essere rispecchiata, riconosciuta e pensata come esperienza dotata di
senso.
Quando è
la presenza di sintomi a sostenere una domanda, per quanto i sintomi
possano essere imponenti e le relazioni terapeutiche possano essere
difficili, è possibile contare su una alleanza di base data dalla
presenza di una sofferenza psichica. Il tessersi progressivo di
questa alleanza anche inconscia per la vita psichica, sorregge e
ri-orienta continuamente nella ricerca di un senso, anche alle prese
con il negativo, con la mortificazione e con il rischio di morte
psichica.
Solitamente
è la possibilità di contare su questa alleanza di base che consente
di far nascere nel paziente una curiosità per il proprio mondo
interno, che fa sì che si attivino i processi del transfert e del
controtranfert e che la relazione si trasformi in una creatura nuova
di cui aver cura. In questo processo è la posizione psichicamente
recettiva dell’analista e la porosità del suo funzionamento come
organo di senso psichico, il presupposto della mobilizzazione del
processo stesso, sia dal lato dell’analista sia dal lato del
paziente.
Le cose
possono essere molto diverse e complicarsi notevolmente quando
abbiamo a che fare con quelle patologie della contemporaneità che
sono contrassegnate da una vera e propria evacuazione della vita
psichica e da strutture di funzionamento che possono essere definite
perverse.
Sono
questi i temi che vorrei provare ad affrontare, anche per il fatto
che possono offrire l’occasione per pensare a certi tratti
inquietanti del nostro vivere sociale.
Nel nostro
tempo ci troviamo immersi in un mondo comune in cui la vita interiore
tende ad essere stritolata, estromessa da un continuo affastellamento
di stimoli, di eccitamenti psichici, di iper-razionalizzazioni
interpretative o svuotata in una sua reificazione spettacolare e
trasformata in una macchina di esteriorizzazione di emozioni e di
pensieri conformi, adattati: le emozioni e i pensieri che si devono
avere per mantenere la conformità.
Ciò che
dunque rischia un’eclissi o una scomparsa è la dimensione della
vita psichica come spazio psichico intimo e come esperienza, come
esperienza interiore e di relazione e con l’altro e con il mondo,
come esperienza generatrice di conoscenza e di pensiero su di sé e
sul mondo. Slegato dall’esperienza e dalla vita, dal desiderio,
anche il pensiero rischia di essere alienato e ridotto ad un
esercizio di conformità, di essere ridotto a meri contenuti e
perdere la propria qualità di funzione vitale.
Ci sono
forme di patologia psichica di questa nostra contemporaneità che
forniscono la testimonianza esemplare di una sorta di iperbole di
questi fenomeni. Si tratta di patologie che sono come cartine a
tornasole di tendenze sociali più ampie. Affronterò dapprima
quelle forme di esistenza psichica che configurano una sorta di
ipernormalità devitalizzata (Christopher Bollas le ha definite
“personalità normotiche”2 e Joyce McDougall le chiama “normopatie”3).
La seconda parte del mio discorso verterà su quelle strutture
psichiche che implicano forme di relazione interne al soggetto e con
l’altro da sé che sono caratterizzate dalla de-simbolizzazione e
dalla perversione.
Quanto
all’attualissima ‘malattia della normalità’, si tratta di
persone che all’apparenza sembrano stabili e sane ma che realizzano
questo equilibrio attraverso la neutralizzazione e l’evacuazione
dell’elemento soggettivo della personalità, l’evacuazione degli
stati mentali soggettivi, un equilibrio calibrato sull’aspirazione
ad essere un “oggetto-merce nel mondo della produzione umana”4.
Non sembra che la soggettività, il desiderio e il pensiero rientrino
nel lavoro della mente. Anche se sono persone che dispongono di
regole e paradigmi per la determinazione di ciò che è giusto e di
ciò che è sbagliato, queste regole non rispecchiano una traversia
soggettiva, ma sono semplici proposizioni, deresponsabilizzate e
deresponsabilizzanti, sono come equivalenti di fatti concreti e
oggettivi. Il sé è trattato come un oggetto fra gli altri oggetti
del mondo materiale, oggetti tutti che vengono trattati come cose, a
fini funzionali.
Nella
relazione la persona ipernormale non chiede all’altro di essere
visto come soggetto, né vede gli altri come soggetti. È come se
tutto ciò che è vivo fosse devitalizzato e ridotto a qualcosa che
va semplicemente prodotto, constatato, inventariato, in operazioni di
eliminazione sistematica della vita dall’esistenza. L’esistenza
così devitalizzata diviene qualcosa da padroneggiare con efficienza,
come una procedura, e, tutto ciò che a questo si oppone facendo
resistenza viene vissuto come intralcio e va evacuato.
Si tratta
di una pulsione a non essere, una pulsione a non essere umani, ma
piuttosto a controllare l’essere, apparendo perfettamente normali e
felicemente adattati; una pulsione che facilita il movimento verso
uno stato inorganico ‘senza rappresentazioni’, evocando ciò che
Freud5 diceva della pulsione di morte, da lui connotata come tendenza a
“tornare ad uno
stato inorganico”.
Adorno
dedica un aforisma (36) datato al 1944 nei suoi Minima Moralia6 a ciò che definisce “La salute mortale” (letteralmente
“la salute sino alla morte, sino a morirne”):
“L’odierna malattia consiste proprio nella normalità
.… il regular guy, la popular girl debbono rimuovere
non solo i loro desideri e le loro conoscenze, ma anche tutti i
sintomi che, in epoca borghese, seguivano alla rimozione …. lo
stato ‘normale’, come la società minorata a cui somiglia, è il
prodotto di un intervento per così dire preistorico [rispetto alla
soggettivazione] che spezza le forze prima ancora di qualsiasi
conflitto; e la successiva assenza di conflitti riflette la
predecisione, il trionfo aprioristico dell’istanza collettiva, e
non la guarigione tramite la conoscenza …. Eppure il segno della
malattia trapela: sembra che la loro pelle sia coperta da
un’efflorescenza regolarmente stampigliata, come se cercassero
d’imitare l’inorganico… in fondo alla salute dominante non c’è
che la morte”.
In effetti
sembra che il lavoro psichico sia ridotto ad un “lavoro di morte”
che libera dalla tensione dell’essere, e anche gli oggetti esterni
sostituiscono e liberano dai compiti legati alla consapevolezza di sé
e dai compiti legati al pensare la realtà. Lo scopo di questo
lavoro di morte è rendere l’individuo invulnerabile alla
sofferenza psichica e perché ciò avvenga, oltre a questo lavoro di
evaporazione di qualsiasi conflitto psichico, di de-animazione
interna, di dissolvimento della soggettività, di metamorfosi in
morto vivente psichico, viene tolto qualsiasi senso al mondo e alla
relazione con il mondo, che diviene un mondo di “abbondanza
insignificante”7.
Anche gli oggetti sono devitalizzati, possono sì essere accumulati,
ma senza alcun desiderio, senza alcuna passione, restano oggetti
meramente concreti, appaiono nella vita e nel mondo di queste persone
come un risultato logico, senza nessun tipo di investimento psichico.
Queste
persone ipernormali non riescono a significare nel linguaggio i loro
stati mentali soggettivi, che non sono simboleggiati. Il linguaggio è
come un formulario, fatto di cliché che sono adoperati per
barrierare e sterilizzare tutto ciò che potrebbe costituire
un’esperienza.
Sono
persone che difficilmente si rivolgono a qualcuno con una richiesta
di cura. Può accadere un crollo e allora la richiesta può esserci,
ma come richiesta di ripristino, di eliminazione di un inceppo, o
come qualcosa che è incluso nella ipernormalità stessa: come
qualcosa che corrisponde ad una attività ritualizzata, e come tale
facilmente accessibile, scollegata dalla soggettività.
Anni fa
incontrai un giovane uomo che aveva chiesto una consulenza perché la
fidanzata lo aveva lasciato. Questa iniziativa, diceva, l’aveva
presa perché “è così che si fa: al giorno d’oggi se capita
questo si parla con la psicologa…”. L’impatto su di me di
questa richiesta normalizzante per non soffrire si era fatto presente
con un’immagine: mi sentivo trattata come una pattumiera. Sciolta
una relazione era necessario eliminare ogni possibile residuo,
dissipare ogni resto psichico della relazione che si era rotta, e,
per far questo, esisteva l’apposita procedura, sostenuta e promossa
dalla spettacolarizzazione televisiva della complice funzione
normalizzatrice di psicologi e psichiatri televisivi dispensatori di
luoghi comuni.
Un altro
esempio che posso fare si riferisce ad un genitore che mi aveva
cercato perché la figlia adolescente non era abbastanza soddisfatta
della sua prima esperienza sessuale, anzi interrogata dai genitori
sul ‘fatto’, si era espressa dicendo “tutto qua?”.
Secondo questo padre la reazione della figlia tradiva una anormalità,
dal momento che, diceva, “si sa che è soddisfacente”. È
evidente che il movente che porta questo padre ad interpellarmi non è
una preoccupazione significativa di un movimento affettivo verso la
figlia, ma è l’incrinatura di una mentalità, incrinatura che è
avvertita come una interferenza fastidiosa e la domanda a me è
infondo quella di correggere questa stortura.
Nella
relazione con queste persone, se capita che ci siano incrinature
sufficienti a farli perseverare in una relazione terapeutica, capita
di vivere un vero e proprio disorientamento rispetto alle modalità
di base, consuete, di assetto psichico nella posizione di cura. Viene
meno infatti la possibilità di contare su quella alleanza di base
data dalla presenza di una sofferenza psichica, dalla presenza di
uno scarto anche minimo fra sé e sé, di interrogativi depositari di
elementi di soggettività, di evidenze di una lotta per la
sopravvivenza della vita psichica e/o di una lotta per la
sopravvivenza della creatività, della plasticità della vita
psichica stessa.
Nella
relazione con questi soggetti ipernormali, il disorientamento, oltre
ad essere legato all’impossibilità di contare su una alleanza di
base, è legato ad un vero e proprio disinnesco del processo
analitico da parte di persone che nello stesso tempo, non solo
accettano i dispositivi concreti della cura analitica, ma li adottano
con diligenza.
Joyce
McDougall definisce questi pazienti “anti-analizzandi”8 ed offre una metafora che trovo particolarmente efficace. Paragonando
l’anti-analizzando all’anti-materia (la realtà fisica di ciò di
cui sono fatti i buchi neri), mette in evidenza che siamo di fronte
ad una realtà che non rivela la sua esistenza se non in negativo,
dato che una forza massiccia impedisce qualsiasi funzione di
collegamento, configurando un “desiderio di non desiderio”, che
prende la forma di un preponderante e massiccio desiderio di
conformità.
Di
conseguenza gli sforzi che l’analista fa, a partire dall’assetto
psichico abituale e consueto nella posizione di cura, per attivare o
persino provocare il processo analitico attraverso la relazione,
mettono in scacco l’analista e l’analisi. L’analista, nella
misura in cui si posiziona attraverso la propria recettività, si
sente preso dentro il sistema degli oggetti mummificati del suo
paziente, paralizzato nella sua attività psichica, nei processi
associativi, incapace di far nascere nel paziente un grado minimo di
curiosità verso sé stesso.
L’analista
è nella situazione di “oggetto escluso”, i suoi tentativi di
interpretazione o di restituzione di senso vengono avvertiti e
connotati dal paziente come follia dell’analista stesso. Questa
situazione relazionale di frustrazione provoca nell’analista
un’esperienza di disorientamento (rispetto ai propri assunti di
base) che può avere, come esito infausto, un disimpegno e un
disinvestimento difensivo rispetto al paziente, una inerzia che
riduce la sua presenza (al di sotto di una superficie di parole
differenti da quelle del paziente) ad essere sostanzialmente una
sorta di ‘eco’ del paziente stesso.
Riflettendo
sulla mia esperienza, trovo che mi sia stato di grande aiuto, per
poter lottare per non cadere in questo stato alienato di metamorfosi
devitalizzata, non rimanere troppo adesa a ciò che potrei definire
‘la mia normalità’, ossia la normalità per me di determinati
assunti di base sulla posizione di cura. Lottare per difendere questa
mia normalità, per difendere ad oltranza gli assunti di base come
fossero depositari di un valore identitario, per difendere le
tecniche e i trucchi del mestiere, si rivela essere una sorta di
collusione con il paziente che, su questo piano, il piano della
normalità, non può che avere la meglio.
Per usare
una metafora potrei dire che le cose possono procedere solo se io
sono in grado di fare una specie di capriola rispetto agli assunti di
base: si tratta di rovesciare il significato convenzionale del
ricorso alla terapia da parte del paziente, ossia di poter inquadrare
la richiesta stessa di terapia come fosse un sintomo, l’umico
sintomo che il paziente può avere.
Questo
rovesciamento implica l’accettazione e la capacità di ‘passare
dall’altra parte’ accettando di occupare intenzionalmente, io
come terapeuta, il luogo, la funzione di sintomo, facendola parlare.
In queste
condizioni proibitive, le pulsioni di vita / la capacità desiderante
dell’analista si può manifestare un po’ come si manifesta la
funzione disadattata e dissenziente del fool nel Re Lear di
Shakespeare, funzione dissenziente rispetto alle pulsioni di morte
che muovono e spingono alla rovina i personaggi della tragedia.
È questa
funzione dissenziente, disidentificata e resistente, là fuori
rispetto al buco nero del paziente, che può divenire, seppur nel
vuoto (come nell’immagine del film di Kurosawa), un sentire, un
immaginare, un pensare, un parlare l’esistenza di una realtà della
vita psichica, testimoniandola. È questa testimonianza senza
intenzione e il più possibile sgombra di contenuti di desiderio
personali dell’analista che può divenire l’ancoraggio per uno
spiazzamento nel paziente, per una breccia che metta in moto la sua
curiosità, per l’innesco di processi di lente incorporazioni
soggettivanti di vita psichica da parte del paziente stesso.
Ora vorrei
passare alla seconda parte del mio discorso, quella che riguarda la
perversione.
Devo
premettere che volendo parlare di perversione si incontra
immediatamente una difficoltà data dal fatto che in realtà con
questa parola si indicano fenomeni diversi, polimorfi, e per questo
il discorso può rischiare facilmente di rimanere generico e cadere
nell’ambiguità.
C’è
innanzitutto una domanda da porre che può aiutare a sciogliere una
possibile iniziale ambiguità: nella perversione siamo alle prese con
un desiderio costituitosi in una forma particolare, distorta oppure
siamo alle prese con un anti-desiderio, un antipodo del desiderio?
Si può
dire che, solitamente, nelle perversioni sessuali il desiderio si è
parzialmente costituito, se pur in forme distorte e contorte, mentre,
quando la perversione permea e pervade le relazioni umane in
generale, siamo alle prese con il negativo del desiderio,
l’accentuazione di una posizione fortemente contrassegnata da un
unico desiderio, il “desiderio di non desiderio”, che può
assumere la forma di una lotta armata.
Volendo
concentrarmi sulla perversione delle relazioni umane in generale, nel
mio discorso userò questo termine nell’accezione più ampia di
anti-desiderio, di antipodo del desiderio.
In che
senso può costituirsi un anti-desiderio?
Il
desiderio è mobilizzato dalla mancanza, dalla inalienabile
discontinuità fra sé e altro da sé, dalla perdita
dell’onnipotenza, dal costituirsi della realtà: così lo spazio
fra sé e l’altro, fra sé e la realtà può essere percorso. Sono
il desiderio e il pensiero che lo percorrono. Desiderio è dunque
apertura, trasformazione generata dalla accettazione di una lacuna,
di una soluzione di continuità, di una impossibilità, dalla
costituzione del limite. Condizione per desiderare è l’accettazione
della dimensione insatura dell’essere, dimensione insatura che deve
rimanere strutturalmente tale perché desiderio, pensiero,
linguaggio, si diano.
È questa
accettazione della dimensione insatura e metastabile dell’essere,
infatti, il movente per un impasto vitale fra amore di sé e amore
dell’altro [fra amore narcisistico e amore oggettuale], fra tutela
della stabilità del proprio sé [stabilità narcisistica del sé] e
curiosità / apertura verso l’altro e il mondo.
La
perversione al contrario è strutturalmente costituita dalla
coesistenza in parallelo (quindi contemporaneamente e
paradossalmente) di una accettazione parziale della realtà e di una
negazione altrettanto parziale della realtà. Questa negazione opera
come negazione psichica della mancanza, dell’incompletezza,
dell’esistenza di limiti costitutivi, e, di conseguenza, pur
essendo parziale, ha una portata dilagante e pervasiva.
Nella
perversione il diniego originario, costitutivo, riguarda realtà
della morte e la realtà della differenza sessuale. È il limite
differenziante a venire negato.
La
negazione psichica della realtà della morte implica la negazione del
limite connaturato all’esistenza stessa come viventi, limite insito
sia nella nascita sia nella morte. Questa negazione comporta la
confusione fra animato e inanimato, che ha come esito possibile (fra
gli altri) l’elisione della vulnerabilità e della fragilità della
vita fisica. Volendo fare un esempio eclatante delle conseguenze
possibili di questa confusione fra animato e inanimato posso citare
quei fenomeni estremi di violenza in cui il corpo umano aggredito ha
perso per gli aggressori la qualità di essere umano e vivente, viene
trattato come una cosa.
Quanto
alla negazione psichica della realtà della differenza sessuale, essa
agisce come negazione strutturale a partire da cui tutte le
differenze vitali (sia interne al soggetto, sia nel suo rapporto con
l’altro e con il mondo) tendono ad essere negate e i confini a
venir valicati. La differenza sessuale, infatti, è costitutiva e
strutturante rispetto a tutte le differenze: è una differenza che fa
le differenze. La realtà della differenza sessuale è per di più la
testimonianza inalienabile dell’incompletezza, nel senso che
l’esistenza di sessi diversi implica la non totalità assoluta di
ciascuno dei sessi: è per questo che viene negata.
La portata
di queste negazioni perverte, ossia implica e produce una distorsione
del senso della vita e della morte. Si può dire che la perversione è
una visione del mondo che dilaga all’interno del soggetto e pervade
le sue relazioni con l’altro e con il mondo. Detto altrimenti: la
perversione non ha a che fare con i contenuti, ma con le cornici di
senso costitutive e strutturanti e sono queste cornici di senso a
venir pervertite, sovvertite, confuse.
La
perversione delle relazioni umane implica un attacco distruttivo a
quelli che sono gli assunti di base del vivere sociale, alle barriere
generazionali (incestualità), alla funzione delle leggi come
dimensioni strutturanti una terzietà, alle differenze di posizione,
di ruolo, di autorevolezza, alle dimensioni etiche dell’esistenza,
alla verità, alla bellezza e alla gioia possibile del vivente, così
come alla realtà e alla verità possibile della sua fragilità e
della sua sofferenza.
Di
conseguenza, qualsiasi stimolo relazionale, implicando di per sé
differenza e smentita dell’assolutezza, può funzionare come
potenziale volano di persecutorietà. La differenza, per lo stesso
fatto di esistere può arrivare ad essere percepita come una lesa
maestà, equivalente di una aggressione persecutoria.
Si tratta
di una distruttività perseguita in nome dell’assolutezza e
comporta una soddisfazione che i soggetti perversi realizzano proprio
attraverso l’esercizio psichico di ciò che può essere definito
“odio dell’amore”9.
L’amore è odiato perché implica l’accettazione della lacuna
come sostanza dell’essere esseri umani. Questo movimento di odio si
scatena contro l’amore, sia che si tratti di amore attivo, sia che
si tratti di amore passivo, anche se è innanzitutto l’amore
passivo ad innescare l’odio.
L’attacco
distruttivo perverso all’amore è l’effetto di una ricerca coatta
volta alla realizzazione di un trionfo narcisistico maligno,
megalomanico, totalitario, cinico, che per realizzarsi ha bisogno di
attaccare distruttivamente qualsiasi legame ‘amoroso’ in senso
lato, intendendo con questo termine tutto ciò che fa legame
all’interno del soggetto e fra soggetto e mondo.
Questa
dimensione distruttiva perversa opera attraverso un linguaggio
strutturato sulla negazione del senso, sulla negazione
dell’esperienza; il senso non è semplicemente occultato, il
linguaggio si struttura allo scopo di smentirlo. Gli allestimenti
menzogneri, le contraffazioni, le negazioni e le smentite
sistematiche funzionano come adescamenti e induzioni disorganizzanti
sulla psiche altrui, come attacchi al pensiero dell’esperienza.
Attraverso l’esercizio di un pensiero e di un linguaggio che
potremmo definire scolleganti, vengono operate sull’altro induzioni
psichiche allo scopo di colpirlo, dopo averlo disorientato e
disorganizzato .
C’è una
storiella che può esemplificare in modo particolarmente efficace
tutto questo.
Uno scorpione, che non sa nuotare
e vuole attraversare un corso d’acqua, chiede ad una rana di
portarlo in groppa sull’altra riva. La rana risponde che non lo
farà perché non vuole essere punta dallo scorpione. Lo scorpione
risponde che non deve preoccuparsi, non la pungerà, perché, se lo
facesse, affonderebbe anche lui. La rana, rassicurata da questa
argomentazione, si convince. Nel bel mezzo dell’attraversamento lo
scorpione colpisce la rana con il suo pungiglione. Alla domanda
pronunciata dalla rana morente “perché lo hai fatto?”, lo
scorpione risponde “è la mia natura”10.
Se questa
è la ‘natura’ delle relazioni perverse, cos’è dunque per
questi pazienti l’analista, l’analista come qualsiasi altro?
Evelyne
Kestemberg11 sostiene che l’analista, rappresentante di un qualsiasi altro, è
per questi pazienti un feticcio. Feticcio assume qui il significato
di un oggetto esterno e fittizio
cercato e voluto come garante dell’integrità assoluta del
soggetto, della sua immortalità, della sua immunizzazione dal senso
di colpa.
Il
feticcio, dovendo garantire al soggetto uno status
quo necessario al suo narcisismo mortifero,
deve essere contemporaneamente animato e inanimato12.
Di fatto l’altro come partner di relazione è dis-animato di sé
stesso da parte soggetto perverso, è parcellizzato, ridotto ad un
orecchio, ad un apparato fonatorio, disumanizzato, manipolato,
indotto ad essere schermo, supporto di proiezioni massicce di
fantasmi aggressivi violenti contro la vita. Pur essendo sottoposto a
pesantissime induzioni, l’altro deve essere nello stesso tempo
immobile, immutabile, immobilizzato in una fissità da oggetto
silente, astratto, da cui nessuna manifestazione di presenza autonoma
è tollerata.
La
relazione non implica per il paziente la possibilità di un
rispecchiamento nell’altro, l’altro è inchiodato ad essere
piuttosto contemporaneamente la duplicazione esterna e la protesi del
soggetto, attraverso le quali egli si conferma nella propria
illimitatezza megalomanica.
Questo
statuto dell’altro come feticcio può estendersi ad un intero
gruppo umano a cui il soggetto appartiene e con cui entra in contatto
e può caratterizzare il funzionamento di gruppi anche estesi, così
come di istituzioni.
Dato che
nella relazione terapeutica, ovviamente si trasferiscono e si
riproducono le modalità distorte di relazione descritte fin qui,
anche la richiesta di cura ne è intrisa. C’è una vera e propria
sovversione del senso della richiesta di cura. Semplificando potrei
dire che la richiesta di cura dichiarata e riproposta a parole da
questi pazienti tende ad occultare il loro atteggiamento complessivo
nella cura, atteggiamento che ha come movente un attacco alla cura
stessa, un attacco al legame terapeutico, un odio della dimensione
amorosa (nel senso lato di cui parlavo prima) implicata nella
relazione di cura.
Per
cercare di rendere più evidente il tratto peculiare di questo
atteggiamento occultamente sovversivo del senso della cura, posso
citare un mio sogno che ebbe una funzione davvero illuminante in
rapporto ad una relazione terapeutica di questo tipo con una
paziente. La rappresentazione inconscia che l’attività onirica
offre fa chiarezza, illumina ciò che viene occultato dalla paziente
e ciò che rischia di produrre una macchia cieca nella mia
rappresentazione cosciente, riluttante davanti ad una presa d’atto
dell’effetto devastante della struttura perversa sulla relazione di
cura.
Il sogno è
questo:
In un corridoio d’ospedale, dalla sala operatoria,
esce una barella su cui è sdraiata la mia paziente che è appena
stata operata, per salvarle la vita. Io sono lì insieme ad un gruppo
di medici. Improvvisamente, la paziente che sembrava ancora
addormentata fa un balzo sollevandosi dalla barella come una
marionetta, lancia contro di me un bisturi, dirigendolo in bocca per
colpirmi e farlo sparire.
Dal sogno
è evidente che la sembianza di passività e di recettività è solo
una sembianza di copertura. La paziente del sogno usa gli strumenti
terapeutici, gli strumenti della cura (cura che si propone ed è
chiamata a salvare la vita psichica), come arma contro di me come
terapeuta, arma che vuole ficcarmi in bocca per farla sparire (dato
che tutto ciò che viene fatto ingoiare, potenzialmente sparisce), ma
anche per ferire la mia interiorità. Questo attacco inoltre è anche
un attacco alla parola come tramite di relazione e di verità,
attacco in cui può essere implicata anche una dimensione
terroristica di intimidazione: “tutto ciò che dici, verrà rivolto
contro di te”.
Penso che
possa a questo punto risultare evidente come lavorare con pazienti di
questo tipo provochi un vero e proprio malessere, un disorientamento
angosciante e pericoloso.
Se viene
mantenuto l’assetto abituale della posizione di cura, che è basato
sulla presunzione di innocenza del paziente13 nella sua richiesta di essere curato, ed è impostato all’attivazione
di funzioni recettive adatte alla creazione di un’area
transizionale, accade inesorabilmente una caduta nella rete perversa,
un po’ come succede alla rana della storiella.
Per di
più la messa a fuoco da parte del terapeuta degli intenti perversi
del paziente può essere impedita da una sorta di transfert
invertito: è il terapeuta che, tentando illusoriamente di difendersi
dalla contaminazione perversa, può trovarsi a trasferire sul
paziente dimensioni vitali, affettive, desideranti che il paziente
non ha, allo scopo difensivo di tollerare l’angoscia generata dalla
dimensione mortifera e dalla violenza a cui è sottoposto. Il
terapeuta si può trovare così in rapporto non al paziente reale, ma
ad una illusione, ad una costruzione immaginaria, attraverso la quale
può illusoriamente riconfermarsi nelle proprie sicurezze di base. Ma
il pericolo è proprio lì, come per la rana della storiella, come
per le allodole attratte dagli specchietti.
Più il
terapeuta si aggrappa a questa costruzione immaginaria e non vuole
vedere il paziente per quello che è, più si troverà impigliato in
un rischio megalomanico (dover salvare il paziente ad ogni costo) e
nello stesso tempo in una rete di vissuti di impotenza e di colpa,
finendo per colludere con il sistema perverso attivato del paziente.
Per il
terapeuta è dunque necessario accettare che, alle prese con la
perversione, quegli assunti di base a cui è più affezionato e che
sono più identificanti della propria appartenenza come terapeuta,
possono addirittura rivelarsi controproducenti, e che di conseguenza
deve rinunciare ad un assetto di cura che può divenire veicolo di
una collusione con il funzionamento del paziente: mi riferisco alla
presunzione di innocenza rispetto al paziente, all’amplificazione
della recettività inconscia, all’attivazione delle aree
transizionali, etc.
L’assetto
che meglio può consentire di non essere irretiti nella rete
relazionale perversa del paziente è un assetto fortemente
dissenziente, e nello stesso tempo non oppositivo e non sfidante, un
assetto sanamente diffidente, adatto a testimoniare la realtà e la
verità, tramite lo smascheramento dei dispositivi perversi.
La
difficoltà nella tenuta di questa posizione dissenziente, dissidente
e diffidente è data dalla sua asimmetria fortemente accentuata,
dalla solitudine insita nella necessità di rinunciare alla fiducia
nella alleanza terapeutica; tenere questa posizione implica infatti
una vigilanza e uno sforzo costanti per attivare e consolidare una
contro-disposizione rispetto ad attitudini familiari, investite del
valore di sicurezze di base nella conduzione e nella direzione della
cura. Questa contro-disposizione è il presupposto necessario senza
il quale ogni tentativo di cura finisce per rivelarsi vano.
Alle
prese con l’occultamento del male, occultamento che costituisce la
sostanza del funzionamento perverso, altamente disorientante, si
tratta di investire le energie nell’accettazione dell’esistenza
del male stesso, nel suo smascheramento e nella sua denuncia come
operazioni primarie, necessarie al ripristino di una cornice di senso
all’interno della quale realtà e verità possano assumere il
valore di quei punti cardinali necessari come presupposti perché
possa esistere una direzione della cura.
Abbiamo
visto che nel rapporto con l’ipernormalità è possibile che la
funzione terapeutica si esplichi attraverso il sostegno della
funzione desiderante dell’analista se pur in una dimensione
parallela e rovesciata come quella del fool, del matto
nel Re Lear di Shakespeare. Perché la cura possa
essere tentata, l’analista deve dunque accettare una esposizione
nella propria funzione desiderante se pur messa all’impersonale, e
ciò mentre quella del paziente è vincolata in eclissi.
In
rapporto ai fenomeni della perversione succede l’opposto: perché
la cura possa essere tentata, l’analista deve essere capace di
accettare di mettere in eclissi la propria funzione desiderante, così
come la propria neutralità e la propria capacità di astensione.
In questi
casi l’astensione e il silenzio assumerebbero il valore collusivo
di una omertà. Perché sia possibile accedere ad una umanizzazione,
alla ricostruzione di una storia (compito, questo, fondamentale di
ogni processo terapeutico), l’analista deve accettare di
costituirsi innanzitutto come limite, deve riuscire a porsi come
istanza etica strutturante quei punti cardinali all’interno dei
quali sia possibile uno scioglimento delle ambiguità ed una
differenziazione fra bene e male al di fuori di un giudizio morale.
Voglio
concludere dicendo che interrogarsi su questo campo della perversione
delle relazioni umane lascia aperte molte domande e offre davvero
pochissime certezze. Anzi ci sono domande che hanno un enorme valore
proprio nel loro continuo riproporsi.
In un
magnifico film cortometraggio del 1968, Che cosa sono le nuvole,
Pierpaolo Pasolini mette in scena, come spettacolo di marionette,
l’Otello, tragedia shakespeariana di una perversione
consapevole e calcolata. Pasolini affida ad Otello, che per un attimo
si ferma rispetto ai suoi movimenti da burattino nelle mani del
perfido Jago (Totò), la domanda fondamentale. Otello la rivolge a sé
stesso e al pubblico: “ma perché mai siamo così cattivi?”
Nell’immagine finale del film, dopo che le marionette di Otello e
di Jago sono ormai deposte fuori scena sopra di un enorme mucchio di
spazzatura, solo allora possono guardare il cielo in cui passano
veloci bianchissime e grandi nuvole e i loro occhi si riempiono di
meraviglia. È lì che deposto dalla sua condizione di marionetta,
Jago ritrova un contatto con la bellezza e mentre guarda scorrere le
nuvole esclama: “ah, meravigliosa, straziante bellezza del
creato!”
1 Akira
Kurosawa, Barbarossa,
film del 1965.
2 Christopher
Bollas (1987), La
malattia normotica
in
L’ombra dell’oggetto,
Borla, Roma 2001, pp. 142-163.
3 Joyce
McDougall (1978), Plaidoyer
pour
une certaine anormalité,
Gallimard, Paris.
4 Ch.
Bollas, op.cit., p.143.
5 Sigmund
Freud (1920), Al
di là del principio di piacere,
Opere Vol. 9, Boringhieri, Torino 1977.
6 Theodor
W. Adorno (1951), Minima
Moralia,
Einaudi, Torino 1994, pp. 58-61.
7 Ch.
Bollas, op.cit., p. 144.
8 J.
McDougall, op.cit.
9 Maurice
Hurni, Giovanna Stoll-Simona (1996), L’odio
dell’amore. La perversione delle relazioni umane.
L’Harmattan Italia, Torino 1998.
10 Si
tratta di una storiella taoista citata da Orson Welles nel suo film
del 1955Mr.
Arkadine Rapporto confidenziale.
11 Evelyne
Kestemberg (2001), La
Psychose froide,
Puf, Paris. Per la Kestemberg, nelle forme che definisce “psicosi
fredde”, l’altro come feticcio è sì esterno, tuttavia è
incluso in modo delirante, attraverso catene deneganti, nel sé
primitivo del soggetto.
12 Il
feticcio é l’anti-oggetto transizionale. Anche l’oggetto
transizionale è sia animato che inanimato, ma in questo caso il
processo è inverso nel senso che l’inanimato viene dotato di
anima. Il feticcio, al contrario comporta una de-animazione.
13 Piera
Aulagnier (1979), I
destini del piacere,
La Biblioteca, Bari-Roma 2002, p. 97 e seg.
http://www.diotimafilosofe.it/riv_wo.php?id=32
http://www.diotimafilosofe.it/down.php?t=3&id=350
[http://en.wikipedia.org/wiki/Red_Beard]
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