BEYOND THE ADVANCED PSYCHIATRIC SOCIETY- A COLLECTIVE RESEARCH/ OLTRE LA SOCIETA' PSICHIATRICA AVANZATA- UNA RICERCA COLLETTIVA


cerca nel blog

venerdì 29 novembre 2013

GIACOMO CONSERVA: "Un approccio alle emozioni "(2004)





Un approccio alle emozioni (2004)

Emozioni, passioni, affetti, sentimenti, carattere e tratti caratteriali: un continuum che variamente impegna aspetti chiave dell’esistenza. Fare i conti con tutto questo è qualcosa non solo di teorico (e di indubbio valore euristico) quanto pure di rilevantissima importanza pratica: Non è da pensare che si sia dovuto aspettare lo sviluppo della psicologia scientifica o della psicoterapia in senso stretto perché questo lavoro iniziasse. Dal punto di vista categoriale, e dal punto di vista delle ricette di intervento, i sistemi religiosi, la filosofia teoretica, la morale nella loro storia sono ricchissimi sotto questo punto di vista, con ovvie radicali differenze fra di loro. Pensiamo alla lista dei vizi capitali ( sette), e delle virtù cardinali (liste che riprendono temi e modi di procedere della filosofia greca media e tarda):
vanagloria, invidia, accidia, ira, avarizia, gola, lussuria; fortezza, prudenza, giustizia, temperanza, forza, speranza, carità: qui vi è, compresso, tutto un sapere sulla vita umana, le dinamiche e le strutture della personalità (cfr. il libro di Foucault sulla ‘volontà di sapere’).
Si era pure in grado di vedere, -sia nella pratica pastorale che a livello teorico-, come le varie emozioni si ingranassero fra di loro; si veda p.e. questo passo di Tommaso d’Aquino, a proposito della ‘accidia’ (N.B. l’accidia era definita come il distogliersi dell’impegno e della attenzione dai doveri religiosi):

poiché nessun uomo può rimanere a lungo senza godimento e nella tristezza, come dice il Filosofo [Aristotele] nell’ottavo libro dell’Etica, perciò dalla tristezza derivano due conseguenze, la prima delle quali è che l’uomo si allontani da quelle cose che lo rattristano, la seconda è che passi ad altre, in cui provi piacere. E, in base a ciò, il Filosofo, nel secondo libro dell’Etica, dice che coloro i quali non possono gioire dei piaceri dello spirito per lo più si danno ai piaceri del corpo. E, in base a ciò, dalla tristezza che nasce dai beni dello spirito consegue lo svago nelle cose illecite, nelle quali l’anima carnale prova piacere.
Ora, nella fuga dalla tristezza [dell’accidia] s’osserva un simile processo: in un primo momento l’uomo fugge dai beni dello spirito, in un secondo momento persegue [i beni del corpo]. Ora, alla fuga dai beni dello spirito, che possono dare piacere, appartiene sia l’allontanamento dal bene divino sperato- e questa è la disperazione- sia anche l’allontanamento dal bene spirituale da fare. E precisamente, l’allontanamento che riguarda le cose che sono comunemente necessarie alla salvezza è la svogliatezza verso i comandamenti, invece quello riguardante le cose ardue, che rientrano nei consigli, è la pusillanimità. Inoltre, accade anche che, se uno, contro la sua volontà, è tenuto legato ai beni dello spirito, che lo rattristano, in un primo momento nutre certamente sdegno contro quei prelati o contro qualsiasi persona che lo tiene legato a quei beni- e questo è il rancore, in un secondo momento nutre sdegno e odio contro gli stessi beni spirituali- e questa è la malizia.
(Tommaso d’Aquino, “Il male”, 231b)

O prendiamo il celeberrimo passo di San Paolo, dalla Lettera ai Romani, a proposito della ira di Dio contro l’umanità peccatrice:

In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.
Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa.
(ROMANI I, 24-32
http://www.crs4.it/Letteratura/Bibbia/Libro52.html)

Colpisce in San Paolo non solo lo slancio accusatorio ma pure la finezza delle articolazioni, la ricchezza del vocabolario messo in campo- con echi significativi giù giù nei secoli, fino ad arrivare p.e. a testi fondanti della modernità.
Le ‘Memorie del sottosuolo’ di Dostojevskij:

Io sono un uomo malato… astioso. Sono un uomo malvagio. Credo di essere malato di fegato. Del resto non ne so un accidente della mia malattia e non so neppure esattamente cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono mai curato sebbene abbia rispetto per la medicina e per i medici. Inoltre sono anche estremamente superstizioso: insomma quanto basta per tenere in considerazione la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma sono superstizioso). No, io non voglio curarmi per rabbia. Questo voi, certamente, non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Naturalmente non sono in grado di spiegarvi a chi precisamente la farò pagare, in questo caso, la mia rabbia; so perfettamente che neanche ai medici potrò ”recar danno” se non mi curo da loro; so meglio di chiunque che in questo modo danneggio unicamente me stesso e nessun altro; eppure, se io non mi curo, è solo per rabbia. Ho mal di fegato? Tanto meglio, mi faccia ancora più male!
E un pezzo che vivo così: saranno vent’anni. Ora ne ho quaranta. Prima ero impiegato, adesso non lavoro più. Ero un pessimo impiegato. Ero sgarbato e ci provavo gusto.
E ora ho voglia di raccontarvi, signori, vi piaccia o non vi piaccia, perché io non sia riuscito a diventare nemmeno un insetto. Vi dichiaro solennemente che spesso desideravo diventare un insetto. Ma neppure di ciò ero degno. Vi giuro, signori, che aver troppa consapevolezza è una malattia, un’autentica, seria malattia…
(IL SOTTOSUOLO, I-II passim)


L’incipit delle ‘Poesie’ di Lautreamont- che non a caso riprende e sovverte tutta la tradizione, e i testi, dei moralisti francesi dell’età classica:

Le perturbazioni, le ansie, le depravazioni, la morte, le eccezioni nell’ordine fisico o morale, lo spirito di negazione, gli abbrutimenti, le allucinazioni servite dalla volontà, i tormenti, la distruzione, i ribaltamenti, le lacrime, le insaziabilità, gli asservimenti, le immaginazioni perforanti, i romanzi, ciò che è inatteso, ciò che non si deve fare, le singolarità chimiche d’avvoltoio misterioso che spia la carogna di qualche illusione morta, le esperienze precoci ed abortite, le oscurità dal guscio di cimice, la terribile monomania dell’orgoglio, l’inoculazione di stupori profondi, le orazioni funebri, le invidie, i tradimenti, le tirannie, le empietà, le irritazioni, le acrimonie, le sfuriate aggressive, la demenza, lo spleen, i ragionati spaventi, le strane inquietudini, che il lettore preferirebbe non provare, le smorfie, le nevrosi, le trafile sanguinose attraverso le quali si fa passare la logica alle corde, le esagerazioni, l’assenza di sincerità, le fregnacce, le piattezze, il cupo, il lugubre, i parti, peggiori degli omicidi, le passioni, il clan dei romanzieri da corte d’assise, le tragedie, le odi, i melodrammi, gli estremi ostentati in perpetuità, la ragione impunemente fischiata, gli odori di gallina bagnata, le scipitaggini, le rane, i polipi, i pescecani, il simun dei deserti, ciò che è sonnambulo, losco, notturno, soporifero, nottambulo, vischioso, foca parlante, equivoco, tisico, spasmodico, afrodisiaco, anemico, guercio, ermafrodito, bastardo, albino, pederasta, fenomeno d’acquario e donna barbuta, le ore ubriache dello scoraggiamento taciturno, le fantasie, le acredini, i mostri, i sillogismi demoralizzanti, le schifezze, ciò che non riflette come il bambino, la desolazione, questa mancinella intellettuale, i cancheri profumati, le cosce alla camelia, la colpevolezza di uno scrittore che rotola lungo il declivio del nulla e disprezza sé stesso con grida di gioia, i rimorsi, le ipocrisie, le prospettive vaghe che vi stritolano nei loro impercettibili ingranaggi, gli sputi seri sugli assiomi sacri, il verme e i suoi titillii insinuanti, le prefazioni insensate, come quelle di cromwell, di mlle de maupin e di dumas figlio, le caducità, le impotenze, le bestemmie, le asfissie, i soffocamenti, le rabbie, davanti a questi immondi carnai, che arrossisco di nominare…
(Poesie, I, passim)


I moralisti sono appunto una delle fonti di una osservazione attentissima sulla vita emozionale: da Seneca, con la sua ricostruzione tragica dell’inferno delle passioni (che tanto effetto doveva poi avere fino a Shakespeare, e oltre), a Le Bruyere. Le Bruyere, significativamente, si rifà ai ‘Caratteri’ di Teofrasto, il grande discepolo di Aristotele. E infatti la filosofia aristotelica, caratterizzata da un atteggiamento di accettazione di base della vita terrena nei suoi vari aspetti, è alla base di tutta una analitica dei sentimenti ( dei quali generalmente condanna eccesso e rozzezza, senza volerli annientare o cancellare come in tante altre tradizioni, come per esempio lo stoicismo).
Non è comunque da pensare che solo filosofi e maestri religiosi abbiano elaborato questi temi. Innanzitutto, nel linguaggio stesso che parliamo è implicita una serie di valutazioni, una fenomenologia della vita emozionale (non a caso sfruttata dalla psicologia scientifica contemporanea, nello sforzo di caratterizzare, distinguere, assegnare un peso e una frequenza alle varie emozioni). Bruciare di rabbia, diventare rossi di vergogna, mangiarsi il fegato, essere in un brodo di giuggiole…: non solo “modi di dire”, ma categorizzazione e schemi di orientamento per il soggetto- che si muove non nel vuoto, davanti alle risposte delle sue amigdale e del Sistema Nervoso Autonomo, ma appunto inserito in ( e parte di) una rete di significati ed un insieme di esperienze collettivamente scambiate (entrambe ovviamente spesso molto diverse in diversi contesti culturali: p.e. in Giappone e in Italia). All’interno dello sviluppo storico, d’altra parte, esistono spostamenti semantici rilevanti: così accidia da disinteresse verso i doveri religiosi (v. sopra) diventa la pigrizia (e viene di fatto inserita nel campo di riferimento dell’etica del lavoro), o la pietas – devozione ai valori morali nel comportamento, rispetto del Divino- si trasforma in pietà. Tutto quanto il campo della vita emozionale può essere giudicato di scarso interesse, illusorio se non malvagio, da limitare controllare o sopprimere; o si può sostenere che i guai del mondo derivano dalla civiltà repressiva (patriarcale, fallologocentrica etc etc), dalla repressione sessuale o- con accenti svariatamente diversi- dalla inibizione della vita emotiva tout court: il che ha p.e. portato a rivoluzioni di costume e a diversissimi stili di psicoterapia.
Lo spazio interno dell’esperienza può venire scoperto con profonda emozione e durevoli conseguenze: si veda il celebre brano delle Confessioni di Agostino sulla memoria:

8. 12. Trascenderò dunque anche questa forza della mia natura per salire gradatamente al mio Creatore. Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto.
Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e, mentre ne cerco e desidero altre, balzano in mezzo con l’aria di dire: "Non siamo noi per caso?", e io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò. Tutto ciò avviene, quando faccio un raccontol la memoria.
13. Lì si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti gli odori per l’accesso delle nari, tutti i sapori per l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità diffusa in tutto il corpo la durezza e mollezza, il caldo o freddo, il liscio o aspro, il pesante o leggero sia all’esterno sia all’interno del corpo stesso.
Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza.
Tutte vi entrano, ciascuna per la sua porta, e vi vengono riposte. Non le cose in sé, naturalmente, vi entrano; ma lì stanno, pronte al richiamo del pensiero che le ricordi, le immagini delle cose percepite. Nessuno sa dire come si siano formate queste immagini, pongono nel nostro interno. Anche immerso nelle tenebre e nel silenzio io posso, se voglio, estrarre nella mia memoria i colori, distinguere il bianco dal nero e da qualsiasi altro colore voglio, la mia considerazione delle immagini attinte per il tramite degli occhi non è disturbata dalle incursioni dei suoni, essi pure presenti, ma inavvertiti, come se fossero depositati in disparte.
Ma quando li desidero e chiamo essi pure, si presentano immediatamente, e allora canto finché voglio senza muovere la lingua e con la gola tacita; e ora sono le immagini dei colori che, sebbene là presenti, non s’intromettono a interrompere l’azione che compio, di maneggiare l’altro tesoro, quello confluito dalle orecchie.
Così per tutte le altre cose immesse e ammassate attraverso gli altri sensi: le ricordo a mio piacimento, distinguo la fragranza dei gigli dalle viole senza odorare nulla, preferisco il miele al mosto cotto, il liscio all’aspro senza nulla gustare o palpare al momento, ma col ricordo.
14. Sono tutte azioni che compio interiormente nell’enorme palazzo della mia memoria. Là dispongo di cielo e terra e mare insieme a tutte le sensazioni che potei avere da essi, tranne quelle dimenticate. Là incontro anche me stesso e mi ricordo negli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nei sentimenti che ebbi compiendoli.
Là stanno tutte le cose di cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite da altri. Dalla stessa, copiosa riserva traggo via via sempre nuovi raffronti tra le cose sperimentate, o udite e sulla scorta dell’esperienza credute; non solo collegandole al passato, ma intessendo sopra di esse anche azioni, eventi e speranze future, e sempre a tutte pensando come a cose presenti. "Farò questa cosa, farò quell’altra", dico fra me appunto nell’immane grembo del mio spirito, popolato di tante immagini di tante cose; e l’una cosa e l’altra avviene.
"Oh, se accadesse questa cosa, o quell’altra!", "Dio ci scampi da questa cosa, o da quell’altra!", dico fra me. e mentre lo dico ho innanzi le immagini di tutte le cose che dico, uscite dall’unico scrigno della memoria, e senza di cui non potrei nominarne una sola.
15. Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No.
Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch’io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l’Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me.
Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.
(CONFESSIONES X, 8;
http://www.mistici.org/cultura/classici/agos_master.htm )

Qui veniva inaugurato un approccio e un tono destinati a molteplici ripercussioni riprese e trasformazioni- dalla lettera del Petrarca sulla ascesa al Monte Ventoso (cfr. Hillman) a “Psicologia e alchimia” di Jung 1alla “Politica della esperienza” di Ronald Laing e alla metafisica psichedelica (o, in una versione del tutto laica, alla “Interpretazione dei sogni” di Freud ).


In effetti, non esistono solo dei circuiti neurali integrati ( sistema libico/amigdala, emisferi cerebrali destro e sinistro- con ruoli differenziati) o emozioni base (secondo le varie analisi il numero oscilla p.e. da cinque a otto: in un sistema vengono così elencate rabbia, tristezza, paura, felicità, imbarazzo, disgusto, sorpresa), ma regole di esibizione, criteri interpretativi, schemi valutativi, strategie relazionali interpersonali nel gioco emotivo; esso stesso viene coscientemente sfruttato negli sforzi retorici di persuasione (a fini economici, politici o giudiziari); viene messo in scena, evocato, prodotto nelle opere d’arte (con il loro nesso inestricabile di aspetti cognitivi ed emotivi, ed il loro ruolo sostanziale nella vita umana- variamente consolatorio, propulsivo, preformativo). La stessa empatia- fondamentale nel tenere in piedi il tessuto sociale e nel costruire una base portante delle regole di comportamento e della morale- apre pure il varco a intromissioni indebite nella propria intimità e a identificazioni con proiezioni altrui distruttive. In una società come la odierna convivono infine tendenze disparate, in cui il ruolo altamente condizionante dei mezzi di comunicazione di massa va di pari passo con la frammentazione dei vecchi gruppi sociali e politici e con una esaltazione delle scelte individuali, del piacere e del tornaconto individuale.
Da notare è che nelle forme genericamente riconducibili alla cultura New Age questo piacere e tornaconto tendono a venire spiritualizzati, senza però spesso perdere alcuni aspetti brutali di ignorazione dell’Altro. Non a caso, uno dei punti chiave delle psicoterapie analitiche in senso lato non è solo il rapporto con le emozioni proprie ( soppresse o meno) e con la propria storia (da recuperare o reinterpretare) ma proprio la relazione con l’altro, con le sue trappole e ambiguità e inconcludenze, e la sua ricchezza possibile (aspetto questo singolarmente non tematizzato in una opera come quella sulla emozioni di Borgna, tanto piena di mistica del volto, dell’incontro, della identificazione, e di pathos esistenziale, e tanto saldamente fondata sul primato di colui che detiene il potere di comprendere, soffrire-con, interpretare- che lì è, molto banalmente, il ‘medico’ davanti al suo ‘paziente’).
Le formulazioni di Goleman sulla intelligenza emozionale peccano forse di semplificazione- ma è indubbio che bugie, blocchi e deformazioni rispetto a quello che si sente e si è aprono la strada a molteplici conseguenze negative: rigidità interpersonale, aumentata spinta alla aggressività e così via (fino pure in determinati casi a sintomi patologici in senso stretto, giù giù fino ai crolli psicotici veri e propri). ‘E esattamente qui, nell’insieme delle lotte per una umanizzazione della vita associata, che si inseriscono gli sforzi dei terapeuti- i quali sfruttano le energie costruttive e gli aspetti progressivi generalmente sempre presenti, anche se inibiti; -senza pretendere di creare il paradiso in terra, ma sicuramente cercando di rendere maggiormente possibile ad alcune persone una vita più reale, più creativa, più produttiva e più felice.
Nel 1980 Carl Rogers scriveva così, parlando del futuro e di chi avrebbe potuto costruirlo:

Chi sarà capace di vivere in questo mondo terribilmente strano? Credo che lo saranno coloro che sono giovani nella mente e nello spirito- e questo spesso significa coloro che sono giovani anche nel corpo. A mano a mano che la nostra gioventù cresce, in un mondo in cui le tendenze e le concezioni come quelle che ho descritto si avviluppano, molti diventeranno persone nuove- adatte a vivere nel mondo di domani- e saranno raggiunti dalle persone più anziane che sono state capaci di assorbire i concetti trasformati.
Non tutti i giovani, naturalmente. Sento dire che i giovani di oggi sono interessati soltanto al lavoro e alla sicurezza, che non sono persone che vogliono assumere rischi o introdurre innovazioni, e che cercano da semplici conservatori di essere ‘il numero uno’. Probabilmente è così, ma sicuramente non vale per i giovani con cui vengo a contatto. Sono sicuro che alcuni continueranno a vivere nel mondo di oggi; molti, però, andranno ad abitare questo mondo nuovo di domani.
Di dove verranno? ‘E mia opinione che esse esistono già. Dove li ho trovati? Li trovo tra i dirigenti di grandi società che hanno abbandonato la razza dei topi in flanella grigia, l’esca dei ricchi stipendi e delle opzioni di mercato, allo scopo di vivere una vita nuova e più semplice. Li trovo tra i ragazzi e le ragazze in blue jeans che diffidano della maggior parte dei valori della nostra cultura e vivono in modo nuovo. Li trovo tra preti, suore e pastori che si sono lasciati alle spalle i dogmi delle loro istituzioni per vivere secondo modalità che hanno più significato. Li trovo tra le donne che stanno vigorosamente sollevandosi contro le limitazioni che la società ha posto alla loro personalità. Li trovo tra i neri e i meticci, e altri membri di minoranze, che si scrollano di dosso generazioni di passività e premono verso una vita assertiva e positiva. Li trovo tra coloro che hanno sperimentato i gruppi d’incontro, che nelle loro esistenze stanno trovando un posto ai sentimenti come ai pensieri. Li trovo tra le persone creative che hanno abbandonato la scuola, che si affidano a obiettivi più alti che non gli sterili diplomi scolastici. Mi rendo anche conto che ho intravisto questa persona negli anni spesi come psicoterapista, allorché i clienti sceglievano un tipo di vita più libero, più ricco e più autodiretto…
(C. Rogers, “Un modo di essere”, cap. 15)

In modo non dissimile, anche se con meno entusiasmo forse, si era espresso decenni prima (in un contesto sociale e politico molto più cupo) il grande terapeuta esistenziale Rollo May. Ecco la chiusa del suo libro del 1953 sulla ricerca di sé nell’uomo moderno:


Il compito e la facoltà dell’essere umano sono di progredire dalla originaria condizione in cui esso è solo una parte, priva di libertà e pensiero, della massa, sia questa massa la sua antica esistenza di feto o una società conformista di automi, progredire dal grembo, cioè, attraverso il circolo incestuoso, che è poco al di là del grembo, tramite l’esperienza della nascita dell’autocoscienza, la crisi della crescita, le lotte, le scelte e il cammino dal noto verso l’ignoto, fino a giungere a una consapevolezza di sé e quindi a una libertà e una responsabilità sempre crescenti, a livelli di differenziazione sempre più alti, in cui egli si integri progressivamente con gli altri nell’amore e nel lavoro creativo liberamente scelti. Ogni passo di questo viaggio significa che egli vive meno come schiavo del tempo automatico e più come individuo che trascende il tempo, cioè un individuo che sa quello che sceglie. Per cui, la persona che sa morire coraggiosamente a trent’anni, che ha conseguito un tale grado di libertà e differenziazione da poter affrontare con coraggio la necessità di rinunciare alla vita, è più matura di un ottantenne che sul letto di morte si umilia implorando di essere ancora protetto dalla realtà.
La vera implicazione è che la nostra meta è di vivere ogni istante con libertà, onestà e responsabilità. Allora, in ogni momento, ciascun uomo realizza, entro i propri limiti, la sua natura e il suo compito evolutivo. In tal modo egli proverà la gioia e la soddisfazione che accompagnano questa realizzazione. Che il giovane lettore universitario riesca a finire il suo libro oppure no, è una questione secondaria: quella fondamentale è se egli, o chiunque altro, penserà o scriverà in una data frase o paragrafo quel che secondo lui gli “procurerà la lode di un altro”, oppure ciò ch’egli stesso ritiene vero e onesto secondo le sue possibilità del momento. Indubbiamente, il giovane marito non può sapere con certezza quel che sarà del rapporto con la moglie da qui a cinque anni: ma nel migliore dei periodi storici forse che si sarebbe mai potuto esser certi di vivere ancora per una settimana o un mese? L’incertezza del nostro tempo non ci insegna forse la lezione più importante di tutte, che i criteri fondamentali sono l’onestà, l’integrità, il coraggio e l’amore insiti in un dato momento del rapporto con la realtà? Se non comprenderemo ciò, non costruiremo mai nulla per il futuro; se lo comprenderemo, possiamo lasciare che il futuro pensi a sé stesso.
Libertà, responsabilità, coraggio, amore e integrità sono qualità ideali, mai perfettamente realizzate da alcuno, ma sono le mete psicologiche che danno significato al nostro progresso verso l’integrazione. Allorché Socrate descrisse il modo di vivere e la società ideali, Glauco controbattè: “Socrate, non credo che questa città di Dio esista sulla terra”. Allora Socrate rispose: “Che questa città esista in cielo o esisterà mai sulla terra, il saggio si uniformerà ai principi di essa, non avendo nulla da spartire con qualsiasi altra; e così, guardando ad essa, metterà ordine nella propria casa”.


BIBLIOGRAFIA

-Agostino d’Ippona: “Le confessioni”, Rizzoli, 1992-Jean Baudrillard: “La società dei consumi”, Il Mulino, 1976 (1970)-Silvia Bonino, Alida Lo Coco, Franca Tani: “Empatia. I processi di condivisione delle emozioni”, Giunti, 1998-E. Borgna: “L’arcipelago delle emozioni”, Feltrinelli, 2001-Fritjof Capra: “Punto di svolta”, Feltrinelli, 1984 (1982)-F.Dostoevskij: “Memorie dal sottosuolo”, Rizzoli, 1995-Valentina D’Urso, Rosanna Trentin:”Introduzione alla psicologia delle emozioni”, Laterza, 1998-M.Foucault: “La volontà di sapere”, Feltrinelli 2005-Sigmund Freud: “L’interpretazione dei sogni”, Rizzoli, 1986 (1899)-Erich Fromm: “Dalla parte dell’uomo”, Astrolabio, 1971 (1943)-P.F.Galli, a c. di: “Vuoto e disillusione”, “Entusiasmo fiducia perfezione”, “Solitudine e nostalgia”, “L’invidia”, “La vergogna”, “Il sentimento assente”, Bollati Boringhieri, 1992-1996-Daniel Goleman: “Intelligenza emotiva”, Rizzoli, 1996 (1995)-Agnes Heller: “Sociologia della vita quotidiana”, Editori Riuniti, 1975 (1970)-Agnes Heller: Teoria dei sentimenti“, Editori Riuniti, 1980-James Hillman: “Re-visione della psicologia”, Adelphi, 1983 (1978)-C.G. Jung: “Psicologia e alchimia”, Bollati Boringhieri, 1995 (1944)-Lautréamont: “Opere complete”, tr. N.M.Buonarroti, Feltrinelli, 1968-Rollo May: “L’uomo alla ricerca di sé”, Astrolabio, 1988 (1953)-L.F. Mueller: “Storia della psicologia”, Mondadori, 1978 (1976)-S.Paolo: “Lettera ai Romani”, Bibbia TOB, ed. ELLE DI CI, 1992-George B. Palermo: “Aggressività e violenza, oggi: teorie e manifestazioni”, Essebiemme, 2001-Carl R. Rogers: “Un modo di essere”, Martinelli, 1993 (1980)-Tommaso d’Aquino: “Il male”, a c. di F.Fiorentino, Rusconi, 1999



1 “17. (sogno) ‘Dopo un lungo vagabondare, il sognatore trova sulla strada un fiore azzurro’. Il vagabondare è un vagare per strade senza meta, e per questa ragione è anche una ricerca e una trasformazione: ed ecco che lungo la strada, involontariamente,il sognatore s’imbatte in un fiore azzurro, accidentale figlio della natura, ricordo amabile di un’epoca lirica e romantica, nato in una stagione in cui la visione scientifica del mondo non si era ancora dolorosamente scissa dal mondo dell’esperienza reale, o meglio quando questa scissione era appena agli inizi e lo sguardo era rivolto all’indietro, a quello che già si presentava come passato. Il fiore è di fatto come un accenno amichevole, un numen dell’inconscio , che mostra a chi è stato privato della via sicura e dell’appartenenza a ciò che per gli uomini significa salvezza il luogo e il momento in cui egli può incontrare fratelli e amici in spirito, , trovare quel germe che vorrebbe veder sviluppato anche in sè stesso. Ma per il momento il sognatore non ha nemmeno la più lontana intuizione dell’oro solare che connette il fiore innocente ai riprovevoli misteri dell’alchimia e alla blasfema idea pagana della solificatio. Il ‘fiore d’oro dell’alchimia’ è infatti a volte anche un fiore ‘azzurro’, il ‘fiore di zaffiro dell’ermafrodito’.” “Psicologia e Alchimia”, pag. 83






giovedì 28 novembre 2013

DOMANDE A MAGDA GUIA CERVESATO SULLA SCRITTURA DI TSO da Mariella G.– Venezia – 24 novembre 2013 [pubblicato su fb]




1) In TSO, p. 50, il ritrovamento di fogli bianchi e di una penna ti consentono di annotare “un nome per ogni anima che mi scorre davanti”. E’ da apprezzare l’efficacia del soprannome di fantasia al posto del nome reale, a significare la peculiare risonanza interiore di ogni persona, l’accoglierle in te per compassione o per rabbia impotente, siano esse degenti od operatori.
A p. 51 aggiungi: “Non voglio dimenticare nulla di nessuno. Non voglio dimenticare nulla di me”.
Nel gruppo di lettura su Etty Hillesum abbiamo riflettuto sulla funzione di “resistenza esistenziale” (l’espressione è di Frediano Sessi) svolta anche dalla scrittura, non solo dalla presa di posizione etica della giovane ebrea di fronte alla persecuzione nazista. D’altra parte Roberto Saviano afferma che “scrivere è fare resistenza”.

Domanda:
Assodato che il ricorso alla scrittura è stato “istintivo” perché c’era già una dimestichezza con questo mezzo, quale sollievo pensi ti abbia dato il poter buttare giù delle note in quella situazione? Era semplicemente una funzione mnestica per non dimenticare dettagli, visi, episodi, pensando già ad un uso futuro degli appunti? O il poter annotare consentiva un sollievo d’altro genere, ad esempio una forma di trasgressione per “resistere”, una possibilità di riattivare un contatto con te stessa, un’isola di riappartenenza là dove subivi una radicale disappartenenza?

Risposta:
I nomignoli di fantasia sono utilizzati per universalizzare la condizione di sofferenza (mentale nello specifico), causa del mio ricovero.
L'espressione 'resistenza esistenziale' la trovo appropriata, ma non in relazione alla scrittura come strumento di sopravvivenza. O meglio all'inizio, sul momento 'vivo' mi ha letteralmente salvato dalla noia in modo diverso da altri tipi di distrazioni (quale il fumo, la tv, le chiacchiere, il trucco, il sole in giardino etc...; tutte cose che ho pure fatto): un modo che a livello intuitivo combinava la prospettiva di superare la noia e quella di ricordare ciò che sapevo avrei nei dettagli dimenticato. Quindi un'unione di mezzo e fine, che a mio giudizio è la via naturale del conseguimento e realizzazione degli intenti. Non mi sentirei però di affermare che il prendere appunti abbia rappresentato un 'resistere' dal punto di vista 'clinico-esistenziale'. La pura trascrizione emozionale di ciò che vivevo e osservavo in me e negli altri non mi ha aiutata a 'sentirmi meglio', a superare l'emergenza, o, dopo le dimissioni, a comprendere i problemi che mi avevano condotto in quel luogo. Tutto questo, il 'curarmi', se c'è stato e continuerà ad esserci, è scaturito per gradi, in parallelo con le varie stesure del diario (che hanno abbracciato un'epoca temporale di tre anni successivi ai fatti): mi sento pertanto di poter affermare che un percorso di cura, e di scarto rispetto all'episodio critico ma anche rispetto alla mia struttura 'nevrotica' dalle più lontane radici, si è avviato con il ragionamento (fatto di ricerca, spiegazioni alternative, conoscenza della materia etc.) costruito sopra, o accanto, alla memoria emotiva. Non credo che 'scrivere è far resistenza', detta à la Saviano. Scrivere un diario può rappresentare una 'momentanea sopravvivenza', al limite; nulla dagli effetti a lunga durata necessari in un caso come il mio, 'un caso psichiatrico'. Diverso (certo con alcune similitudini) è il caso di un internamento coatto da cui non sia abbia possibilità di uscita, come il caso del campo di concentramento, per cui la sopravvivenza nell'immediato è tutto ciò cui si possa contribuire. Ma, laddove un percorso di liberazione, emancipazione, evoluzione, sia 'praticamnete' possibile, la pura gittata emotiva non credo aiuti oltre l'attimo della scrittura intesa come atto fisico. Per quell''oltre' ritengo sia necessario un lavoro cognitivo distaccato quale, rimanendo nel settore, quello necessario alla scrittura romanzesca, in cui l'esperienza personale è filtrata dalla voce narrante e mediata dall'esigenza di struttura in atti, capitoli, trama, personaggi, etc. Insomma bisogna staccarsi dall'io prima o poi, per raccontarsi e raccontare. E' solo quando quel racconto diventa possibile, che è secondo me possibile parlare di scrittura come strumento terapeutico, o meglio: come incipit di una storia 'conclusa' cui si è apposto il finale (quella personale) e che come tale può lasciare spazio alla nuova che si apre (quella letteraria).
Trovo necessario precisare che il mezzo 'scrittura', in me, era tutt'altro che ampiamente assodato: avevo sì scritto qualcosa in un passato più recente del Liceo, prosa e versi, ma nulla più di quello che io chiamo 'scrittura da cameretta'. Il ricorso agli appunti su quei fogli bianchi è stato quindi atto certamente spontaneo ma incosciente di tecniche e potenzialità.


2) Pier Vincenzo Mengaldo ha intitolato un libro sulle testimonianze della Shoah La vendetta è il racconto: si scrivono testimonianze perché l’esperienza vissuta non sia cancellata, perché non possa essere negata o smentita da chi avrebbe interesse a negarla o smentirla.
In TSO, p. 51, scrivi: “Non sono una testimone esterna con un Moleskine in mano. Io sono loro”. Legittimazione forte a dire, perché il vissuto comporta un prezzo pagato in proprio. Infatti il tono è a misura: rimanda determinazione, coraggio, fierezza, che traspare oltre il contenuto di sofferenza il cui racconto non scade mai nel vittimismo, ma esige da chi legge una presa di coscienza.
Etty Hillesum scrive anche perché vuole essere testimone del proprio tempo. E afferma che soltanto un poeta sarebbe in grado di raccontare ciò che accade nel campo di concentramento di Westerbork. Scriverà due lettere efficacissime dal campo, che la resistenza olandese pubblicherà clandestinamente.

Domanda:
Quanto e come ha contato l’esigenza della testimonianza, la “vendetta” di far sapere, tra le motivazioni che ti hanno indotta all’impresa di scrivere un libro su un’esperienza tanto intima e drammatica? In che modo, per quali vie, hai scelto di dirlo in forma autobiografica e testimoniale e non in altre forme narrative e finzionali?

Risposta:
Mi fa piacere che si trovi il mio racconto confessionale per lo più privo di quello statuto vittimario caratterizzante molta diaristica. Questo lo devo certo al fatto che in quella situazione non mi sentissi diversa; che sapessi cioè di non essere (giacché realmente non lo ero) in una posizione differente rispetto ai miei compagni di manicomio: 'le mie paure sono le loro; io sono loro', scrivo a un certo punto. Ma questo riconoscimento di un comune dolore, e del timore di una possibile comune tristissima sorte, non sarebbe bastata a gettare le basi per una memoria attiva; una memoria che non si fermi sulla soglia del destino crudele, o del caso umano, ma la oltrepassi con diverso spirito: lo spirito raziocinante della scoperta del mio potere di unire riflessione al ricordo . Una riflessione che andasse ben oltre le storture della mentalità e pratica concentrazionaria del luogo che mi ha tecnicamente rinchiuso, e che era da vedersi come luogo non più solo esterno a me. Un luogo brutto che non si augurerebbe a nessuno visitare, certo, ma che rispecchiava la mia bruttezza. Un luogo non solo internante, ma interno. Per superare il mio sdegno per quell'ingiustizia ho insomma dovuto prima ammettere che parte di quella ingiustizia non era affatto ingiusta. E' stato, questo, un processo iniziato con la stesura del libro e che prosegue tutt'oggi, a un anno e mezzo dalla sua pubblicazione. Per questo in 'TSO', pur essendoci presa di coscienza, come scrivi tu, ci sono passaggi, atmosfere, umori che riletti oggi mi appaiono sin troppo ingenui. E in cui non mi ci ritrovo più perfettamente. Ben sapendo che, all'epoca, quello era il massimo livello di coscienza che mi era possibile esprimere: ciò non toglie che oggi non mi senta in grazioso dovere di raddrizzare ciò che ora vi vedo di storto.
Per rispondere direttamente alla tua domanda: non credo di essere mai stata mossa da desiderio di vendetta (beh, a parte i primissimi giorni); e forse neppure dal desiderio di far sapere all'esterno qualcosa che mi era accaduto, o qualcosa che può accadere all'interno di un repartino. C'è stata, inizialmente, una potente esigenza di scomporre per comprendere quello che avevo vissuto; per tentare di comprendere la causa di quell'esperienza. Per salvarmi, prima che per curiosità intellettuale. Cosa che per iscritto mi è parsa venire meglio che in altre forme. In seguito il desiderio di pubblicare il risultato del mio cercare, credo sia stato lo stesso di tutti gli 'esseri scriventi': venire letti perché si crede di aver detto qualcosa. Poi ovviamente solo il tempo e i riscontri diranno se quel qualcosa ha davvero carattere di bellezza formale e contenutistica; se meritasse o meno lo sforzo, in soldoni. Io credo sia un po' come per i figli: capita di accoglierli nel mondo per incoscienza, circostanze o bisogno tanto quanto per certezza d' amore. In entrambi i casi solo i modi e i tempi che verranno testimonieranno come e se quell'incoscienza originaria sia stata trasformata in 'opera d'arte', bene umano e universale, o meno.
Per quanto concerne la forma testimoniale scelta, la risposta è molto semplice: non avevo idea di come scrivere in altra forma; non avevo nessuna competenza formale narrativa, e quindi è stata una non-scelta. Volendo andare più a fondo nella questione oggi, dopo averla un pò studiata, mi rendo conto che la 'confessione autobiografica' è quella più facile, e non solo tecnicamente: non ha come presupposto quel distacco dalla propria esperienza necessaria alla forma romanzo. Rappresenta forse un primo passo sulla strada della scrittura, un passo ancora incerto perchè intriso di sé, in qualche modo assimilabile a un percorso terapeutico di psicoanalisi, e con analoghe prospettive d'esito. Le forme finzionali, credo, possono venire alla luce solo quando la fase di analisi sia giunta a, sempre relativa e parziale, conclusione.


3) La narrazione in prima persona unita all’uso del tempo presente producono un forte coinvolgimento da parte di chi legge: come se gli avvenimenti, le esperienze, le riflessioni fossero “in presa diretta”; come se quel passato non potesse passare mai, e ad ogni rilettura ridiventa attuale, impone interrogativi di nuovo attivi che non possono essere chiusi con risposte di comodo.
Vita Cosentino in Tam tam sceglie il tempo presente, ma decide di usare la terza persona “lei” per raccontare la malattia invalidante che l’ha colpita. Lo spiega dicendo che la prima persona l’avrebbe coinvolta troppo, le avrebbe impedito la distanza per ottenere il tono più consono.

Domanda:
Avendo scelto di raccontare dicendo “io” e al presente, che cosa ti ha “protetta” durante le varie fasi della scrittura dal rivivere emotivamente gli eventi narrati? C’è stato un costo da pagare? O al contrario questo ti ha aiutato a rielaborare il vissuto? Se c’è stato “distacco” emotivo tra l’autrice e la narratrice, è possibile dire come ha funzionato per te questo gioco nella composizione del testo?

Risposta:
In parte ho già risposto a questo interrogativo. La prima persona certamente produce un forte coinvolgimento in chi scrive e chi legge, è un passo intermedio rilevante ai fini terapeutici proprio in virtù del fatto che costringe a rivivere emotivamente. Come dici, non 'protegge' l'io ferito: ma  questo non lo considero 'prezzo da pagare'. Al contrario, è forse l'unico modo utile non tanto a rielaborare il vissuto (cosa c'è da elaborare, se non si è prima sofferto per la colpa di ciò che si è visto e riconosciuto come tale?), ma per non vederlo più attraverso schermi zigrinati e scudi di protezione intergalattici. Il distacco emotivo, quello che c'è stato, si è innescato durante il lavoro cognitivo necessario a dare una forma il più possibile compiuta al testo. Il distacco dagli alibi della totale casualità dell'accidente occorsomi è avvenuto invece molto più lentamente, e prosegue tutt'oggi.
Oggi posso tranquillamente dire che il determinismo in cui ero portata a credere, la mera successione di casi, e dei mille fattori che lo reggono (biologici, ambientali, sociali, imprevisti etc. etc.) non mi rendeva un grande favore: anzi mi toglieva ogni possibilità di 'manutenzionare' me stessa. Mi toglieva anche quella parte di libertà cui ho sempre avuto accesso, ma che tendevo a escludere a priori.
Oggi mi chiedo seriamente dove si voglia arrivare continuando su questa strada di indifferenziazione del tutto. Se tutto è caso e caos predeterminato, se guardiamo sempre solo ai diritti nostri, perchè mai dovremmo lamentarci del carattere inumano dei luoghi della salute mentale, degli ospizi, o persino dei campi di concentramento? Se abbiamo deciso che il nostro spazio di manovra nel parcheggio dell'arbitrio è nullo, perché mai dovremmo sorprenderci che anche quello altrui lo è? Come conseguenza logica direi che è impossibile non finire tutti quanti affastellati su di un unico posto macchina.


4) A p. 55 di TSO scrivi: “Solo grazie all’impulso della mia mano di annotare ciò che sta accadendo mi disipnotizzo da quel tragico torpore”. Poco dopo: “Scrivere è rivivere, si dice. Banalità per un verso, vero per altri: solo dopo aver fissato una cosa su un foglio a volte ne divengo consapevole. Mentre la abito, ne sono tanto distratta che ne perdo il significato”. Nella pagina seguente concludi: “Oppure questa è una semplice scusa per la mia impotenza. Perdona anche me, Cantante Frank”.
Etty Hillesum dice: “Una cosa è certa: non potrò mai scrivere le cose come la vita le ha scritte per me, in caratteri viventi”. Altrove invece constata: “’Vivere’ tutto quanto non è più sufficiente, ci vuole qualcosa di più”.
Imre Kertész, Nobel per la letteratura nel 2002, deportato ad Auschwitz all’età di quattordici anni, in Kaddish per il bambino non nato scrive: “la vita è piuttosto cieca, la scrittura è piuttosto vedente, e così è un’aspirazione diversa, certo, dalla vita, forse aspira a vedere quello cui aspira la vita, e per questo, visto che non può fare altro, ripete la vita alla vita, ripassa la vita, come se anch’essa, la scrittura, fosse vita, laddove non lo è”.
Entrambi descrivono una frattura tra scrittura e vita, e insieme un di più che la scrittura può dare alla vita. Ma forse è nella frattura che si possono insinuare equivoci, mascheramenti, o la vacuità, come un certo iper-narrativismo contemporaneo che non sempre riesce a provocarci con dilemmi pertinenti al nostro tempo: pur mettendo in scena l’attualità, la finzione romanzesca si limita spesso a una cronaca senza spessore, che non lascia tracce. In certi laboratori “creativi” si incoraggia l’egocentrismo in assenza di una necessità a dire, confermando un vuoto di “aspirazioni”.
Per scrivere, anche quando è “cura di sé”, ci vogliono specifiche consapevolezze, non basta la spontaneità. Scrivere è riscrivere, un lavoro incessante di riscrittura sempre abitato da incertezze, rifacimenti, esitazioni, perdite. Qualcuno dice che va deciso quando porvi termine, non viene da sé.

Domanda:
Il “perdono” che chiedi è indizio della frattura vivere-scrivere che sembri avvertire anche tu? Quali rischi di confusione tra vita e scrittura pensi di essere riuscita a evitare? Avevi presenti pericoli su cui vegliarti o una misura cui attenerti per ottenere l’intensità del testo la cui tensione non cade mai? Quando hai capito che il testo era davvero concluso, autosufficiente?

Risposta:
Sì, qualcuno disse anche che ci si mette a scrivere quando la vita non basta. Le citazioni che nomini avvallano certamente l'ipotesi di questa frattura dal duplice volto: arricchente da un lato e 'mascherante' dall'altro. Sono d'accordo: come potrei non esserlo quando non so pensare a una sola cosa che non abbia in sé questa polarità? L'iper-narrativismo contemporaneo di cui parli esiste, come problema; come esiste il mito della funzione catartica dell'arte a prescindere, pensiero magico/infantile che, come tutti i pensieri magici, prende piede quando non si sa più che pesci pigliare. Vale per quello che ho osservato nell'ambito della salute mentale, e, più in piccolo, in quello editoriale. Certo, tutti sospettiamo che la finzione narrativa sia a volte fine a se stessa, non lasci tracce, alimenti l'egocentrismo, e i laboratori creativi siano futili surrogati narcisistici. Ma credo non sia possibile sapere in partenza che cosa si rivelerà essere fonte di un terreno più fertile del mero vuoto d'aspirazione e ispirazione, ed è quindi inevitabile che in mancanza di risposte certe sui misteri di vita e quotidiano si tenti anche questa strada. Sarebbe inevitabile anche in presenza di 'certezze', se mai si potesse dire qualcosa di simile in ambito umano. Inoltre trovo giusto ciò che dici: sono necessarie competenze, riscrittura, non basta la spontaneità. E ognuno, credo, le sceglie in modi diversi, le cerca in luoghi diversi e non esclusivi (tentativi d'apprendimento autonomi o supportati da scuola o amico in gamba che siano). Il problema secondo me risiede più nel fatto che in totale assenza di una cornice di riferimento (quale poteva essere il credo religioso), di una cosmologia ferma dentro e attorno la narrazione mobile, quei canoni di 'serietà' con cui si approcciava l'arte tendono sempre più a decadere in una indistinzione di valore. Se tutto è lecito, tutto è spiegabile, tutto in qualche modo giustificabile, il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto non hanno più ragione d'essere. E allora si potrà dire, come si dice, che non esiste un libro scritto male e uno scritto bene; cosa con cui potrei anche essere d'accordo in un tempo declinato al presente (ognuno si sintonizza su un livello pari al suo, come naturale). Ma in un tempo declinato al passato e al futuro no: in quello spazio infinito deve essere possibile seguire un criterio di buono e cattivo. E infatti lo si segue, se è vero che tutti più o meno siamo in grado di percepire che l'opera A può parlare a tanti mentre l'opera B no; tutti possiamo arrivare a comprendere, a un qualche livello, perchè un classico contenga qualcosa di universale dopo secoli, seppure magari non aderente al nostro pensiero. Per semplificare quel criterio: l'opera d'arte si riconosce perchè malgrado non ci piaccia, tuttavia ci parla. Potrebbe essere una definizione di 'classico', ma davvero solo il tempo può dire cosa lo sia.
Riguardo al rischio di confusione tra vita e scrittura che ho percepito scrivendo: se l'intento è quello diaristico, quella confusione è certo un rischio. Ma non mi sono fasciata oltre misura la testa su questo; la memoria è sempre soggettiva, anche se la si vorrebbe infallibile. Quindi ho dato per scontato che, pur volendo descrivere la realtà dei fatti, sarebbe comunque stata la realtà dei fatti visti dai miei due occhi, e non da un occhio esterno col grandangolo. Comunque un certo grado di 'romanzato' è stato da me volutamente non evitato (scusa la rima): in un diario che voglia essere letto da altri ci sono minime esigenze di struttura e compiutezza da onorare; possibili da raggiungere solo affidandosi a manipolazioni del mero ricordo (per fare un esempio: l'opportunità di arricchire un dialogo che è sì avvenuto, ma che se trascritto esattamente come ricordato potrebbe non essere comprensibile al lettore).
In ultimo: quando ho capito che il testo era davvero concluso e auto-sufficiente? Quando mi è parso (a me, all'editore, a ll'editor) sufficientemente pensabile in tutte le sue parti e contenuti che ci premeva veicolare; nonché, in quel momento e nella migliore delle mie capacità e tempi, non più stilisticamente migliorabile. Oggi, va da sé, credo che alcune cose potessero essere migliori.

martedì 26 novembre 2013

Visualization problems in some posts/ Problemi di visualizzazione in alcuni post

In some old posts I have unwittingly removed the corrisponding jpgs. I am trying to repair the damage done. It takes anyway time. Sorry!!!


In alcuni vecchi post ho involontariamente eliminato le jpg corrispondenti. Sto cercando di riparare il danno, ma la cosa richiede in ogni caso tempo. Mi dispiace!

GIACOMO CONSERVA

lunedì 25 novembre 2013

link: BEPPE SEBASTE/ Adelphi, cinquant’anni di libri “pastello” [ l'Unità, Acchiappafantasmi 24-11-2013]







     In un suo “pensiero” Giacomo Leopardi ironizza, molto cortesemente, sulla “bella e amabile illusione” delle ricorrenze, secondo cui “i dì anniversari di un avvenimento, che per verità non ha a fare con essi più che con qualunque altro dì dell’anno, paiono avere con quello un’attinenza particolare, e che quasi un’ombra del passato risorga e ritorni sempre in quei giorni, e ci sia davanti”. Non ci imbarazza quindi celebrare forse per ultimi il cinquantesimo anniversario della casa editrice Adelphi, dedicandole un ammirata testimonianza di lettori e i nostri auguri. D’altronde, le parole leopardiane citate sopra a memoria le ritrovo al paragrafo XIII deiPensieri di Leopardi editi nella Piccola Biblioteca Adelphi, con una tipica copertina rosa corallo o rosa pesca, non saprei decidere.
  Ecco, già nei colori delle iconoclaste copertine Adelphi riconosciamo una nota inconfondibile dei nostri scaffali, libri che perfino i più esigenti e problematici ordinatori di biblioteche, di solito più competenti e saggi dei critici di prpfessione (l’arte di disporre i libri non ha soluzioni definitive, solo la pazienza di sistemazioni provvisorie e approssimative) cedono a volte alla tentazione di sistemare i libri Adelphi senz’altro metodo che la comune appartenenza, come i venditori di mobili e i non lettori che sistemano i libri secondo il colore delle copertine. Ma anche questa soluzione, un tempo irrisa dai colti, viene dialetticamente redenta nell’idea adelphiana del catalogo editoriale come forma, libro dei libri, di libri che stiano bene insieme tra loro anche nelle diversità, secondo la teoria del buon vicino evocata spesso da Roberto Calasso.
   Tornando ai colori delle copertine Adelphi, è importante notare che non si tratta mai di colori assoluti, o saturi, e che siano invece tutti interpretabili, “pastello”, colori al limite marginali, minoritari, identità non rigide ma flessibili –  ceruleo, lilla, violaceo, lavanda, sabbia, malva, verde pastello, salmone chiaro, etc. Non sono un esperto, ma nella gamma dei colori adelphiani trovo la promessa mantenuta di quella libertà e rottura degli steccati ideologici che ispirò il fondatore Luciano Foà (consigliato da Roberto Bazlen), in polemica con una certa “monotonia editoriale di sinistra”. Quando, per capirci, il non fare esternazioni manifestamente di sinistra e il pensare pensieri inattuali equivaleva a essere considerati di destra. Il colore, si sa, connette con tutti gli altri sensi, connette sfera cognitiva e sfera emotiva, promuovendo quella generale interconnessione di tutto con tutto che è la letteratura, oltre che il metodo di Gregory Bateson, una delle grandi menti del XX secolo a cui tutti dovrebbero guardare (soprattutto i politici), il cui Verso un’ecologia della menteAdelphi pubblicò già nel 1977.
   Di questa connessione universale che coincide con la letteratura la rete, nel senso del web, è invece spesso un’ambigua e ostile parodia. Roberto Calasso ha scritto un articolo appassionato sul New York Times in polemica risposta a Kevin Kelly di Wired, che preconizzava con malcelata soddisfazione la sparizione del libro di carta a favore dell’e-book, e proprio a partire dalla sparizione delle copertine. Le copertine sono la pelle del libro, ha detto Calasso, e quindi la prima cosa ad essere scorticata da nemici e detrattori. Il testo è raccolto nel bel libro recente di Calasso, L’impronta dell’editore (Adelphi). L’odio verso l’oggetto libro che viene da un certo mondo del web è in fondo “una profonda e giustificata avversione, perché il libro corrisponde a una modalità della conoscenza incompatibile con quello propugnato dalla rete, che è la conoscenza come protesi, l’occupazione della mente con uno sciame di bit digitali, esattamente l’opposto di ciò che è la conoscenza in senso metamorfico, che trasforma cioè il soggetto che conosce”.
  E’ buffo, finora abbiamo parlato solo o quasi di copertine. La casa editrice Adelphi nacque nel 1962 per iniziativa, come abbiamo detto, di Luciano Foa (uscito dall’Einaudi col pretesto di un litigio sulla pubblicazione delle opere integrali di Nietzsche a cura di Giorgio Colli) e Bobi Bazlen, ma i primi quattro libri uscirono l’anno dopo, cinquant’anni fa: il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, le opere teatrali di Georg Büchner, il primo volume di tutte le Novelle di Gottfried Keller, Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo: si noti, fin dall’inizio dunque, l’insieme di libertà, imprendibilità e qualità inattuali delle scelte che caratterizzeranno il catalogo editoriale Adelphi. Roberto Calasso vi collaborò dal 1967, per diventarne poi direttore editoriale e autore della casa. Dagli anni ’70 il marchio Adelphi era ormai noto: Hermann Hesse e Joseph Roth (in nessuna stanza di studente mancavano Siddharta e La leggenda del santo bevitore), letteratura mitteleuropea (Il manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki uscì nel 1965) e Indiani d’America (Alce Nero parla di John G. Neihardt, 1968), Robert Walser e Antonin Artaud, Il libro dell’Es di Georg Groddeck (1966) e Lezioni e conversazioni di Ludwig Wittgenstein (1967), i Quaderni di Valery e La sapienza greca di Giorgio Colli, Elias Canetti e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig (1981) e così via, fino alle opere di Nabokov e a quelle di Simenon, i romanzi (postumi) di Guido Morselli e quelli di Giorgio Manganelli, e dal 1981, con Perturbamento, le opere del grande Thomas Bernhard, che ai miei occhi, o meglio alle mie orecchie, incarna al meglio lo spirito Adelphi: una scrittura complessa e irriducibile, irriverente e a suo modo consacrata, capace di rifondare in modo assolutamente non-ideologico il concetto stesso di avanguardia, con una totale dedizione alla sintassi e alla verità – scomodissima, appunto – della letteratura. Senza trascurare la mitologia classica e la spiritualità orientale, soprattutto quella indiana (in coincidenza con l’interesse personale dello scrittore Calasso). Ognuno può sfogliare la propria memoria del tempo scorrendo le pagine di Adelphiana, un volume-catalogo pubblicato in occasione del cinquantenario.
   Se i libri Einaudi li riconoscevi dall’odore, ed era un’aroma eccitante di impegno e di costruzione di sé, attualizzata dalla politica, tutt’uno col sentimento di appartenenza al fronte frastagliato dei ribelli, i libri Adelphi erano un’esperienza diversa e complementare, innanzitutto tattile e visiva (la pelle delle copertine, ancora una volta), poi un invito destrutturante al sogno e all’immaginazione, come la siepe dell’Infinito; un altro indirizzo dell’intelligenza, non superiore ma più esoterico. Ma non sentivamo all’epoca nessun conflitto (parlo degli anni Settanta e Ottanta).
   Un ricordo intimo: ore trascorse in luoghi diversi, col mio amico Giorgio Messori, a leggerci e rileggerci a voce alta i nostri adelphini preferiti, che tenevamo sempre nella tasca del giaccone, I temi di Fritz Kocher di Walser e soprattutto L’imitatore di voci di Bernhard, ,e non riuscire a smettere di ridere. Il libro più commovente della collana? Uomini tedeschi di Walter Benjamin, monumento stoico all’antiretorica, all’inerme luminosa verità, ancora una volta, della letteratura.



lunedì 18 novembre 2013

SULLA LEGGE 181: UN COMMENTO





[il testo della proposta di 'legge 181': https://www.facebook.com/groups/192739887518736/409215705871152/ ]
L'ho infine letta tutta e la trovo angosciante. Populismo piu' burocratismo, respiro culturale e umano zero, nessuna messa in discussione del concetto di normalita', malattia, guarigione (parole che tutte vanno intese fra virgolette), cancellazione di qualunque discorso sul ruolo spesso assolutamente distruttivo delle dinamiche familiari, una invenzione che trovo mostruosa (gli UFE, "utenti e famigliari esperti", con tanto di patentino e di paga- mi fanno irresistibilmente venire in mente gli "indigeni assimilati" di coloniale memoria). Notevole infine la mancanza di anche puri accenni alla situazione economico-sociale attuale, ai nuovi lager (i centri per immigrati), e cosi' via...
Ok, queste dunque sono le mie idee sull'argomento. Un po' di sana ideologia libertarian alla Szasz mi pare molto molto necessaria.