BEYOND THE ADVANCED PSYCHIATRIC SOCIETY- A COLLECTIVE RESEARCH/ OLTRE LA SOCIETA' PSICHIATRICA AVANZATA- UNA RICERCA COLLETTIVA


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martedì 5 aprile 2011

LA DISTRUZIONE DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO COME LUOGO DI ISTITUZIONALIZZAZIONE- F.Basaglia (1964)

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FRANCO BASAGLIA
Direttore Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia


LA DISTRUZIONE DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO
COME LUOGO DI ISTITUZIONALIZZAZIONE
(Mortificazione e libertà dello “spazio chiuso”)
considerazioni sul sistema “open door”




Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano “la révolution surrealiste”, indirizzato ai direttori dei manicomi, così concludeva: “Domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza”.

Quarant’anni dopo – legati, come gran parte dei paesi europei, ad una legge antica ancora incerta fra l’assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura – la situazione non è di molto mutata: limiti forzati, burocrazia, autoritarismo regolano la vita degli internati per i quali già PINEL aveva clamorosamente reclamato il diritto alla libertà. Ma la libertà di cui parlava PINEL era stata concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla. Per questo, più di due secoli dopo lo spettacolare scioglimento delle catene, regole forzate e mortificazioni segnano ancora il ritmo della vita dei ricoveri, richiedendone l’urgente soluzione con formule che tengano finalmente conto dell’uomo nel suo libero porsi nel mondo.

Lo psichiatra sembra, infatti, riscoprire solo oggi che il primo passo verso la cura del malato è il ritorno alla libertà di cui finora egli stesso lo aveva privato. La necessità di un regime, di un sistema nella complessa organizzazione dello spazio chiuso nel quale il malato mentale è stato isolato per secoli, richiedeva al medico il solo ruolo di sorvegliante, di tutore interno, di moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare: il valore del sistema superava quello dell’oggetto delle sue cure. Ma oggi lo psichiatra si rende conto che i primi passi verso “l’apertura” del manicomio producono nel malato una graduale trasformazione del suo porsi, del suo rapporto con la malattia e col mondo, della sua prospettiva delle cose, ristretta e rimpicciolita non solo dalla condizione morbosa ma dalla lunga ospedalizzazione. Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (risultato della malattia che BURTON chiama “insitutional neurosis” e che chiamerei più semplicemente istituzionalizzazione); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto dalla malattia e dal rimo dell’internamento.

L’assenza di ogni progetto, la perdita di un futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita ed organizzata la propria giornata su una dimensione dettata solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo. La nuova recluta, al momento del suo ingresso nel complesso sistema del ricovero, deve lasciarsi alle spalle ogni legame che non può più mantenere, ogni progetto che non può più attuare, la vita che non può vivere perché l’ospedale stesso gli impedisce di continuare a porsi in situazione, di proiettarsi nel futuro, inibendogli la “conquista” della propria soggettività. Il malato mentale, chiuso nello spazio angusto della sua individualità perduta, oppresso dai limiti impostigli dalla malattia, è spinto dal potere istituzionalizzante del ricovero ad oggettivarsi nelle regole stesse che lo determinano, in un processo di rimpicciolimento e di restringimento di sé che – originariamente sovrapposto alla malattia - non è sempre reversibile.

Si potrebbe dire tuttavia che ogni organizzazione di carattere collettivistico (grandi complessi industriali ad es.), pur non presentando il clima istituzionalizzante degli spazi chiusi (manicomi, carceri, campi di concentramento, istituti religiosi, collegi) viola, in un certo senso, il progetto individuale, lasciando però un margine personale alla vita di relazione di ciascuno membro. È questo margine che viene, invece, deliberatamente cancellato dal potere dell’istituto, perché è proprio l’iniziativa personale (“malata” o non) che può turbare l’ordine e la regola della complessa organizzazione, minandone quindi l’efficienza. Così, quando il malato, alienato dalla malattia, dalla perdita dei rapporti personali con l’altro e quindi dalla perdita di sé, entra nel ricovero, invece di trovare qui un luogo dove potersi liberare dall’incombere degli altri su di sé, dove poter ricostruire il suo mondo personale, trova nuove regole, nuove strutture che lo spingono ad oggettivarsi sempre più fino ad identificarsi in esse. Ciò perché le conseguenze della pazzia, che sono il centro delle apprensioni dei nostri legislatori, superano il valore del malato mentale in quanto uomo. Isolato, segregato, reso inoffensivo dalle mura che lo rinchiudono, il ricoverato pare assumere un valore al di là di quello umano, fra un animale docile ed inoffensivo ed una bestia pericolosa, sempre finché si consideri la malattia come un male irreparabile contro cui non c’è niente da fare se non difendersene.

Ma il manicomio – nato come difesa da parte dei sani contro la pazzia, come protezione dall’invasione dei “centri d’infezione” – sembra essere finalmente considerato il luogo dal quale il malato mentale deve essere difeso e salvato. “L’oggetto della psichiatria – dice EY in un suo recente articolo – non è più il paziente che fa paura, ma l’uomo malato che ha paura”.

La scoperta della libertà da parte della psichiatria porta dunque il problema del malato mentale fuori del manicomio. In realtà vi sono ancora ovunque grate, chiavi, sbarre, cancelli, personale con scarsa preparazione tecnica e spesso umana, ma il problema è comunque aperto: la distruzione del manicomio è un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio.

Invero, la scoperta della libertà è la più ovvia cui la psichiatria potesse giungere, così ovvia che non dovrebbe sortirne discussione alcuna: ma l'ovvio è, evidentemente, la materia più difficile da affrontare se pone l'uomo faccia a faccia con se stesso, senza schemi né rifrazioni. Anche PINEL aveva invocato quest'ovvia libertà per gli alienati quando - sciogliendoli dalle catene - li costringeva nello spazio chiuso, limitato dove tuttora soggiornano i nostri ricoverati. Ma "alla fine del XVIII secolo - dice FOUCAULT nella sua recente "Storia della follia" - non si assiste ad una liberazione dei folli, ma ad una oggettivazione del concetto della loro "libertà", oggettivazione che, da allora, ha spinto il malato ad identificarsi gradualmente con le regole e lo schema dell'istituto, ad istituzionalizzarsi. Spogliato di ogni elemento personale, posseduto dagli altri, preda delle sue stesse paure il malato doveva essere isolato in un mondo chiuso dove, attraverso il graduale annientamento di ogni sua possibilità personale, la sua follia non avrebbe avuto più forza.

L'immagine dell'istituzionalizzato corrisponde dunque all'uomo pietrificato dei nostri ospedali, l'uomo immobile, senza uno scopo, senza un futuro, senza un interesse, uno sguardo, un'attesa, una speranza verso cui tendere; l'uomo acquietato e libero dagli eccessi della malattia, ma ormai distrutto dal potere dell'istituto; l'uomo che potrà essere spinto alla ricerca di se stesso, alla riconquista della propria individualità soltanto dal possesso della propria libertà, se non si vuole che egli continui ad identificare il suo vuoto interno con lo spazio limitato ed incombente del manicomio. Per il malato la perdita della libertà che è alla base della sua malattia, viene inevitabilmente identificata con la libertà di cui noi lo abbiamo privato: egli è la porta chiusa contro cui ogni progetto, ogni futuro si infrangono.

Naturalmente il problema della libertà per il malato di mente, o meglio il problema del malato nell’ospedale, non è sorto all’improvviso, per l’improvvisa rivelazione di una realtà sconosciuta, ma si è riproposto, con un’esigenza di cui non si può non tener conto, dopo la trasformazione prodotta dai farmaci nel rapporto fra il malato e la sua malattia. Se il malato ha perduto la sua libertà a causa della malattia, questa libertà di ripossedere se stesso gli è stata donata dal farmaco. Se era stato, dunque, possibile ignorare l’appello lanciato dalle teorie psicodinamiche che proponevano un nuovo modo di approccio con la malattia mentale, dopo che i nuovi farmaci hanno creato una nuova dimensione fra il malato e la sua malattia, facendolo apparire ai nostri occhi – libero dai vecchi schemi delle sindromi clamorose – in una sfera completamente umana, non è più possibile isolarlo nel cerchio dei folli e non considerarlo semplicemente un uomo malato. È quindi tempo di affrontare il problema del malato mentale nell’ospedale, in questo spazio chiuso, staccato da ogni rapporto che non sia malato, in attesa di riconquistare la sua personale libertà che non può venirgli regalata né dai farmaci né dal medico.

BURTON, nella sua monografia, riconosce tuttavia anche ai farmaci un potere istituzionalizzante e non si può non essere d’accordo con lui, quando il farmaco sia somministrato in un clima seriamente istituzionalizzante: se, contemporanea all’azione del farmaco, l’ospedale non attua un’azione di difesa della libertà, della cui perdita il malato già soffre, il farmaco – dandogli con la azione un limite più vasto di coscienza – aumenterà in lui la convinzione di essere ormai definitivamente perduto e che nessun appello potrà riesaminare la prima sentenza. Così, la particolare attitudine del paziente in trattamento farmacologico – l’indifferenza, l’apatia sotto molti aspetti simili alla perdita di ogni interesse alla vita dell’istituzionalizzato – può essere sempre imputata al costante potere istituzionalizzante dell’ospedale che continua ad agire sul paziente nel senso di un ulteriore deterioramento.

Ma l’ovvia scoperta della libertà cui lo psichiatra sembra essere giunto, presuppone in lui la conoscenza della sua personale libertà: il superamento cioè di un rapporto oggettivo con il paziente, nel quale non può vedere solo un isolato oggetto di studio o di analisi che gli si offre in una relazione alienante di servo-signore (si resterebbe sempre in un clima di pseudo-libertà alla PINEL), ma un soggetto in cui può riconoscere la sua personale soggettività e libertà. Il medico – delegato dalla società alla cura del malato di mente – non può, come punta avanzata del mondo dei sani col mondo alienato, continuare a rispecchiare su un piano esecutivo l’attitudine della società. Se la società, le organizzazioni amministrative da cui i manicomi dipendono, sembrano vivere in un costante culto del pessimismo, lo psichiatra non può esserne il portavoce disinteressato. Se il fatalismo verso la malattia mentale poteva essere giustificato in assenza di efficaci terapie, dopo l’avvento dell’era farmacologica esso diventa inesplicabile se non imputando all’attuale classe psichiatrica un ruolo determinante di responsabilità.

I servizi psichiatrici esterni, in particolare la cosiddetta "psichiatria a settore", stanno alzando le prime barriere capaci di impedire l'ingresso nel manicomio. Ma se anche queste strutture potranno diminuire l'afflusso di nuove reclute resta tuttavia il problema del manicomio come abitazione forzata, come luogo di perpetua istituzionalizzazione dove il malato è costantemente "sotto processo, condannato - come dice FOUCAULT - ad essere posto sotto un atto di accusa il cui testo non è mai mostrato perché è segnato nell'intera vita dell'asilo".

Queste riflessioni e quelle che seguiranno sono il risultato di tre anni di studio e di lavoro per la riorganizzazione di un ospedale di circa 600 malati, nei quali il potere istituzionalizzante del ricovero aveva agito, sovrapponendosi all'originaria malattia, in modo tale da rendere spesso impossibile stabilire quanta parte del loro stato fosse imputabile all'azione dell'una o dell'altro.

Non si può, in questa breve nota, esporre con l'ampiezza necessaria i passi graduali adottati (saranno documentati in un lavoro a parte); si vuole soltanto porre l'accento sugli elementi sui quali è stato possibile ed è possibile far leva, senza il minimo appoggio di una legge e di una società che si dicono non ancora pronte e mature per esperienze del genere. I passi attuati sono, d'altra parte, facilmente intuibili se non addirittura ovvi, anche se - come nel nostro caso - il culto del pessimismo aleggiava ed aleggia tuttora su ogni nostra iniziativa che può essere portata a termine solo continuando a tener vivo il senso di responsabilità di tutti nella mancata realizzazione degli scopi prefissi.

I dati possono, comunque, concretarsi in alcuni punti:

1. Introduzione dei farmaci per mezzo dei quali - nonostante il clima istituzionalizzante - fu possibile eliminare le contenzioni ed incominciare a distinguere i danni della malattia da quelli dell'istituzionalizzazione.
2. Tentativo di rieducazione teorica ed umana del personale.
3. Riannodamento dei legami con l'esterno.
4. Abbattimento delle barriere fisiche (reti e grate), per lo più attuato materialmente dagli stessi malati.
5. Apertura delle porte secondo il sistema "open door", compatibilmente con la legge attuale.
6. Creazione di un Ospedale di Giorno il cui edificio, ricavato da un precedente reparto, è pronto da quasi un anno, chiuso in attesa del beneplacito dell'amministrazione che sembra non riesca a trovare una soluzione amministrativa al nuovo servizio.
7. Tentativo di organizzare la vita nell'ospedale secondo i concetti di una comunità terapeutica.

Questi graduali provvedimenti, tendenti tutti a creare un clima di libertà nell'interno dell'Ospedale, hanno portato al libero movimento di 400 malati su 600; alla costituzione di gruppi di lavoro, di discussione ecc. che impegnano la metà dei ricoverati; all'abbozzo, cioè, di una comunità terapeutica ed alla graduale scomparsa delle fughe il cui numero è risultato inversamente proporzionale alla graduale liberalizzazione attuata.

La realizzazione di queste prime tappe verso la trasformazione del manicomio in un ospedale di cura, ha presentato però dei seri problemi nel rapporto con l'ammalato che conquista, gradualmente, la coscienza dei propri diritti umani. Il malato mentale (mi riferisco qui alla maggioranza dei malati il cui livello di deterioramento psichico era opera più del potere istituzionalizzante del ricovero, che della originaria malattia) non si presenta più come un uomo rassegnato e docile ai nostri voleri, intimidito dalla forza e dall'autorità di chi lo tutela; un uomo che accetta supinamente come naturale e logica la sua inferiorità in confronto agli altri. Ma si presenta come un malato il quale, reso oggetto dalla malattia, non accetta più di essere oggettivato dallo sguardo del medico che lo tiene a distanza. L'aggressività che - come espressione della malattia ma, soprattutto, dell'istituzionalizzazione, rompeva di tanto in tanto lo stato di apatia e di disinteresse - cede il passo in molti pazienti ad una nuova aggressività sorta dall'oscuro sentire, al di là dei loro particolari deliri, di essere "ingiustamente" considerati non uomini soltanto perché sono "in manicomio".

È in questo momento che il ricoverato, con un'aggressività che trascende dunque dalla sua stessa malattia, scopre il duo diritto a vivere una vita umana. Ed è ora che il medico non può tradire il suo rapporto di uguaglianza con lui: dopo aver fatto leva sul suo sentimento di umanità mortificata, non può lasciarlo ancora in questo spazio chiuso nel quale le sue nuove illusioni non possono che rompersi. La "porta aperta", come la prova definitiva dell'abbandono, da parte del medico, del mondo dell'inganno, agisce sul malato dimostrandogli che lo psichiatra non vive più nel culto del pessimismo di cui la società sembra ancora impregnata. Il paziente sente il significato di questo atto prima della società che, tuttora estranea a questi problemi, sembra riesca ad avvicinarli solo con un paternalistico spirito pietista di cui il malato non ha bisogno. La "porta aperta" (terrore dei nostri legislatori), l'abolizione delle grate, l'apertura dei cancelli agisce profondamente, dandogli la percezione di vivere in un luogo di cura nel quale può gradualmente riconquistare il suo rapporto con gli "altri", con chi lo cura, con i compagni.

Luogo di istituzionalizzazione e di alienazione indotta, l'Ospedale Psichiatrico potrebbe però rischiare di mutarsi - attraverso le nuove misure attuate - in altro luogo di alienazione, se è organizzato come un mondo in sé compiuto, nel quale tutti i bisogni sono soddisfatti, come in una gabbia d'oro.

Lo scioglimento delle contenzioni fisiche ha attualmente liberato il malato dal suo stato di soggezione alla "forza" cui, comunque, riusciva deliberatamente e personalmente a ribellarsi - attraverso i suoi "eccessi". La libertà donatagli dal medico e dal nuovo clima ospedaliero può produrre ora in lui uno stato di soggezione ancora più alienante, perché frammisto a sentimenti di dedizione e di riconoscenza che lo legano al medico in un rapporto ancora più stretto, più infrangibile, più profondamente mortificante e distruttivo di qualsiasi contenzione fisica: un rapporto di assoluta soggezione e dedizione al "buono" che si dedica a lui, che si china - dalla sua altezza - ad ascoltarlo e non dice mai di no. Ciò non potrà che accelerare il processo regressivo che lo spingerà a sprofondare gradualmente in un morbido, indolore annientamento totale che chiamerei una sorta di istituzionalizzazione molle.

Per questo il paziente continuerà a sentire la libertà, di cui avverte la presenza, come qualcosa venutagli dal di fuori, non come il risultato di una sua conquista. Così, per lungo tempo, - dopo l'abolizione delle grate da lui stesso divelte e distrutte su invito del medico - non andrà oltre il limite che gli era stato prima imposto: il disegno del cortile resta nella sua mente e la porta aperta è per lui ancora una porta chiusa. È lì, in attesa che qualcuno pensi e decida per lui perch non sa, o non si vuole fargli sapere, di poter fare appello alla sua iniziativa, alla sua responsabilità, alla sua libertà. Accettando questa libertà come un dono da parte del medico, egli resta dunque sempre, nei suoi confronti, nel primitivo rapporto alienante di servo-signore.

Ora, perché il manicomio, dopo la graduale distruzione delle sue strutture alienanti, non abbia a declinarsi in un ridente asilo di servi riconoscenti, l'unico punto su cui sembra di poter far leva è l'aggressività individuale. Su questa aggressività, che è ciò che noi psichiatri cerchiamo per un'autentica relazione con il paziente, potremo impostare un rapporto di tensione reciproca che, solo, può essere in grado - attualmente - di rompere i legami di autorità e di paternalismo, causa fino a ieri di istituzionalizzazione.

La complessa organizzazione dell'Ospedale, può andare incontro a seri rischi, ma è forse nel rischio che lo psichiatra può mettersi alla pari con il malato, in un gioco di tensione e controtensione che coinvolge paziente e medico. Quest'ultimo aspetto necessita comunque di un'analisi più approfondita ed esperimentata che sarà oggetto di un successivo lavoro.

L'esperimento di un'organizzazione perfetta, paradossalmente tendente, con la sua massa di norme e di regole, al fallimento del suo compito (l'uomo istituzionalizzato), ci autorizza tuttavia a tentare una nuova impostazione dell'Ospedale Psichiatrico dove si tenga conto prima del malato e poi della costruzione attorno a lui di una dimensione che gli si adegui, nel senso che deve sorgere dalle sue stesse necessità: saranno le relazioni di gruppo, le terapie di comunità, i club, le discussioni di gruppo in cui l'aggressività del malato viene instradata, a creare attorno a lui uno spazio nato dal suo "muoversi", dal suo vivere con gli altri. In questa comunità terapeutica, calcolata sul terreno dei suoi interessi e dei suoi stimoli, riacquisterà il valore e la padronanza di sé, il suo posto, il suo ruolo anche nello spazio dell'ospedale, le cui mura non sono un limite di proprietà, oltre il quale non c'è separazione né mortificazione.

In questa dimensione troverà posto l'Ospedale di Giorno come punto di unione, attraverso la "psichiatria a settore" fra l'interno e l'esterno. In questo ospedale a mezza giornata il malato potrà vivere su due registri: quello del trattamento e quello della graduale conquista di una libertà di cui si sentirà padrone e responsabile.

Tre anni di lavoro in questo senso non sono sufficienti per trarre delle conclusioni, ma solo per tracciare delle prospettive, tanto più che il culto del pessimismo che ci circonda e l'esiguità dei mezzi concessi rendono tutto lento, faticoso ed i risultati apparenti meno evidenti.

I reparti ancora arredati con panche e tavoloni, dove i servizi igienici sono per lo più contro ogni senso di dignità, il vestito rattoppato e povero, il personale sanitario scarso in rapporto alle esigenze terapeutiche create, dove si aspettano ancora provvedimenti di prima urgenza perché l'amministrazione non trova, per intralci burocratici, l'avvio al finanziamento di una sistemazione dell'ospedale, il clima di libertà è tuttavia sentito in un modo tale che il malato sopporta la mancanza di questi provvedimenti, diventando complice e collaboratore del medico nell'esigere la sua sistemazione in uno spazio adatto alla sua umanità e alla sua malattia.

Riuscirà comunque il principio di libertà a scalzare quello di autorità? Le premesse della comunità terapeutica sembrano darci ragione perché pazienti, medici e personale sono tutti coinvolti nella stessa crisi ed in essa trovano la loro comune base umana.

Bibliografia

BURTON R. - Institutionale Neurosis. Ed. John Wright, BRISTOL, 1959.
EY H - L'essence de la maladie mentale et la Loi de 1838 (Aliénation, Espace et - Liberté). L'Evol. Psych., 39, 1-5, 1964
FOUCAULT M.- Folie et deraison. Histoire de la folie a l'âge classique. Ed. Plon, Paris,1961.


3 commenti:

  1. “un morbido, indolore annientamento totale- una istituzionalizzazione molle”: come nella ‘morbida macchina’ di Burroughs, con il controllo telepatico assoluto sui sottomessi da parte dei sacerdoti maya, con i loro riti ed i loro poteri. E ciò non riguarda solo il passato (passato?) del manicomio, ma le istituzioni diffuse e dolci.

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  2. "an easy, light total destruction- a soft institutionalization": like in Burrough's 'soft machine', with the Maya priests' absolute telepathic control on subjects, with the priests' rites and powers. Which is true not only about the past (past?) of asylums, but also about the institutions diffused and sweet'.

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  3. [W.Burroughs- 'Lo scherzo maya'] We walked many hours and it was dawn when we came to a clearing where I could see a number of workers with sharp sticks and gourds of seed planting corn—The boy touched my shoulder and disappeared up the path in jungle dawn mist—
    As I stepped forward into the clearing and addressed one of the workers, I felt the crushing weight
    of evil insect control forcing my thoughts and feelings into prearranged molds, squeezing my spirit
    in a soft invisible vise—The worker looked at me with dead eyes empty of curiosity or welcome
    and silently handed me a planting stick—It was not unusual for strangers to wander in out of the
    jungle since the whole area was ravaged by soil exhaustion—So my presence occasioned nocomment—I worked until sundown—I was assigned to a hut by an overseer who carried a carved
    stick and wore an elaborate headdress indicating his rank—I lay down in the hammock and
    immediately felt stabbing probes of telepathic interrogation—I turned on the thoughts of a halfwitted young Indian—After some hours the invisible presence withdrew—I had passed the first test

    During the months that followed I worked in the fields—The monotony of this existence made my
    disguise as a mental defective quite easy—I learned that one could be transferred from field work to
    rock carving the stellae after a long apprenticeship and only after the priests were satisfied that any
    thought of resistance was forever extinguished—I decided to retain the anonymous status of a field
    worker and keep as far as possible out of notice—
    A continuous round of festivals occupied our evenings and holidays—On these occasions the
    priests appeared in elaborate costumes, often disguised as centipedes or lobsters—Sacrifices were
    rare, but I witnessed one revolting ceremony in which a young captive was tied to a stake and the
    priests tore his sex off with white-hot copper claws—I learned also something of the horrible
    punishments meted out to anyone who dared challenge or even think of challenging the controllers:
    Death in the Ovens: The violator was placed in a construction of interlocking copper grills—The
    grills were then heated to white heat and slowly closed on his body. Death In Centipede: The
    "criminal" was strapped to a couch and eaten alive by giant centipedes—These executions were
    carried out secretly in rooms under the temple.
    I made recordings of the festivals and the continuous music like a shrill insect frequency that
    followed the workers all day in the fields—However, I knew that to play these recordings would
    invite immediate detection—I needed not only the sound track of control but the image track as well
    before I could take definitive action—I have explained that the Mayan control system depends on
    the calendar and the codices which contain symbols representing all states of thought and feeling
    possible topossible to human animals living under such limited circumstances—These are the instruments with which they rotate and control units of thought—I found out also that the priests themselves do not understand exactly how the system works and that I undoubtedly knew more about it than they did as a result of my intensive training and studies—The technicians who had devised the control system had died out and the present line of priests were in the position of some one who knows what buttons to push in order to set a machine in motion, but would have no idea how to fix thatmachine if it broke down, or to construct another if the machine were destroyed...

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