BEYOND THE ADVANCED PSYCHIATRIC SOCIETY- A COLLECTIVE RESEARCH/ OLTRE LA SOCIETA' PSICHIATRICA AVANZATA- UNA RICERCA COLLETTIVA


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lunedì 18 luglio 2011

La farsa dell'emergenza economica di Andrea Fumagalli

L’emergenza ha sempre caratterizzato le decisioni salienti della politica italiana, soprattutto quando si tratta di tematiche socio-economiche. La politica dell’emergenza – si sa – è diventata lo strumento principale dell’arte del comando. Certo, da sola, rischia di non essere sufficiente, se non è accompagnata anche da una “predisposizione istituzionale” che accomuna maggioranza e opposizione, sotto l’egida del presidente della repubblica.

Nell’estate del 1992, la necessità di operare in fretta e firmare accordi capestro ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici (abolizione della scala mobile) era dettata dall’emergenza di entrare nell’Europa dell’euro.

Nell’estate 2011, la necessità di operare in fretta e promulgare leggi finanziarie draconiane, oltre ad accompagnarsi ad accordi sindacali, di nuovo a danno dei lavoratori e delle lavoratrici (ridimensionamento del contratto collettivo di lavoro) è dettata, invece, dalla necessità di non uscire dall’Europa dell’euro.

Tutti d’accordo, dunque, nel fare presto, “per dare un segnale chiaro e inequivocabile alla speculazione finanziaria”, ma pochi entrano nel merito dei contenuti della manovra correttiva.

In primo luogo, occorre osservare che sono due i provvedimenti che si stanno varando. Il primo è il decreto legge che imposta la finanziaria per il periodo 2011-2014 e intende recuperare 33,3 mld di euro. Il secondo è invece la legge delega fiscale, che richiederà tempi più lunghi e che prevede interventi per 14,7 mld. Tale legge delega è stata modificata nel passaggio dal Senato alla camera. Nel testo presentato a Palazzo Madama, sia nel 2011 che nel 2012, le maggiori entrate producevano un effetto marginale sui saldi, mentre nel biennio successivo la riduzione del deficit operava prevalentemente attraverso il contenimento delle spese: circa il 61% nel 2013 e il 74% nel 2014. Ora dal testo licenziato dalle Camere, nel 2011 all’apporto più significativo delle entrate, cui è affidato circa l’89% della correzione, si unisce una contenuta riduzione della spesa. Nel 2012 l’apporto alla manovra netta è interamente legato alle entrate, a fronte di un aumento delle spesa. Nel biennio successivo, entrambe le componenti contribuiscono al miglioramento dei saldi, anche se resta prevalente l’apporto delle entrate: 54,6% nel 2013 e 60,1% nel 2014.

Complessivamente, la manovra economica ammontava inizialmente a 48 mld. Con le ultime modifiche introdotte alla Camera relative al taglio delle agevolazioni fiscali (del 5% per il 2013 e del 20% a partire dal 2014 che, se non sarà selettivo, finirà per colpire tutti i bonus) l’Erario prevede un recupero di gettito a regime pari a 3,5 mld nel 2013 e a 20 mld nel 2014. L’effetto complessivo della manovra arriva così a quasi 80 miliardi, di cui più della metà concentrati nel solo 2014. L’obiettivo è il quasi-pareggio di bilancio nel 2014 (-0,2%), con un avanzo primario, cioè al netto degli interessi passivi sul debito, del 5,2% del Pil. Tale manovra è distribuita nel tempo in modo asimmetrico e ciò è indicativo delle intenzioni del governo attuale. Infatti, per l’anno in corso, la correzione sarà solo di 2 mld, nel 2012 di 6 mld. Sarà quindi quando l’attuale legislatura sarà terminata che si concentrerà il grosso della manovra: 20 mld nel 2013 e 45 mld nel 2014.

Vediamo ora più in dettaglio i provvedimenti decisi, grazie anche alle elaborazioni di Roberto Romano del servizio studi della Cgil Lombardia. Il decreto legge della Finanziaria impone tagli per 23 mld e dovrebbe consentire maggiori entrate fiscali per 4 mld. Più in particolare, il contenimento della spesa pubblica, senza prendere in considerazione la cd. riduzione dei costi della politica (una sorta di specchietto per le allodole a vantaggio della stampa compiacente e con effetti quantitativi a dir poco risibili), interessa tre capitoli principali di spesa:
minori trasferimenti alla sanità per 5, 45 mld di euro, con l’effetto di intervenire pesantemente sulla qualità del servizio e sulla garanzia dell’universalità dell’accesso. A ciò si aggiunga, l’impossibilità di assunzioni e di far fronte al turn-over e sul lato fiscale all’introduzione di varie forme di ticket sanitari (25 euro per le visite al pronto soccorso con bollino bianco e di 10 euro in su per le visite specialistiche). Complessivamente l’intervento sul fronte della sanità, tra tagli e entrate fiscali, diventa il più corposo di tutta la manovra. Si tratta, di fatto, di favorire uno strisciante processo di privatizzazione della salute a scapito delle fasce di reddito meno abbienti; riduzione dei trasferimenti agli enti locali per 6,4 mld (regioni a statuto ordinario – 1,6 mld, regioni a statuto straordinario – 2 mld, province – 0,8 mld, comuni con più di 5000 abitanti – 2 mld). Tale provvedimento è accompagnato in modo, stavolta non strisciante, dalla raccomandazione di compensare i mancati introiti con la privatizzazione delle imprese municipalizzate adibite alla fornitura dei servizi di pubblica utilità (acqua, energia, trasporti, ecc.), proprio dopo la vittoria del referendum per mantenere pubblica e comune l’erogazione dell’acqua. Gli effetti di tale provvedimento, oramai una costante delle ultime finanziarie (alla faccia del federalismo fiscale), porteranno presumibilmente ad un incremento delle tariffe dei servizi locali, ad una riduzione degli spazi di welfare locale e ad un incremento dell’imposizione locale.

Riduzioni delle spese ministeriali per 5 mld (valore stimato tutto da verificare poi nella concretezza), riduzione delle spese per il pubblico impiego per 740 milioni, in seguito al blocco della contrattazione collettiva e la minor indicizzazione degli assegni previdenziali (per un risparmio pari a 680 milioni), con l’effetto di diminuire il livello delle pensioni, pur se concentrato per i livelli superiore ai 1.400 euro al mese (è il contentino per i sindacati compiacenti).

Relativamente alla legge delega fiscale, che entrerà in vigore solo a partire dal biennio 2013-14, le maggiori entrate fiscali complessivamente ammonteranno a 36,5 mld, con un incremento della pressione fiscale di 2,7 punti (alla faccia della riduzione delle tasse). Esse interessano 3 voci principali:

taglio delle agevolazioni fiscali per 23,5 mld. e delle agevolazioni assistenziali per 5 mld. Dietro tali voci si nascondono l’abolizione di vari bonus fiscali e soprattutto la riduzione degli assegni familiari, ovvero un provvedimento che colpisce il welfare familiare, che, in assenza di un sistema universalistico di reddito minimo, rappresenta in Italia, come è noto, il vero ammortizzatore sociale contro il rischio di povertà. In particolare, viene colpito il lavoro di cura eminentemente femminile con il rischio di accentuare una divisione sessuale del lavoro di novecentesca memoria.
Aumento dell’imposta indiretta (IVA del 10% e del 20%) di un punto percentuale, con una stima di incremento delle entrate di 6 mld. E’ uno dei provvedimenti più iniqui in quanto regressivo sulla distribuzione dei redditi e con l’effetto di un aumento dei prezzi che andrà a penalizzare ulteriormente la dinamica salariale e il mantenimento del potere d’acquisto dei salari, dal momento che con molta probabilità la forbice tra inflazione effettiva e inflazione programmata (che segna il limite massimo di adeguamento dei salari) tenderà ad ampliarsi.
Futura armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie al 20% per introiti dell’ordine dei 2 mld. Al momento è previsto un incremento del bollo sul deposito titoli e l’aumento dell’Irap per banche, in attesa che la legge delega venga apporovata. Si tratta degli unici provvedimenti che si possono sottoscrivere, anche se l’armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie non è detto che riesca a passare per le ovvie opposizioni dei poteri forti interessati. In realtà, si tratterebbe dell’unico intervento strutturale e duraturo, e per di più introduce un elemento di equità di trattamento fiscale in un contesto che vede la tassa sui depositi bancari (la forma di risparmio più comune per chi non possiede grandi redditi) più che doppia rispetto alle tasse sulle rendite finanziarie (interessi sui titoli e plusvalenze). Occorre però ricordare che si tratterà di un provvedimento dovuto, richiesto a livello europeo, per armonizzare l’imposizione fiscale europea e non l’esito di una precisa scelta politica.

1. A leggere i commenti sui giornali, a partire da quello di Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera del 16 luglio, il dibattito politico ed economico verte esclusivamente sul fatto se la manovra finanziaria varata in questi giorni sia credibile per i mercati e, quindi, sufficiente. Solo in seconda battuta, qualcuno interviene sull’entità e sul merito dei sacrifici richiesti, ma sempre in un’ottica di necessità inevitabile per evitare il peggio. Due sono i protagonisti indiscussi che animano il dibattito: i mercati finanziari e il rischio di default.
I primi vengono considerati come agenti economici neutri, oggettivamente e quasi metafisicamente definiti, giudici crudeli e inflessibili ma imparziali della credibilità, dell’efficienza e della reputazione di uno stato sempre meno sovrano. Le società di rating ne rappresentano le preferenze, anch’esse imparziali e oggettive. I mercati finanziari, in fondo, coincidono con il senso comune, l’opinione pubblica generalizzata, non influenzabile da decisioni individuali.
Il secondo protagonista è il default (fallimento), presentato come il peggiore di tutti i mali, causa di ogni possibile iattura nel futuro. Di converso, la riduzione del deficit pubblico e quindi l’eliminazione del rischio di default viene visto come condizione indispensabile per la crescita economica e della ricchezza, in grado di favorire quelle magnifiche sorti progressive che ci renderanno finalmente felici e contenti.
Tali costruzioni ideologiche sono ben sedimentate a livello sociale e di intellighenzia e costituiscono una delle basi, comune sia a destra che a sinistra, su cui si fonda il meccanismo biopolitico dello sfruttamento contemporaneo della cooperazione sociale. Ciò che distingue la sinistra dalla destra è al limite il metodo per consentire tale sfruttamento, a partire, però, dalla comune negazione della sua esistenza e di qualsiasi conflitto di classe che ne potrebbe derivare.

2. I mercati finanziari sono oggi il cuore stesso del comando capitalistico, rappresentano ciò che nell’epoca fordista era la grande impresa manageriale manifatturiera: sono, in altre parole, la controparte sociale ed economica, che gestisce e indirizza i meccanismi di sfruttamento del lavoro e della vita. Se essi sono rappresentati ideologicamente in termini di pubblica opinione, espressione “democratica” ed “efficiente” delle libere scelte individuali, è evidente che essi diventano automaticamente lo specchio di una realtà sociale coesa, libera e pacificata, al cui interno nessun conflitto e nessuna discriminazione può avere luogo.
In realtà le cose non stanno affatto così. Negli ultimi trent’anni, in concomitanza con il processo di estensione continua dei mercati finanziari (finanziarizzazione), i mercati finanziari sono quelli che più si sono concentrati in poche mani. Per capire questo punto è necessario distinguere tra coloro che operano nei mercati finanziari investendo, volenti o nolenti, quote del proprio reddito da lavoro (qualunque esso sia), spesso senza neanche saperlo (i clienti) e coloro che gestiscono tali investimenti per lucrare plusvalenze e innescare meccanismi di valorizzazione, chiamati, con un termine apparentemente neutro, “investitori istituzionali”. Più il numero dei “clienti” aumenta (così come nel fordismo, aumentava il numero dei compratori di automobili, ad esempio), più gli investitori istituzionali si sono ridotti di numero e fortemente concentrati (così come nel fordismo, si è assistito alla crescita di mercati sempre più oligopolistici, come nel caso dell’automobile).
La grave crisi finanziaria del 2008-09 ha accentuato ulteriormente questo processo. In contemporanea, si è ampliato il portafoglio dei titoli finanziari, grazie all’incremento dei titoli di debito sovrani, esito scontato della crescita dei deficit nazionali stessi – in Europa come in Usa e Giappone -, finalizzata proprio a ripianare i buchi di bilancio del sistema finanziario-creditizio. Oggi, non più di dieci Società d’intermediazione mobiliari (il cui acronimo, comunemente utilizzato – Sim – richiama, in modo ovviamente del tutto accidentale, quello di Stato Imperialista delle Multinazionali, usato dalle Brigate Rosse negli anni ‘70) controllano tra il 60% e il 70% del totale dei flussi finanziari in circolazione e il cui ammontare in valore è pari a circa 12 volte il Pil mondiale. Il restante 30-40% è in massima parte detenuto da banche e assicurazioni (oggi sempre più interrelate con le stesse Sim) e da Stati sovrani (quali Cina, India, paesi europei, ecc.) . La quota di attività finanziarie mondiali detenuto da singoli risparmiatori è risibile e irrilevante. In tale contesto, il trend delle borse è fortemente influenzate dalle scelte strategiche fatte dalle Sim e dei grandi investitori istituzionali. Lungi dall’essere il risultato delle libere forze di mercato, l’andamento dei mercati borsistici e l’attività speculativa in essa dominante è piuttosto l’esito della struttura gerarchica di tali mercati.
Il potere dei mercati finanziari è un potere violento, imposto con la forza del terrorismo mediatico, amplificato da stuoli di servitori, al punto di assumere connotati metafisici. Le società di rating ne rappresentano il braccio armato. La manovra finanziaria votata in questi giorni in Italia, non dissimile da quelle promulgate in Islanda, Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna, é semplicemente l’offerta votiva: garantisce infatti che i debiti contratti dallo Stato Italiano per far fronte ai perversi effetti della crisi economica causati dagli stessi mercati finanziari verranno onorati.

3. In questi giorni, il debito pubblico italiano è arrivato al massimo storico, sino a sfiorare i 1.900 miliardi di euro. Subito la stampa si è precipitata ad affermare che ogni residente in Italia ha un debito figurativo di 33.000 euro a testa. E’ un affermazione solitamente usata per creare quel panico e allarmismo tipico della shock economy di oggi. Ma tale debito in realtà può essere considerato anche un credito contratto dai cittadini con lo Stato Italiano (per lo più concentrato nelle regioni più ricche del paese e fonte di rendita finanziaria a tassazione privilegiata). Tale diversa interpretazione viene usata, invece, per affermare che un possibile fallimento dello Stato e il congelamento del debito stesso avrebbe pesanti ripercussioni sui redditi dei suoi abitanti. A seconda della convenienza politica, dunque, il debito pubblico viene definito in modi diversi, pur di giustificare l’imprescindibile necessità di controllarlo e, soprattutto, ridurlo.
Tale conclusione è tuttavia priva di qualsiasi validità teorica ed empirica. Da un punto di vista teorico, non vi è nessuna teoria economica, anche tra quelle più “liberiste”, in grado di dimostrare il nesso tra riduzione del debito pubblico e crescita economica. Anzi, l’evidenza empirica va in direzione contraria. Ciò che la teoria economica al limite pone in discussione sono due aspetti: il grado di sostenibilità del rapporto debito pubblico / Pil e le modalità del suo finanziamento.
Riguardo al primo punto, è necessario analizzare il differenziale tra tasso d’interesse sul debito e tasso di crescita del Pil. Solo se tale differenziale è positivo e per un certo numero di anni, la sostenibilità del debito può essere messa in discussione. Si tratta di una situazione che può essere salvaguardata se vengono promulgare precise scelte di politica economica atte a mantenere bassi i tassi d’interesse (come negli Usa). Al momento attuale, tale condizione non è verificata nel caso italiano, per l’incremento dei tassi d’interesse in seguito alla pressione speculativa, ma lo è sempre stata negli ultimi trent’anni. Diventa perciò importante le modalità di finanziamento del debito pubblico. La prassi liberista finora perseguita è di lasciar decidere al mercato finanziario (ovvero agli investitori istituzionali), con i risultati che abbiamo visto in termini di pressione speculativa, già a partire dal caso greco. Proprio partendo dall’esperienza della Grecia di un anno fa, la Bce è stata costretta, modificando in parte i compiti dettati dal Trattato di Maastricht, a intervenire sulle modalità di finanziamento, acquistando direttamente i titoli di stato dei paesi europei più a rischio. In tal modo, la domanda di titoli risulta superiore all’offerta e ciò porta all’abbassamento dei tassi d’interesse. Occorrerebbe che tale pratica diventi la norma e non l’eccezione in modo da creare un possibile baluardo alle tensioni speculative in atto e spesso fomentate dal comportamento rinunciatario della stessa Bce. Ma si può fare di più, ad esempio consentire alla Bce di emettere degli Eurobonds, in grado di finanziare i debiti pubblici dei paesi più in difficoltà. Un’iniziativa di tal genere, non a caso fortemente contrastata dalla Germania, sarebbe il possibile preludio alla definizione di una unica politica fiscale, con l’effetto di erodere l’autonomia fiscale dei singoli stati-nazione europei. Il problema della sostenibilità del debito è quindi più politico che economico.
Riguardo il secondo punto (il finanziamento del debito pubblico), può essere utile analizzare chi detiene i titoli di debito pubblico italiani. Al riguardo, occorre notare che fino agli inizi degli anni ’90 il debito pubblico italiano era quasi interamente un debito interno. Negli ultimi venti anni la situazione è profondamente mutata: la quota dei detentori esteri di titoli di stato è passata dal 5,59% del 1991 al 52,4% del 2010 (dati Bankitalia). Se uno Stato è in debito coi suoi cittadini, questo vuol dire che tra il primo e i secondi si stabilisce una relazione di reciprocità se non proprio di coincidenza, visto che i secondi non possono avere alcun interesse al collasso del primo e quindi possono essere disponibili anche ad accettare misure draconiane e di sacrifici per evitare il default del bilancio pubblico e l’annullamento del debito. Diversa è invece la situazione quando i creditori sono nella maggior parte costituiti dai grandi investitori finanziari, i quali ultimi possono avere tutto l’interesse a speculare vendendo e ricomprando titoli, o semplicemente a cedere titoli in portafoglio per andare a cercare altrove più lauti guadagni. In poche parole tanto più è consistente il debito estero di uno Stato, tanto minore è la sua effettiva sovranità nazionale. Come afferma una ricerca dell’Adusbef (http://www.adusbef.it/download.asp?Id=8134&r=1) sui detentori di titoli di stato italiani (elaborazioni dati Bankitalia): “L’enorme debito pubblico italiano è nei portafogli di banche, assicurazioni ed altre istituzioni finanziarie estere per l’86,34 per cento, contro il 13,66 per cento in mano alle famiglie”. Risulta quindi abbastanza chiaro che i creditori nei confronti dello Stato italiano sono solo in minima parte le famiglie e in massima parte proprio quegli investitori istituzionali che sono stati all’origine della crisi economico-finanziaria e all’incremento del debito pubblico. Voler a tutti costi evitare il default significa allora difendere gli interessi degli speculatori finanziari.

3. Siamo dunque in un contesto mediatico in cui si spaccia per interesse pubblico ciò che è invece puro interesse privato. L’“imprescindibile necessità” di ridurre il debito pubblico non va dunque a vantaggio dell’economia italiana e delle famiglie ivi residenti ma serve unicamente a garantire la liquidità e le rendite al sistema finanziario, così da favorire il processo di valorizzazione via plusvalenze derivante dall’attività speculativa. Il potere finanziario viene in tal modo rafforzato a scapito delle condizioni di vita di buona parte degli uomini e delle donne che vivono in questo paese. Non può quindi stupire che la manovra correttiva adottata sia semplicemente una manovra di “classe”. Senza entrare nel merito del provvedimenti, è sufficiente analizzare i possibili risultati che ne derivano in termini di distribuzione del reddito. Uno studio di Massimo Baldini, pubblicato sul sito de La Voce.info lo scorso 15 luglio 2011 (http://www.lavoce.info/articoli/pagina 1002433.html), analizza gli effetti distributivi sui redditi delle famiglie italiane del taglio del 5 per cento, e del 20 per cento a regime, di alcune tra le principali agevolazioni fiscali (solo una delle tante misure adottate). Secondo i calcoli effettuati usando un modello di microsimulazione fiscale sviluppato presso il Centro di analisi delle politiche pubbliche dell’Università di Modena e Reggio Emilia, i risultati sono inequivocabili: poiché le più significative detrazioni (per lavoro e famiglia) diminuiscono al crescere del reddito del contribuente, i tagli risultano particolarmente elevati per le famiglie con reddito medio e basso. Come si può osservare dalla figura seguente con il solo riferimento al taglio del 20%, le famiglie del primo decile più povero avrebbero una perdita del proprio reddito ttra il 5 e 6%, mentre quelle del decile più ricco avrebbero una perdita trascurabile (< 1%).

Incidenza percentuale sul reddito disponibile della riduzione delle detrazioni Irpef e dell’inasprimento dell’Iva, per decili di reddito: caso 20%.

Con tali dinamiche (a cui bisogna aggiungere l’effetto regressivo sui reddito dell’introduzione dei ticket sanitari, dell’incremento delle tariffe e dell’imposizione locale per far fronti ai tagli agli stessi enti locali), la distribuzione del reddito si concentrerà ulteriormente con effetti negativi (via riduzione del moltiplicatore del reddito) sulla domanda interna e sulla dinamica delle entrate fiscali e del Pil, rendendo di fatto improbabile il raggiungimento del bilancio in pareggio nel 2014.
Scopo della manovra finanziaria è dunque garantire il pagamento del debito agli investitori istituzionali e mantenere inalterato processo di valorizzazione biopolitica contemporaneo tramite il perpetuarsi dell’espropriazione dei beni comuni, della cooperazione sociale, in una parola il comando sul lavoro.
Con la scusa di proteggere l’economia italiana dal rischio di default, la farsa dell’emergenza rischia di trasformarsi in tragedia sociale.

4. Che fare, allora? L’anno appena passato è stato caratterizzato dall’ampliarsi dei conflitti sociali, non solo in Italia ma in tutto Europa e nel mediterraneo. Dalla Gran Bretagna – di solito poco propensa al conflitto di piazza – sino al Maghreb e al Mashreq, passando per la Grecia dei grandi scioperi generali e la Spagna degli “indignados”, gruppi autonomi di studenti, di donne, di migranti, di precari (oramai tutti i lavoratori) e nuove forme di sindacalismo si stanno attrezzando. In Italia, le lotte alla Fiat contro il piano Marchionne, degli studenti contro il piano Gelmini, le lotte dei migranti contro la sanatoria truffa, la rinascita di un potenziale nuovo movimento delle donne, il percorso degli Stati Generali della Precarietà verso il primo sciopero precario del prossimo autunno sono tutti segnali che ci confermano che la pacificazione sociale è lungi dall’essere garantita non solo a livello sociale ma anche sul piano più strettamente politico. L’esito dei referendum sui beni comuni e delle elezioni municipali in molte realtà metropolitane ne danno conferma. L’accordo bipartizan sui tempi della manovra in nome dell’emergenza economica (pur con tutti i distinguo sulla sostanza della manovra, ma perfetta comunanza sulla necessità dei sacrifici a destra come a sinistra) rappresenta oggi la chiave di volta della strategia politica per impedire che un nuovo protagonismo sociale possa prendere piede.
Per questo è importante, pur nella diversità delle strategie e delle alleanze (alcune purtroppo “calate dall’alto”), che le realtà di movimento, all’interno del nuovo conflitto di classe che perdura in questo paese, lancino la parola d’ordine del diritto alla bancarotta e del default (ovvero, più prossicamente, non pagare), oltre a quelle relative a un nuovo welfare e a un nuovo diritto del lavoro.
Sulla base dell’analisi svolta, infatti, il rifiuto di pagare oggi i debiti (o pagarne solo una parte) alle banche e agli investitori istituzionali non è altro che l’esercizio di un contropotere al potere finanziario che ci strangola. Non saranno sicuramente i residenti italiani a dolersene, ma piuttosto l’oligarchia finanziaria: ed è questo che non si deve sapere. Si potrebbe obiettare: ma di fronte ad una simile prospettiva, quali potrebbero essere le conseguenze e come tale contropotere potrebbe essere attivato?
Per rispondere a tali domande, occorre innanzitutto ricordare che l’Italia è un paese troppo grande per poter fallire (too big to fail). L’euro, da questo punto di vista, rappresenta uno scudo che obbligherebbe (come per la Spagna) i paesi dell’Unione Monetaria a dover intervenire, anche obtorto collo, con politiche paracadute. Di fronte alla minaccia di non pagare nei termini pattuiti le tranches degli interessi, la minaccia di sanzioni diventa a questo punto risibile e obbligherebbe l’Europa a perseguire una politica fiscale comune, per evitare che la crisi dell’euro contamini tutte le economie. Si tratta a tutti gli effetti di una sorta di potenziale ricatto della seguente natura: il governo italiano chiede il congelamento dei debiti presso gli investitori istituzionali e la loro trasformazioni in Eurobonds a tasso d’interesse con spread fisso rispetto al tasso ufficiale di sconto fissato dalla Bce pena l’insolvenza unilaterale. Parallelalamente, gli Eurobond emessi possono essere dotati di scadenza variabile in modo di allungarne la durata. Per il sistema finanziario, ciò significherebbe una netta perdita in termine di guadagno (dovendosi accontentare sia di interessi più bassi che di plusvalenze minori) e di conseguenza un ridimensionamento dell’attività speculativa. Di fatto è come se vennisero introdotti dei limiti alla libera circolazione dei titoli sovrani.
Più complesso è definire come tali azioni possano essere implementati sul piano delle relazoni politche interne all’Europa. Perché un tale contropotere ai mercati finanziari possa effettivamente realizzarsi, è necessario che gli attuali governi vengano messi di fronte a un aut-aut: o essere travolti dall’insorgenza della moltitudine o accettare il male minore della rinegoziazione del debito in chiave comune europea. Ed è a questo livello che i movimenti sociali possono giocare un ruolo fondamentale sia sul piano della comunicazione che dell’azione. Magari cominciando a ribadire con forza i veri motivi e gli interessi economici che stanno dietro l’approvazone di manovre finanziarie come questa. Il re è nudo.

giovedì 7 luglio 2011

This night/ Questa notte [G.Conserva, 1980]





This night has brought me a smoke
and this night’s brought me a thought
I’m standing on the doorway
I am transfigured

A train that’s passing by
is singing in the night
she’s standing by my side
tonite






per JV [Ancient Song]




"'E difficile orientarsi in mezzo a questi fiori:/
troppi colori, troppe stagioni ammassate insieme;/ 
avrei bisogno della tua compagnia./ 
Raccolgo un iris viola e verde pensando queste cose." 
(Ancient song)



martedì 5 luglio 2011

Link: "The Re/Shaping of the Posthuman, Cyberspace, and Histories in William Gibson’s Idoru and All Tomorrow’s Parties" [Hui-chun Li, Taiwan, 2008]- for Kathy Acker


CARDBOARD CITY

THROUGH this evenings tide of faces unregistered, unrecognized, amid hurrying black shoes,furled umbrellas, the crowd descending like a single organism into the stations airless heart, comes Shinya Yamazaki, his notebook clasped beneath his arm like the egg case of some modest but moderately successful marine species. Evolved to cope with jostling elbows, oversized Ginza shopping bags, ruthless briefcases, Yamazaki and his small burden of information go down into the neon depths. Toward this tributary of relative quiet, a tiled corridor connecting parallel escalators.
Central columns, sheathed in green ceramic, support a ceiling pocked with dust-furred ventilators, smoke detectors, speakers. Behind the columns, against the far wall, derelict shipping cartons huddle in a ragged train, improvised shelters constructed by the city's homeless. Yamazaki halts, and in that moment all the oceanic clatter of commuting feet washes in, no longer held back by his sense of mission, and he deeply and sincerely wishes he were elsewhere.
He winces, violently, as a fashionable young matron, features swathed in Chanel micropore, rolls over his toes with an expensive three-wheeled stroller. Blurting a convulsive apology, Yamazaki glimpses the infant passenger through flexible curtains of some pink-tinted plastic, the glow of a video display winking as its mother trundles determinedly away.
Yamazaki sighs, unheard, and limps toward the cardboard shelters. He wonders briefly what the passing commuters will think, to see him enter the carton fifth from the left. It is scarcely the height of his chest, longer than the others, vaguely coffin-like, a flap of thumb-smudged white corrugate serving as its door.

 Perhaps they will not see him, he thinks. Just as he himself has never
 seen anyone enter or exit one of these tidy hovels. It is as though their inhabitants are rendered invisible in the transaction that allows such  structures to exist in the context of the station. lie is a student of existential sociology, and such transactions have been his particular concern.

Something at the core of things moved simultaneously in mutually impossible directions. It wasn't even like porting. Software conflict? Faint impression of light through a fluttering of rags. And then the thing before her: building or biomass or cliff face looming there, in countless unplanned strata, nothing about it even or regular. Accreted patchwork of shallow random balconies, thousands of small windows throwing back blank silver rectangles of fog.
 [Claimed by both China and Britain but administered by neither, Kowloon Walled City survived as a legal no-man’s-land for nearly 100 years. Through a continual process of demolition and rebuilding – with never an architect in sight – individual buildings gradually homogenized into a single city block. Only at street level did the old grid of public alleyways still exist, but hemmed in and built over: dark, dirty and squalid. Refuse was rarely collected and safe drinking water was supplied by just eight standpipes, only one of which lay within the City’s boundaries. And yet, despite these severe limitations, the City became home to some 35,000 inhabitants, a thriving community complete with its own shops, schools, factories and even clinics. City of Darkness: Life in Kowloon Walled City explains how the City came about and how, under the most extraordinary of circumstances, it thrived and endured-   HAK-NAM, CITY OF DARKNESS, WATERMARK 1993]



 
http://etd.lib.nsysu.edu.tw/ETD-db/ETD-search/getfile?URN=etd-0702108-153519&filename=etd-0702108-153519.pdf ["The Re/Shaping of the Posthuman, Cyberspace, and Histories in William Gibson’s Idoru and All Tomorrow’s Parties" -Hui-chun Li, Taiwan, 2008, 104 pag.]





see LEWIS CALL, 'Postmodern Anarchism', Lexington Books 2002 [chapter 4 is devoted to Gibson and Sterling; vast portions can be read via Google Book Search]
and also "PLAGUES OF THE NEW WORLD ORDER": TECHNOLOGY AND POLITICAL ALTERNATIVES IN WILLIAM GIBSON'S NEUROMANCER- Brent Griffin, University of Maine 2006  -93 pag. (http://www.library.umaine.edu/theses/pdf/GriffinBX2006.pdf)



KATHY ACKER: 'Sei tu' [da 'L'Impero dell'insensato"/ from "Empire of the Senseless", 1988] (http://gconse.blogspot.com/2011/06/kathy-acker-sei-tu-da-limpero.html)

 

lunedì 4 luglio 2011

ONDE [G.Conserva, 1982]






  
1.   arrivò al ponte. l’acqua scorreva lenta, portando sacchetti di plastica, contenitori, barattoli, formando una schiuma grigia, arrestandosi in gorghi. vedeva una figura sollevarsi e camminare, e questo la riempiva di gioia, perché era la prova vivente che qualcosa sarebbe cambiato. Un incontro avrebbe avuto luogo/ come era stato profetizzato/ un tempo.
   “Sono felice?” Esitazione del corpo, si sfiora la coscia, il ginocchio che emerge dalla sottana corta (taffetà e seta), il gesto che si sfiocca a mezz’aria, come l’acqua che va.
   Come in un libro di Virginia Woolf, pensò. Le voci che si intrecciavano - never did anybody look so sad - o K.B.


2   e adesso si era messa a studiare greco, e leggeva Heracleitos e la poetica di Aristotele, e lui la andava a trovare spesso, e le giornate non erano più così lunghe.


3   quando faccio l’amore i corpi scambiano contorni, non capisco più chi e chi non sono io, come calore e gelo, un fruscio d’ali di un altro che parla, e dita e seni e l’incavo dell’ascella non so dove la tua mente si trova. Glicine (lillà) si manifesta fra le foglie di vite, mentre il vento che viene dalla baia, leggermente, fa vibrare l’aria e diffonde le lontane risonanze di auto per la stretta strada della collina, e ci si avvicina - così per far festa- alla casa che è lì davanti, tutta dipinta di rosa, ed io/tu sorridiamo e ti passo il braccio attorno alla vita guardando i ragazzi-ragazze che ballano sul prato, fra trifoglio e fiori di primavera, il rock della trasformazione (questo era in un altro paese).


4   Ma non era nient’altro che il suo aspetto? diceva la gente. Cosa c’era dietro ad esso - la sua bellezza, il suo splendore? Si era forse fatto saltare il cervello, si chiedevano, era morto forse la settimana prima che si sposassero - qualche altro, precedente innamorato di cui arrivava la voce? Oppure non c’era nulla? nulla tranne un’incomparabile bellezza oltre la quale ella viveva, e che non poteva far niente per disturbare? Perché, per quanto facilmente lei avrebbe potuto dire in qualche momento di intimità quando racconti di grande passione, di amore sconfitto, di ambizione respinta le venivano incontro come lei stessa avesse conosciuto o sentito o attraversato quelle stesse cose, lei non parlava. Lei era silenziosa sempre. Lei conosceva allora- quello che le persone furbe spacciavano. La sua unicità di mente la faceva cadere diritta come una pietra, scendere precisa come un uccello, le dava, per natura, quella misura e presa dello spirito sulla verità che deliziava, confortava, sosteneva- forse falsamente.


5   (“La Natura ha solo poca argilla”, disse Mr. Bankes una volta, ascoltando al telefono la sua voce, e molto toccato da essa sebbene lei stesse solo dicendogli una cosa su un treno, “come quella di cui ti ha modellato”. Come egli la vedeva al termine della linea, greca, occhi azzurri, naso diritto. Quanto incongruo gli sembrava stare telefonando ad una donna come quella. Le Grazie incontrandosi sembravano avere unito le mani in prati di asfodelo per comporre quella faccia. Sì, avrebbe preso il treno delle 10 e 30 a Euston.)


6   L’immagine femminile di luce-gioia inseguita & cercata & proiettata, da una mente all’altra, e la luce è opposta alle tenebre, ma cosa c’entra tutto questo con il mio corpo e con il tuo, non lo so.





   II
   “Be’”- lei alzò un po’ le spalle. “Chi sa?”
   Arctor andò alla finestra e guardò fuori. Dan Mancher sarebbe senza dubbio capitato lì prima o poi: la ragazza era una sorgente di denaro, e Dan sapeva che lei avrebbe avuto bisogno delle sue dosi regolari una volta che la sua provvista si fosse esaurita. “Quanto puoi tirare avanti?” chiese.


Chicano, piccola e non troppo bella/ Tarantula/ be’ probabilmente anche la pistola è rubata/ non possiamo nemmeno essere sicuri di vedere un’altra alba/ “il miglior libro dell’anno”/ “straordinario”


senza significato nel suo trascinarsi come una pantera nell’alba - le parole si intersecano e creano storie - le figure vengono proiettate sulla mente - what are you doing


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   una volta si era fermato a un incrocio, e aveva ascoltato a lungo il treno che passava (la ferrovia era vicina). Poi, girandosi lentamente verso il ragazzo che lo accompagnava, esile e con prima peluria e giacca azzurra, gli aveva detto:
   Sembra un animale.
   Il che non era gran che come intuizione poi, nemmeno per uno come lui ‘nato e allevato’ fra le case.





Il generatore automatico aveva iniziato a trasmettere musica dalla nicchia nel muro in cui era incorporato. Reggae giamaicano nell’aria stordiva passanti attoniti, mentre per il resto tutto continuava/ Quest’uomo che chiameremo Fred, dichiarò l’ospite, perchè questo è il nome in codice sotto cui riferisce le informazioni che raccoglie/ yeah, si mise accanto a lui, con la bocca spalancata/ l’abuso di droghe non è una malattia/ gliel’avevano detto





Bob Arctor raccoglieva informazioni perché era pagato per farlo/ era la sua scelta la sua arte e la sua gioia/ se vuoi fare all’amore con lui non c’è bisogno che tu mi dica queste cose/ I know how to make men happy/ never did anybody look so sad/
& con pochi libri in mano non sapeva come orizzontarsi; tutta la sua esistenza antica, fra una leggenda ed invocazioni agli dei, cerimonie che commemoravano vecchie glorie.
& questo prima dell’arrivo dell’uomo bianco, naturalmente, i suoi pensieri & sensazioni & desideri-
she comes she comes
lei viene lei viene/ & conoscere 3 o 4 lingue non era un vantaggio se non in qualche senso limitato, ma dove gli altri vivevano era solitario, ma la casa bianca dove vado non è mai sola qui con me. & sono felice quando lascio il mio paese, when I outgrow it, free I go, con emozione guardo le siepi ben curate e i primi fiori, con tenerezza me ne vado, hence I go.





ricordo un sole splendente, sopra gli alberi del Parco, e sapere con chiarezza che il sole era il disco di Visnù, nel senso più letterale della parola, e che la bontà esisteva e si manifestava nel mondo - per me, per tutti.
Più tardi, quando calava la sera e i colori mutavano, due o tre persone si raccoglievano ad ogni angolo. Era così l’uso, da dieci anni ormai. // E frammenti di parole volavano nel vento, frammenti di storie, come due più uno che in qualche modo faceva tre (oppure no), e tu mi hai preso la mano, e poi un tocco sulla spalla, e una stretta al cuore pensando a tutto quello che sarebbe successo -precognizione, telepatia, empatia- e la bambola meccanica appoggiata alla finestra si mise a muoversi al dolce suono di un carillon, come per gioco, la festa.
   Come nella Faerie Queene: vengono generate storie - il tessuto astratto delle avventure genera le storie.
   Restava da capire quale storia fosse questa, adesso, e chi riguardasse. Ma era un compito che si poteva lasciare ai continuatori, e comunque non poteva esserci alternativa alcuna al puro effetto dello scorrere materiale del tempo.





NOTA: [DA UN TACCUINO DI TANTO TEMPO FA]



'P. e G. parlavano (giorni del 1977)'

L’Uno si è diviso in Due
molto tempo fa; e cosa ne è rimasto? A mani vuote,
nebbia fra i nostri gesti & le
nostre parole.
Ci hanno espropriato del nostro corpo.
Vi hanno espropriato del vostro corpo. E allora?
Patrizia e Germana parlavano di come
fosse ingenuo questo parlare di composizione
& attacco, come non esistesse un “noi”, e neanche un “voi”, forse,
ma il movimento della separazione.
C’è una storia Zen sul nostro manifesto;
anche nel nostro paradiso Zen non ci incontreremo.

domenica 3 luglio 2011

PRE-POST: on "Imperial", 1 [W.T.Vollmann 2010]



reading Imperial. somewhat devastating. It is jut THIS world- level 0 or level +x -  he shows it is posssible to exist here (for many, that's just normal). so many agencements, and building, parting, destroyng and creating. Just the strength to take it all...
(beauty, too, and wild joy)-    GC June 19- a letter




IT WAS THE GREAT LUPE VÁSQUEZ who first informed me of the existence of the baladas prohibidas. We were at the 13 Negro drinking early in the evening, which is to say that it was not yet midnight and Lupe had not yet blacked out. The jukebox exploded into another happy song, indistinguishable to my ignorance from the others, and the grim field workers at other tables nearly smiled, while the dancing couples on the metal floor grew livelier, and several men shouted along with the singer. Even Lupe, who trudged bitterly through life, cheered up when he heard this corrido, which was naturally so loud that he had to shout into my ear for me to apprehend that it dealt with the demure lady friend of a wanted drug lord who happened to be absent when two federales visited their residence, promising her that they wouldn't hurt him, so she told them to sit down and wait if so it pleased them; but while fixing refreshments she overheard their plan to liquidate her lover, so she sweetly invited them to rest just a moment longer, then strode out and blew them away!
Lupe's hatred of authority exceeded even mine, and for good reason; most days he had to deal with the lordly ways of United States immigration inspectors, of foremen who might or might not offer him a job and who if they did cared about their production quotas, not about his back; of companies who didn't pay him for the hours he had to sit in buses waiting for the frost to melt off the broccoli; and whenever he got a vacation from these entities, he got to visit the know-it-alls at the employment office in Calexico. Now and then he had also enjoyed the hospitality of Northside's police and judges. That was why a few beers at the 13 Negro soothed the pain of the 13 Negro's prices, and when a certain sort of corrido came on the jukebox, Lupe even smiled.

He always had stories about drugs. Once he said: Last year the asparagus crew found a lot of weed that somebody left. At first they were scared to get it, in case someone was watching, but they did it; they got it and said fuck it! And they took the marijuana. One guy sold his share for $400.
To Lupe this outcome represented not only a significant score (he was always hoping to strike it rich), but also, and I think more fundamentally in his mind, a victory over the official bullies who imprison people for drug possession.
And so that happy ballad about one loving lady's murder of two federales was ambrosia to Lupe. I asked him how many of those songs there were, and he said: Many. They're called the baladas prohibidas. Some also call them thenarcocorridos. Of course, the more they try to stamp them out, the more popular they get. Those assholes who try to control us, we just make fun of them.

IT'S BEEN THREE YEARS that we haven't played any narcocorridos, said Alfonso Rodríguez Ibarra, theprogramador at Radiorama Mexicali. Three years ago the people who owned the station and all of their affiliates decided to stop. But a year ago, the government of Baja California made it a policy not to play them.
In your opinion is that a good thing or a bad thing?
A good thing just from the marketing standpoint, he said. If we played narcocorridos, there are enough people who would be offended that we would lose the advertising.

THE POLICEMAN Carlos Pérez said that some of the most famous ballads were about Jesús Malverde, whom he called the patron saint of the narcotraffickers. He lived in Sinaloa. He was Robin Hood. He sold drugs and used the money to help the people. He was killed in a gun battle because he didn't want to give himself up. Some say he was never caught. Some say he died of old age, and others say that he is still alive. Everybody has his own story. (One Arizona lawman proposed that discovering a Malverde image in a suspect's wallet "might be sufficient grounds for indictment.") I asked him whether he knew any local narco-ballads, and he replied: Most of the bad guys are Sinaloan. Here in Mexicali, there's just middle management.
His colleague, Juan Carlos Martínez Caro, explained the genesis of the ballads thus: So the people who were dealing drugs paid singers to write songs about them. It began in the '60s. It's a way to make themselves look good.
I cannot say that I was greatly surprised to learn that Officer Caro preferred those corridos praising the police who captured and killed drug traffickers, such as "Comandante Reynoso." What a good thing just from the marketing standpoint!
Just then there came an ex-policeman of eagerly jaunty sadness, bearing roses and dinner for his policewoman wife, who accepted his offerings without enthusiasm. His name was Francisco Cedeño, and he was now Christ's age. He invited me home, where behind a wall of plywood lurked a one-room palace, anonymously male and disarrayed.
He had enlisted in the military in his early teens. A small table was strewn with photographs of his various adventures in uniform. He showed me a photo of ahectare of marijuana in Sinaloa. And here was a photo of an amapola drug flower. Here he was in the Army at 16 (it was an important stage of my life, he said wistfully), and here in police uniform at an official reception...
My wife was annoyed most of the time I was involved with the government, he said. So one day she told me I had to do everything possible to have a child or she would leave me. So I decided to find out which drug would help me perform sexually. It was crack. I lost my job due to my drug problem.
I nodded in silence.
There is no organized crime without protection in government. Here you can find yourself in trouble without wanting to. By the way, this Mafia is run by families. But a person like me, well, I grew up on a ranch; I didn't know anyone. But if I have a brother who's a drug dealer and I'm in the military, I'm not gonna catch my brother. If my brother harvests marijuana, I'm gonna protect him. But to do that I have to share money with my bosses.
First you harvest it, and he showed me another photo. The owner of this field is a politician. It's not easy when you walk with God, but then no one harms you. The next photograph depicted soldiers destroying a field. But behind this field, said Francisco Cedeño with what I was already calling the narcocorrido smile, there are five more, even bigger! We just took our orders; we were supposed to destroy one and leave five, because if you didn't follow orders you didn't live to tell about it.
I heard narcocorridos in the military. Everyone enjoyed them. There are people worthy of respect in the military and the police who don't do drugs. But everyone listens. I composed one for my wife, he said, and here I thought again of that weary, bitter, slender policewoman to whom he brought dinner and roses, and with whom he claimed to read the Bible every day.
Now he began to search everywhere for the corrido he had written in honor of his wife, but he couldn't find it, so, changing his clothes and donning a hat to formalize the performance, he sang what snatches he remembered:
In Baja California / there are very valiant women.
Don't take my word for it; / all the people say it!
This corrido is for them; / I'm always thinking of them.
There is one I carry in my chest, / or my soul it could be called.
Even for many huevos / I wouldn't want to trade her.
The way she carries herself / makes the people respect her.
She's a norteña, / this valiant woman.
Some call them patrona / because they give us food.
Some love drug dealers; / some love the law!
That was as much as he could remember.

ANGÉLICA, WHO WAS loitering on the street but had an urgent all-night appointment working at a restaurant whose name she couldn't remember, gladly sang a snatch of narcocorrido right there and asked which ones I preferred, the ones where they cut people up or what? The next morning she staggered upstairs to my hotel room, reeking of urine old and new, bearing a garbage bag of empty cans in each hand.
The ones I like the most are the prettier ones, like the traditional ones, she said. It used to be that the corridos sang about famous men who were brave or who were real womanizers. Now they are about men who sell drugs and kill federales, and make them larger than life. It's almost always the same story: I sell them, I do them, I kill them. There are also some who talk about working your way to the top. You start out helping and then you're the one who's telling the people what to do. I don't really like that. I kill, I do, I sell, I make fun of. The federales tell us what to do and we do it, but the drug dealers are always the big boss and nothing ever happens to them. In all the songs, they never kill the drug dealers.
Why do you think they are so popular?
People like to listen to them when they're drunk in a cantina.
And why do drunks like to listen to them?
For people who sell drugs, it makes them feel valiant.
That was the operating word, I thought. The ex-policeman had used it in the corrido that flattered his wife.
And what about those who don't sell drugs?
Because they play them a lot on the radio.
That begged the question, I thought. For me, the answer was this: Mexicans didn't like being told what to do.

IT'S ALMOST ALWAYS the same lyrics. It's a story that never ends. Angélica was referring to the narcocorridos, but her words applied equally well to the idiotic War on Drugs itself. To quote from Los Tigres Del Norte's "Jefe de Jefes":
I navigate under the water.
I also know how to fly in the sky.
Some say the government watches me;
others say that's a lie.
From up high I entertain myself.
I like them to be confused.
Just as Jesus spoke in parables, likewise the narco-saints—and their listeners. The more desperate they were, the more profoundly the narcocorridos sang to them.
The hotel clerk, whom I had known for years, disliked them actively; the barber who always remembered me and said God bless you felt the same. The police expressed various tolerations, exasperations, and likings from within their collective prison of stolidity. Emily, a waitress at the 13 Negro, liked tunes more than words; narcocorridos pleased her on that basis; certainly the so-called drug culture was more normal for her than for many Northsiders; in fact I knew nobody in Mexicali who lived in isolation from it. The great Lupe Vásquez stood loyally for them; the field workers at the 13 Negro shouted the words out.
I've failed to mention the Tucanes de Tijuana, a famous band who composed the first narcocorridos Angélica ever heard; I've failed to introduce you to the most famous narcotraffickers, whom even the police speak of with respect: Chapo Guzmán and the brothers Arellano Félix from Tijuana; Cárdenas the chief of chiefs, the Valencia brothers...But maybe I have showed you that certain individuals of a daringly decorative bent can paint the walls of hell with words as yellow, hot, and sulphurous as Mexicali at three in the morning.



REVIEW (of sorts)
excerpt from William T. Vollmann: A Critical Study

(from the FB group cited below)

Imperial, is the result of ten years of obsessive research, riding on the coattails of success after the National Book Award winning Europe Central (2005) and the 2008 Strauss Living Writer’s Award.

In 1997, Vollmann discovered the Anza-Borrego dessert in California (via Larry McCaffery and Sinda Gregory) and the neighboring county of Imperial that encompasses thousands of acres of desolate desert, the contaminated Salton Sea, a curious mixture of Mexican, Chinese, and Indian culture, as well as the volatile and controversial issues of the U.S./Mexican border and the “illegal migrant worker” and their conditions and human rights quagmire.

Similar to Vollmann’s career, Imperial cannot be framed into any compact genre: part journalism, part ethnography, part memoir, part cultural study, part political manifesto, part prose poem, it is a logical extension of his previous two books: Poor People (2007), where some of the migrant workers in Imperial County make an appearance, and Riding Toward Everywhere (2008), where Vollmann hops trains in, or rides on trains the pass through, Imperial County.

Vollmann searches for what may or may not exist during his decade long jaunts into a region whose name (much like another county, Inland Empire, not far north of Imperial) ironically conjures up images of majestic colonialism. For migrant workers in Latin America, Imperial represents the American Dream, a path out of poverty, a promised land of blue skies and green hills; crossing over, they find a harsh land with little work, and sometimes return home or are caught by la migra and forced back to Mexico. Vollmann also searches for the Chinese tunnels under the two border towns Calexico (U.S. side) and Mexicali. The Chinese communities on the border and the outskirts of the Salton Sea are descendants of the Chinese railroad workers of Nineteenth Century expansion. No one talks about the tunnels, many treat them as urban legends, yet Vollmann uncovers evidence that the Chinese folk on the border did indeed use tunnels to smuggle in goods, drugs, people, and engage in illegal gambling (and possibly still do).

Casting himself as a “private investigator,” Vollmann outfits a spy camera in the shape of a shirt button (paid for by Playboy magazine) and infiltrates a “sweat shop” to uncover the true conditions of those seeking the American Dream: Mexican women forced into backbreaking labor for little pay. Vollmann also searches for himself: inevitably, over a decade, the events in Vollmann’s life, and his experiences while in Imperial, change his outlook. He finds the invisible county, state, and country lines of the region “delineations and subdelineations” in the lives of the people he meets, and his own life, so that this book forms itself as it goes.

"Fields, cemetaries, newspapers and death certificates beguile and delay me; I don’t care that I’ll never finish anything. Imperial will scour them away with its dry winds and the brooms of its five-dollars-an-hour laborers […] Imperial is what I want it to be [….] The desert is real […] but there is no such place as Imperial; and I, who [doesn’t] belong there, was never anything but a word-haunted ghost" (181).

Claiming that “books are whatever we want them to be” (181), and that this book has multiple labels and layers, Vollmann imagines an Imperial in his mind, an ideal place, in contrast to the physical Imperial County. It is a place where Vollmann gets away from his domestic life in Sacramento, his image as a major American writer, his role as the danger-seeking journalist, a place where “I know that I’ll sleep happily and well” (1118).

“Imperial is the father and son who sit high and gently swinging in one car of the otherwise unoccupied ferris wheel which reigns over a sandy night carnival” (1120) he muses. Imperial is also a space where he finds and loses love—when

“until a week ago, this place had been hers and mine, our place, she said, and so it had been for years” (99) to a painful delineation: “And so what if we had made love one more time after she said it was over? […] I take back what I said at the beginning” (100).

Imperial is no longer “theirs” but his and his alone, long after “she’d been begging me to let her go, but I’d been too blind and too selfish” (100) wanting to share Imperial, the idea of Imperial, when in fact it is a solo state of being. It takes him a long time to free himself from the pain of this failed relationship; when he does, his view of Imperial, the book project, and Imperial the real estate, and his reasons for the research, change from idealism to fatalism: the land goes from “green, green fields, haystacks, and wide mountains” (49) to “the poorest county in California and its water […] robbed away by state threat and federal intimidation” (159).

Imperial does not have to be read from page one onward. Vollmann has structured the text so that each of the 208 chapters operates as a stand-alone entity, jumping back and forth through time in a stream-of-consciousness non-linear phenomenon. It is possible to begin the book in the middle at Chapter 82, “The Long Death of Albert Henry Larson” (511) and then jump backwards or forwards, going to Salton Sea’s New River, or experiences in Mexicali brothels with the midget whore, Elvira. We find Chapter 10 titled “Preface” where Vollmann is still thinking about writing the book, a meta-reflection on the birth of a text that is yet to exist:

“All these delineations and subdelineations had persuaded me that if I were going to write Imperial, the book should probably investigate what used to be called ‘the American dream,’ with some broader strips of its Mexican counterpart” (158).

Vollmann ruminates how “this book forms itself as it goes” (181) and is not confined to an outline or chronological layer. As with other Vollmann books, Imperial does not arrive to a completion that adheres to normative expectations of narrative; in the end, Vollmann finds “America itself, empire of ingenuity, progress, equality, enrichment and self-sufficiency and now a wavering half-symbol of imperiled decrepitude” (1121) and the text smoothly merges into 167 pages of back matter: chronology, source notes, bibliography, and acknowledgments (reading the long list of those who aided the writer over a decade is a narrative curiosity in itself). Just as Vollmann advocates creating an Imperial that can be anything in the mind of the beholder, he wants the reader to enter this book on any page and make it whatever the reader wishes it: history, ethnography, debauchery, journalism, fiction, or love story.

***
I must admit I have a bias toward this book, and read it as a participant rather than a distant reader, since I know Vollmann, co-edited, with McCaffery, Expelled from Eden (Thunder's Mouth Press, 2004), have written a recently released critical study (McFarland, 2009) and compiled an annotated bibliography (Scarecrow Press, 2010); I also read half of this book in manuscript form since 2002, published several parts in Expelled ("The New River" and "John Steinbeck"), and was involved in some of the research, as was McCaffery ("in his autumnal years" from "The New River"), one of my ex-girlfriends, and a grad student assigned to Vollmann for credit. In that regard, I have enjoyed -- and admired -- the process of this book over the past decade, what Vollmann once called "my Moby-Dick."

It's a surprise that a commercial publisher put this one out -- Viking has been Vollmann's fiction publisher, Ecco Press his on fiction, and a 1300 + page book is no easy project to edit, advertise print, and distribute. Viking, however, owes Vollmann for snagging that NBA in 2005, showing that Viking is doing its job for the canon of American Literature. Such an award assures a writer that his next book with the house can pretty much be whatever he/she wants.

***

A note on the physicality of Imperial, and other Vollmann books: at 1300 plus pages, this is Vollmann’s heftiest volume, albeit Rising Up and Rising Down (2003), essentially one book, is divided into seven manageable volumes. When The Royal Family (2000), at 780 pages, was published, I found I could not carry it around—comfortably anyway; nor could I lie down on a couch or in bed and attempt a blissful vetting. The book required placement on a flat surface to manage. This is also the case with Imperial; this is not an object one can take to the beach, read on the train or bus, or feasibly carry around in a purse or backpack. The softcover galleys alone weight five pounds; the hardcover weighs more. Imperial becomes a challenge to digest on the material, practical level; that is, it cannot be read at times and in places where one might read an average book. Critics have applauded and condemned the girth of Vollmann’s volumes , yet have not discussed their place in the history of The Big Book. Consider the illuminated manuscripts of antiquity, placed on podiums or shelves where they remained and could only be read while standing up. The bulk, and hulk, of a book such as Imperial becomes as pertinent as the text within: the actual land of Imperial County is just as taxing to navigate and explore as the act of reading about it.

***

So what is next for William T. Vollmann? He has completed a 600-page study of Japanese Noh Theater, which will most likely only find a niche audience, even for die-hard Vollmann fans. Word was, he was wrapping under another volume of the Seven Dreams, and stories from a collection of "erotic romance stories" have been appearing in the literary journals lately. Whatever his next title is, will it compare in breadth and vision of Imperial? Many critics did not think he could top Rising Up, but he has. I contend Vollmann will win the Nobel Prize, possibly in the next 10 years. I am not alone in this forecast.



http://southeastreview.org/2010/10/book-review-imperial.html
http://www.facebook.com/home.php?sk=group_2226649449 ('What would William Tanner Vollmann do?')

[http://gconse.blogspot.com/2011/06/tijuana-postborder-city-metropolis.html
http://gconse.blogspot.com/2011/06/tijuana-2-michael-hemmingsons-zona.html]