L’albero
Non
fate morire quell’albero gramo
che
nella mente matura ribelli semi vermigli.
Ambascia
ci porta, ma insieme pensieri
tolti
alla morte. E carezze al futuro.
L’ombra
di lui mitoleggia nel tutto del mondo
e
palpita in brio in brina al buio, fra lugubri tonfi d’eventi.
O
sta nel bianco solitario slimitato potato dal logico gioco.
La
sua radice non dice più a che ramo conduce
ma,
solo per lui, puliti miti oscuri nostri gemelli
ancora
vanno, operosi su incerti sentieri;
e
accendono luci tutto tatto nelle celle cupe della sera
dove
ondula, austera, minacciosa, la biblica mela.
Lo
scriba, arrestato da immoti dolosi discorsi
descrive
a stento un suo calco, che subito stinge.
L’albero
gli sfugge in traballanti visioni
freme
negli scarabocchi, sviene in canti alti;
né
nenia l’intrattiene. Per terra finito,
sotterra,
lui pure interrato, sotto messo
da
morte, atterrito, vien dato da molti,
che
volentieri o furenti colmano per finta
la
poderosa fossa da lui ereditata
di
gioie più prossime, minuscoli affetti
e
stenti sentimenti senza sementi.
Ma
l’albero svetta là, sulla strada dimenticata.
Orrido
non è. Alle belle onde non cede.
Non
gocciola spiccioli d’imposti doveri.
Dà
dolore vero. Poiché innalza il conflitto
sconfitto,
scorcia il nostro sgomento
e
fermo a quello lo ritorce.
(2002)
La pòlis che non c’è di Ennio Abate sembra partire proprio da questo presupposto: ossia la necessità di «[ri-]raccontare altrimenti gli avvenimenti fondatori» dell’odierna società italiana, intrecciando vicende personali e storia collettiva, in un groviglio mai districabile.
Le date entro cui sono state stati
scritti questi straccetti rovelli artigliate sono quanto mai
esemplificative: 2012, cioè l’oggi, per quanto concerne il termine
ultimo; il 1978, naturalmente scelto «per ragioni non solo
biografiche» (dalla Nota dell’Autore), il punto di partenza. È
nel ’78 del resto che il Rapimento di Aldo Moro dà avvio da un
lato alla marginalizzazione delle voci critiche (già il 16 marzo,
scrive Abate, «noi zitti in piazza / mentre De Carlini vaneggia /
infilando in trinità / Matteotti Togliatti e Moro») e alla
correlata speranza di riscatto sociale degli ultimi, e dall’altro
all’istituzione, nei suoi tratti fondamentali, di un nuovo stato
repubblicano italiano: «a milioni siamo condotti all’ovvio
repubblicano / a contemplare il miracolo / detto “straordinario
sussulto democratico” che / BR permettendo / salderebbe “Paese
reale e Paese legale”». Sicché il 1978 diventa l’anno
fondatore, e il rapimento Moro l’evento in seguito al quale lo
stato dei vincitori, quelli che partecipano «al saccheggio della
ricchezza esistente» (Oh, che bel rifiuto del lavoro Madame Dorè!),
si impone, appianando le contraddizioni in una tonda, ovattata e
morbida armonia sociale e culturale.
Sia detto subito. Quella di Ennio Abate
non è una poesia impegnata, se per “impegno” intendiamo una
presa di posizione ideologica facilmente codificabile con formule a
portata di mano (lo stesso autore avverte che queste «non sono
poesie che mi sento di definire, come si suol dire, civile o
politiche», Nota dell’Autore); e non lo è nemmeno se si cerca in
essa la difesa “degli umili e degli oppressi”, secondo una
retorica che vorrebbe far raccontare la storia non più solo con il
sangue dei vinti, ma anche con le loro parole. Nulla di tutto questo.
Quella di Abate è una poesia impegnata, e aggiungerei “politica e
civile”, perché riflette e punta l’indice sui nodi irrisolti,
che non riguardano solo chi è più in basso (semmai costoro sono
coloro che pagano di più), ma il concetto di stesso di comunità e
di identità collettiva: la pòlis appunto. [Massimiliano Tortora- dalla presentazione del libro]
una cosa bella è una gioia per sempre
(KEATS)
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