La camera (OR, 259)
Un mondo (…) come quello delle panzerdivisionen e della R.A.F.
L’essere e il nulla (NET), 582
Selbstmord gleich mord (suicidio=omicidio)
SPK, Heidelberg 1971
1. Lucidità e orgoglio
A poche pagine dall’inizio della ‘Nausea’ (p. 32 degli Oscar Mondadori) troviamo una scena d’orrore:
"Sono solo in mezzo a queste voci gioiose e ragionevoli. Tutti questi tipi passano il loro tempo a spiegarsi, a riconoscere felicitandosene che sono della stessa opinione. Quanta importanza attribuiscono, mio Dio, a pensare tutti quanti le stesse cose. Basta vedere la faccia che fanno quando passa in mezzo a loro uno di questi uomini dagli occhi di pesce, che sembrano guardare al di dentro e coi quali non si può più assolutamente trovarsi d’accordo. Quando avevo otto anni e andavo a giocare al Lussemburgo, ce n’era uno che veniva a sedersi in un casotto contro la cancellata che costeggia vìa Auguste-Comte. Non parlava, ma ogni tanto stendeva una gamba e si guardava il piede con un’aria spaventata. Questo piede calzava uno stivaletto mentre l’altro era infilato in una pantofola. II guardiano disse a mio zio che si trattava di un ex censore. Era stato messo a riposo perché era andato nelle classi a leggere le votazioni trimestrali vestito da accademico. Noi ne avevamo una paura terribile poiché sentivamo ch’era solo. Un giorno fece un sorriso a Roberto, tendendogli le braccia, da lontano: mancò poco che Roberto svenisse. Non era l’aspetto miserabile di quel tipo che ci faceva paura, né il tumore che aveva sul collo e che gli strusciava contro l’orlo del colletto: ma sentivamo che nella sua testa formava pensieri da granchio[1] o da aragosta. E questo ci terrorizzava, ci terrorizzava che si potessero formare pensieri da aragosta sul casotto, sui nostri cerchi, sui cespugli.”[La Nausea, Oscar Mondadori, p. 32 ]
E lo stesso orrore e la stessa angoscia corrono nella descrizione che nella ‘Force de l’âge’ Simone de Beauvoir dà di una visita sua e di Sartre al manicomio di Rouen, o in tutta la narrazione della storia di ‘Louise Perron’ (in effetti Renée Ballon), una sua amica e collega che sviluppò un delirio erotomanico devastante; e così pure nella rievocazione della quasi-psicosi post-mescalina di Sartre (orrore che per parte sua la De Beauvoir tenta di combattere con la intellettualizzazione, fondamentalmente- e interpretando a volte la patologia come messa in scena, come problema di volontà). Fa impressione (ci si riferisce sempre a eventi del 1935) mettere a confronto tutto questo con la finezza e il distacco delle analisi fenomenologiche di allucinazioni, deliri, sindrome di automatismo mentale, vita onirica contenute nell’ultima parte de ‘L’imaginaire’, scritto in quegli anni; o con il breve marginale accenno che a un certo punto lì Sartre vi fa alla sua esperienza:
E lo stesso orrore e la stessa angoscia corrono nella descrizione che nella ‘Force de l’âge’ Simone de Beauvoir dà di una visita sua e di Sartre al manicomio di Rouen, o in tutta la narrazione della storia di ‘Louise Perron’ (in effetti Renée Ballon), una sua amica e collega che sviluppò un delirio erotomanico devastante; e così pure nella rievocazione della quasi-psicosi post-mescalina di Sartre (orrore che per parte sua la De Beauvoir tenta di combattere con la intellettualizzazione, fondamentalmente- e interpretando a volte la patologia come messa in scena, come problema di volontà). Fa impressione (ci si riferisce sempre a eventi del 1935) mettere a confronto tutto questo con la finezza e il distacco delle analisi fenomenologiche di allucinazioni, deliri, sindrome di automatismo mentale, vita onirica contenute nell’ultima parte de ‘L’imaginaire’, scritto in quegli anni; o con il breve marginale accenno che a un certo punto lì Sartre vi fa alla sua esperienza:
“Ho potuto constatare, dopo un’iniezione di mescalina che mi ero fatto praticare, un breve fenomeno allucinatorio. Presentava esattamente…un carattere laterale: qualcuno cantava nella stanza accanto, e mentre tendevo l’orecchio per sentire meglio- smettendo perciò del tutto di guardare davanti a me- mi comparvero davanti tre piccole nuvole parallele. Questo fenomeno scomparve da solo non appena cercai di percepirlo chiaramente. Non era compatibile con la coscienza visiva piena e chiara. Non poteva esistere che di sfruso e d’altra parte si presentava esattamente come tale; nel modo che avevano queste tre piccole brume di darsi al mio ricordo, non appena scomparse, vi era qualcosa insieme di inconsistente e di misterioso, che, mi sembra, esprimeva con correttezza l’esistenza di questi fenomeni spontanei liberati sul margine della coscienza” [‘L’imaginaire’, pag. 302] [2]
In molti brani della ‘Nausea’ (l’estasi orribile del parco, il premere della vegetazione sulle città, la visione apocalittica dall’alto della collina di una Bouville soggetta a trasformazioni mostruose etc) è difficile non cogliere un influsso di quel tipo di Erlebnis (Sartre aveva partecipato alla traduzione in francese della ‘Psicopatologia generale’ di Jaspers- sapeva benissimo cos’era p.e. il Wahn-Stimmung, lo stato d’animo pre-delirante); e tutto un racconto bellissimo e crudele come ‘La chambre’ affronta il tema dell’ingresso nel delirio. Al contrario, ne ‘L’essere e il nulla’, che fra l’altro fonda il progetto della psicanalisi esistenziale, non si parla quasi di follia. Vi è un significativo accenno in nota (un accenno che sarà ripreso dagli antipsichiatri inglesi): ‘Un fou ne fait jamais que réaliser à sa manière la condition humaine’[EN 414]; vi è, verso la conclusione del libro, alla fine del brano sul vischioso (pag. 676-677 della edizione italiana), l’esplicita menzione delle psicosi di influenzamento e del furto del pensiero[3] (che è costitutivo della sindrome di automatismo mentale di De Clérambault, preliminare alla psicosi allucinatoria cronica di cui Sartre aveva temuto di soffrire)- e i toni della prosa (“ma è orribile una coscienza che diventi vischiosa…”) ricordano una volta di più quel 1935 terribile. Ma la follia, appunto, non è tematizzata.
Quanto alla psicanalisi esistenziale, il suo ruolo sembra essere quello di chiarire al soggetto le proprie scelte di fondo: sia a livello maieutico (gnōthi seautón) che a livello ermenutico, o di culture studies, come si direbbe oggi; non a caso il metodo è stato applicato soprattutto da Sartre agli studi biografici su Baudelaire, Genet, Flaubert- oltre che, in modo discretamente inappropriato, negli scritti su o contro Camus e Merleau-Ponty. Sartre pensa comunque che, mentre si nega esistenza e ruolo dell’Inconscio freudiano, il chiarire al soggetto le motivazione di base, le scelte di fondo (non ulteriormente riducibili né deducibili) che la sua libertà ha fatto può permettergli un maggior grado di autenticità; e può pure agevolare quelle trasformazioni improvvise, istantanee, decisive, che a volte si producono in una storia personale; il che sicuramente può essere un momento terapeutico (o di facilitazione) estremamente importante.
Anche nei momenti di massima fortuna del pensiero esistenzialista vi sono state molteplici voci a negare a questa proposta un qualunque significato terapeutico; primo fra tutti Rollo May in America (il curatore della fondamentale antologia ‘Existence’ del 1958, che portò nei paesi di lingua inglese Minkowski, Binswanger, Von Gebsattel etc); lo stesso venne sostenuto più tardi da un altro grande psicoterapeuta esistenziale come lo svizzero Gion Condrau; nel recente molto notevole commento collettivo all’’Essere e il nulla’ della Akademie Verlag, Jean-Christophe Merle è addirittura sarcastico nella trattazione di questa sezione dell’opera. Vi sono però state anche significative posizioni diverse; prima di tutte quella di Binswanger, che manifestò grande interesse per questi temi di Sartre, oltre che una congruenza di fondo con aspetti base della sua Daseinanalyse. Ken Wilber vede in Sartre (pur ‘estremista’) una interessante esplorazione del ‘livello egoico’ (la coscienza decaduta, della quotidianità); in modo simile Thomas Flynn (cfr. il commento tedesco), pur ammettendo che p.e. le analisi fatte in EN del rapporto con altri sono assolutamente unilaterali, conclude che rispecchiano fedelmente un mondo hobbesiano di violenza, sopraffazione, sfruttamento. Stanislav Grof, il grande esponente della psicoterapia transpersonale, ritiene che nella strutturazione e nella tematica di EN sia fondamentale il ruolo di una esperienza psichedelica male elaborata (cfr. le considerazioni svolte sopra). Ma vi è stato anche chi (v. Masquelier) ha trovato una consonanza fra le posizioni di Sartre e quelle di Perls e dei gestaltisti- con il richiamo al ‘qui ed ora’ ed alla attività e attivazione del soggetto (per non parlare poi della terapia cognitivo-comportamentale, o della neuroprogrammazione linguistica).- D’altra parte, in tempi in cui si moltiplicano i libri sulla ‘consulenza filosofica’, da Gerd Achenbach in poi, ed esiste addirittura una collana editoriale interamente dedicata ad essa, è difficile non pensare che anche un metodo come quello proposto da Sartre non possa avere profonde giustificazioni, e ottenere risultati.[4] Da segnalare pure che il brano sul ‘vischioso’ venne ripreso e commentato da Mary Douglas nel classico ‘Purezza e pericolo’ (e di lì, senza che venisse citato Sartre, passò a ‘Poteri dell’orrore’ della Kristeva: vedi il saggio di Sara Heinämaa sulla ‘psicanalisi delle cose’ ne ’L’essere e il nulla’).
Sartre non ha mai rivendicato la déraison, i doni divini della follia, la liberazione dell’inconscio o della immaginazione; è abissalmente lontano da Breton, Artaud, Foucault. Le sue droghe di elezione sono sempre stati anfetamine, nicotina, barbiturici, non certo gli allucinogeni- l’ethos psichedelico della fine degli anni ’60 non pare averlo minimamente toccato. Il suo maggior valore è sempre stato, assieme alla libertà, la lucidità- la consapevolezza. Non a caso ha scritto un fondamentale saggio sulla ‘libertà cartesiana’: il diritto della ragione a mettere in dubbio, contro tutto e tutti, ogni presupposto, e a costruire un mondo su questa base.- Certo, tutto questo aveva anche dei lati oscuri, e non solo nel timore di fondo di quanto è profondo, nascosto, avvolgente, troppo naturale. Molto prima della geometrica costruzione de ‘Le parole’, Sartre scrisse nel 1939, nei suoi diari di guerra (stampati postumi) un brano amaro e sorprendente:
“’E vero, non sono autentico. Tutto quello che sento, ancora prima di sentirlo so che lo sento. E non lo sento più che a metà, allora, tutto impegnato come sono a definirlo e a pensarlo. Le mie più grandi passioni non sono che dei movimenti di nervi. Il resto del tempo, sento di fretta e poi sviluppo in parole, comprimo un po’ di qui, spingo un po’ di là ed ecco costruita una sensazione esemplare, buona da inserire in un libro rilegato. Tutto quello che gli uomini sentono posso indovinarlo, spiegarlo, metterlo nero su bianco. Ma non sentirlo. Illudo, ho l’aria di essere una persona sensibile e sono un deserto. D’altra parte, quando considero il mio destino esso non mi sembra così disprezzabile; mi pare di avere davanti a me una quantità di terre promesse dove non entrerò. Non ho avuto la ‘nausea’, non sono autentico, sono bloccato al confine delle terre promesse. Ma almeno le indico, e altri potranno recarvisi. Sono uno che indica, è il mio ruolo. Mi pare di cogliermi in questo momento nella mia struttura più essenziale, in questa specie di squallore desolato a vedermi sentire, a vedermi soffrire non per conoscere me stesso ma per conoscere tutte le ‘nature’, la sofferenza, la gioia, l’essere-nel-mondo. Sono io, questo raddoppiamento continuo e riflessivo, questa spinta avida a trarre profitto da me stesso, questo sguardo. Lo so bene- e spesso ne sono stanco. ‘E di là che viene questa attrazione magica che esercitano su di me le donne oscure e affogate, T. , in altri tempi O.. E poi ancora, di tanto in tanto, ho dei piaceri innocenti d’anima pura- subito riconosciuti, depistati, espressi, sparsi nelle mie lettere. Non sono che orgoglio e lucidità.” [CDG, 82-83]
Sia quel che sia (e sia per un capriccio del destino o per la pura forza di un pensiero o per l’effetto trainante di una testimonianza di vita), con tutti i limiti che ha avuto Sartre ha dato fra gli anni ’50 e ’70 un contributo fondamentale alla messa in crisi della psichiatria tradizionale- e della psicanalisi tradizionale. ‘E questo contributo che adesso cercherò di rintracciare.
2. Antipsichiatria
Molti dei protagonisti di questa storia sono morti: Sartre, Basaglia, Laing, Cooper, Mario Tommasini (Deleuze, Guattari, Foucault, Derida, Carla Lonzi, Valerie Solanas); ed è da poco mancato anche Francis Jeanson, che negli ultimi decenni della sua vita si occupò di alternative alla psichiatria tradizionale.- Molti altri sono vivi.
Dove cercare l’antipsichiatria oggi? Su nopazzia.it, al telefono viola, al gruppo Artaud di Pisa, sul sito del Dr. Breggin (autore fra l’altro di ‘Toxic Psychiatry’) in USA? O sul sito multilingue del Patientenfront/Sozialistisches Patientenkollektiv(H) del Dr. Huber (fondatore nel 1971 dell’SPK)?
Conosco persone diagnosticate psicotiche che dedicano moltissimo tempo ed energie a questo settore della Rete. Ma c’è anche il DSM di Trieste, con il suo accumulo di esperienza, prassi, discorsi; o il progetto Soteria, fondato da Mosher in California e da Luc Ciompi in Svizzera; esiste ancora in Inghilterra la Philadelphia Association, a suo tempo messa in piedi da Ronald Laing e c.. E, più in generale, esiste una miriade di gruppi, di operatori pubblici o di cooperative, di associazioni sparse in ogni dove; con il discorso dell’alternativa alla esclusione, ai manicomi, alla psichiatria oggettivante che in molti settori è diventato parte del senso comune e delle politiche sociali e sanitarie, e si è materializzata in centri di trattamento e riabilitazione, in associazioni di auto-aiuto, in pratiche consolidate e magari continuamente reinventate. Così come la critica alla psichiatria (e alla psicanalisi) tradizionale si è mescolata variamente con i contributi del femminismo, e dei gruppi omosessuali, oltre che con il discorso e la pratica post-coloniale e la autoorganizzazione delle minoranze. E c’è un rapporto fra gli eventi di allora e il nascere delle terapie alternative (di cui p.e. lo stesso Laing si interessò molto soprattutto dopo il ’70- dando così un suo contributo al libro di Stanislav e Christina Grof sul potere curativo della crisi e le emergenze spirituali).
C’è anche un’altra faccia della realtà, naturalmente (o un altro modo di considerarla): l’uso prevalente di psicofarmaci, il taglio delle risorse per i servizi sociali, una psichiatria biologica spesso terribilmente oggettivante, i problemi creati dall’uso diffuso e caotico di sostanze psicoattive, l’estensione di aree di anomia, disgregazione, povertà, sfruttamento (ignoranza), la dittatura mediatica che a volte pare coprire il pianeta, le guerre e le migrazioni forzate, e così via. Sono cose note. Diciamo che la realtà è contradditoria- come del resto è sempre stata.
3. Asylums
Il mondo degli anni ’60-’70 era molto diverso dal nostro; anche la psichiatria era diversa all’inizio di questo periodo- molto più sicura di sé, per certi aspetti sicuramente molto più bieca- anche se, naturalmente, il quadro era differenziato: c’erano stati Sullivan, la Fromm-Reichmann, la Sechehaye; negli anni ’30 Lacan aveva scritto un ammirevole libro sulla ‘psicosi paranoide nei suoi rapporti con la personalità’; c’erano la Tavistock Clinic e il William Alanson White Institute; si iniziava pure a disporre di farmaci capaci a volte di ottenere risultati impensati sulle patologie; lo sviluppo stesso della cibernetica (oltre che della socializzazione complessiva del sistema sociale e produttivo) agevolò l’emergere di una attenzione rivolta alle interazioni di gruppo più che agli elementi isolati. Iniziarono alcune esperienze timidamente riformatrici.- Però per esempio il manicomio di Wahington, ove Goffman trascorse un anno intero per la ricerca che portò ad ‘Asylums’, aveva 6000 ricoverati (10000 in quello dell’isola greca di Lero negli anni ’70); e le condizioni degli ospedali psichiatrici erano spesso davvero sconvolgenti. Già a suo tempo i surrealisti si erano scagliati contro la psichiatria asilare (si pensi alla conclusione di ‘Nadja’ di Breton). Ma adesso si crearono svariati gruppi attivi su questo fronte- con partecipazione di tecnici, studenti, ‘pazienti’. Erano del resto gli anni attorno al ’68- che fu un fenomeno di crisi sistemica mondiale delle società capitalistiche avanzate (e non solo di queste). La protesta contro un mondo ossificato e assurdo fu diffusissima; necessariamente coinvolse anche la psichiatria, con accentuazioni, vicende, agencements molto diversi da luogo a luogo- sempre comunque nell’ambito di un clima comune. Nella discussione che segue parlerò (in rapporto a Sartre) di tre esperienze diversissime fra loro ma tutte molto significative: Franco Basaglia; l’antipsichiatria inglese; l’SPK di Heidelberg.- Molto resta fuori: la psicoterapia istituzionale di Oury a La Borde (da cui prese il via Felix Guattari); il libro di Phyllis Chesler (‘Donne e pazzia’); il contributo specifico di Foucault; ‘Il mito della malattia mentale’ di Szasz, e così via; la stessa Italia non si riduce certo alla figura di Franco Basaglia e della sua cerchia. ‘E comunque una scelta rappresentativa, credo, di un clima complessivo.
4. Basaglia
Franco Basaglia veniva dalla fenomenologia e dal pensiero esistenzialista. In tutti gli anni in cui- a Gorizia, a Colorno, a Trieste- si trovò a gestire (e trasformare radicalmente) servizi psichiatrici e manicomi la figura di Sartre funzionò per lui (erano gli anni della “gloria” di Sartre, come la chiama Bernard-Henry Lévy all’inizio del suo libro) come istanza etica, come interlocuzione critica, come fondamentale agente di legittimazione. Così in un’opera come ‘Crimini di pace’, del ’75, Sartre è onnipresente; e in tutti gli interventi di Basaglia sono molteplici i richiami a lui; da ‘Che cos’è la letteratura’ si desume il richiamo agli intellettuali, ai tecnici del sapere pratico a mettersi al servizio degli oppressi; e da Fanon (mediato da Sartre e dalla sua celebre introduzione), oltre che dall’’Essere e il nulla’ e dalle altre opere sue e scelte concrete di impegno, la spinta a esaminare le tecniche non solo di oppressione ma anche di negazione dell’identità e della esperienza interna (nei confronti dei folli e degli esclusi non meno che dei colonizzati), e il significato fondante che esse hanno nella definizione dell’essere stesso dei dominanti; il carattere violento della ‘normalità’; il ritenere infine necessaria e possibile una trasformazione sociale e culturale globale, che coinvolga tutti i settori dell’esistenza.
Nella attività di Basaglia, la psichiatria comunitaria di Maxwell Jones, la psichiatria di settore francese vengono stravolti da un processo antigerarchico ed antiistituzionale, capace di mettere in moto radicali trasformazioni nei soggetti e nelle strutture; mentre fondamentale (e fondante) è il contatto con momenti autonomi di presenza (i ‘volontari’) e con aggregazioni e forze sociali e intellettuali, sollecitando una moltiplicazione degli interlocutori e dei soggetti agenti (si pensi all’uso realmente democratico delle assemblee, al mutamento oggettivo e soggettivo del ruolo dei ricoverati o del corpo curante, al rapporto così importante con una figura come quella di Mario Tommasini o il movimento studentesco di Medicina di Parma).
Nella lunga intervista del ’72 a Sartre sulla psichiatria, riportata in ‘Crimini di pace’, vi è una netta differenza di posizioni: Sartre insiste (in termini più morbidi, ma non sostanzialmente diversi da quelli della contemporanea lettera ai ‘compagni dell’SPK’- per la quale si veda dopo) sulla necessità della autoorganizzazione e della azione diretta, immediatamente politica- mentre Basaglia è molto più interessato alla governance e alla stabilizzazione dei processi trasformativi ( radicali!) innescati; intatto è comunque il suo tono di profonda deferenza nei confronti del filosofo.
Nel numero di Aut Aut da lei curato su ‘Basaglia a Colorno’, Giovanna Gallio scrive a un certo punto (si parla dell’inizio del 1971, nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Colorno, appunto): ‘Ricordo Basaglia in una stanza non grande, dipinta di bianco, mentre parla sporgendosi da un tavolo anch’esso bianco, con dietro un grande ritratto di Jean-Paul Sartre. Era l’unico arredo, insieme forse ad un divano nero e ad alcune sedie sparse qua e là…’ (p. 63). Partito Basaglia quello stesso ‘71, il quadro, mi pare, rimase.
5. La politica dell’esperienza
Il gruppo inglese (Laing, Cooper, Esterson, Schatzman etc) seppe negli anni ’60 sviluppare un discorso teorico di penetranza estrema, e pure mettere in moto esperienze alternative alla psichiatria tradizionale. ‘E rimasta celebre Kingsley Hall, un centro in cui agli psicotici si cercava, al di là di qualunque gerarchia o oggettivazione, di agevolare il passaggio attraverso la pazzia[5]. Questa era intesa da una parte come espressione di una etichettatura sociale, poi come risposta di una mente/corpo a situazioni invivibili; come processo capace di portare non solo a guarigione ma anche a un superiore livello di integrazione; come modalità esperienziale suscettibile di dare profondi insight al soggetto, e preziosi insegnamenti alla società nel suo complesso (se solo questa avesse accettato il confronto). Il tutto si inseriva in una ricca messe di studi in corso a livello internazionale sulle dinamiche e sul concetto della schizofrenia (cfr. il libro di Boszormenyi-Nagy e Framo), e aveva base in una salda preparazione psicoterapica e filosofica, oltre che in notevoli doti umane, e in una esperienza clinica vastissima. Per tutta una fase il gruppo esercitò una quasi-egemonia intellettuale; espressione ne fu tra l’altro il congresso di 15 giorni ‘Dialettica della liberazione’ che si tenne a Londra nel ’67 (da cui fu tratto un libro); furono presenti e tennero relazioni, oltre a Cooper e a Laing, figure come Marcuse, Paul Sweezy, Lucien Goldmann, il filosofo jugoslavo Petrovic, John Gerassi (il biografo di Sartre), Bateson, Stokely Carmichael (leader delle Pantere Nere), Ginsberg, Julian Beck del Living Theatre, Paul Goodman, Jules Henry, Paul Edwards; parteciparono inoltre folti gruppi di studenti e non provenienti da vari paesi (fra cui Bernward Vesper, l’autore di ‘Die Reise’). L’introduzione venne tenuta da David Cooper, che insistette sulla dimensione politico/culturale del problema (non si trattava di guarire malati, ma di andare verso la liberazione da una società violenta e disumana). Si delineò già allora il passaggio di Laing a una posizione distinta, con il suo sempre maggior interesse per esperienza psichedelica/esperienza trascendentale, mentre vi era una scissione in fieri fra gli apostoli di un cambiamento radicale ottenuto tramite azione politica diretta e trasformazione personale accelerata (cfr. l’articolo di David Gale, ex paziente di Cooper) e chi pensava a un lavoro di più vasta portata e meno immediatamente dirompente.- A ogni modo, la lettura di Sartre fatta dal gruppo inglese fu completamente diversa da quella di F. Basaglia, con un utilizzo della fenomenologia dei rapporti con altri e con sé stessi (basandosi sull’’Essere e il nulla’ e sulle opere successive) per esplicitare le varie modalità intrasoggettive ed interpersonali di inautenticità: insicurezza ontologica, sistema del falso Io, elusione, complementarietà (=dipendenza), disconferma, oggettivazione, trasformazione di una prassi in un processo, mistificazione, assoggettamento ai valori del gruppo (il ‘serment’) assunto come valore primario, nexus famigliare, caduta nella serialità. Cooper riprese l’espressione sartriana ‘emorragia di essere’ [6]per illustrare gli effetti distruttivi della interazione. Si analizzarono i rispecchiamenti multipli (io penso che tu pensi che io penso…), la attribuzione (prescrizione) di stati interni, il doppio legame. E tutto questo venne sviluppato in modo estremamente raffinato, partendo dalla tradizione di Minkowski, Binswanger, Tillich, Bultmann- con riferimenti a autori come Dostoievsky, Genet, Kafka, Kierkegaard, oltre che dalla scuola psicanalitica inglese- e appunto con una conoscenza molto approfondita e sofisticata dell’opera di Sartre. Alla sua filosofia post-1950 Laing e Cooper dedicarono un libro intero, ‘Reason and violence’, del ’64- con trattazione di ‘Saint Genet’, di ‘Questioni di metodo’, e della ‘Critica della ragione dialettica’. Per questo libro Sartre scrisse una significativa prefazione:
“Ho letto con attenzione l’opera che mi avete inviato, e ho avuto il grande piacere di trovarvi una esposizione molto chiara e molto fedele del mio pensiero. Più ancora della vostra perfetta comprensione della ‘Critica della ragione dialettica’, quello che mi seduce in questo libro, come nelle vostre opere precedenti, è la vostra preoccupazione costante di realizzare un approccio ‘esistenziale’ ai malati mentali. Penso come voi che non si possono comprendere i disturbi psichici dal di fuori, a partire dal determinismo positivista- né ricostruirli con una combinazione di concetti che restino esterni alla malattia vissuta. Credo anche che non si può né studiare né guarire una nevrosi senza un rispetto di base per la persona del paziente, senza uno sforzo costante di comprendere e rivivere la sua situazione di base, senza il tentativo di ritrovare la risposta a questa situazione della persona; e ritengo- come voi, credo- che la malattia mentale è la via d’uscita che il libero organismo, nella sua unità totale, inventa per potere vivere una situazione invivibile. Per questa ragione attribuisco la più grande importanza alle vostre ricerche, in particolare allo studio che state tentando di fare dell’ambiente famigliare, preso come gruppo e come serie- e sono convinto che i vostri sforzi contribuiscono ad avvicinarci al tempo in cui la psichiatria sarà, infine, umana.”
[RV, p.7]
E pure molto significativo è il modo in cui Laing nel ’64 presentò la edizione Penguin de ‘L’Io diviso’, la sua prima opera (‘uno studio esistenziale di salute e follia’)- originariamente pubblicata, cinque anni prima, dalla Tavistock Clinic:
“Non si può dire tutto in una volta sola. Quando ho scritto questo libro avevo ventotto anni: volevo soprattutto dimostrare che, contrariamente a quello che generalmente si crede, è possibilissimo capire gli psicotici. Ciò comportava già per me la necessità di capire il loro contesto sociale, e particolarmente la distribuzione del potere nella loro famiglia: anche così, e anche limitatamente al mio tentativo di rappresentare un certo tipo di esistenza schizoide, oggi mi accorgo di essere in parte caduto nella trappola che volevo evitare. In questo libro si parla ancora troppo di loro, e ancora troppo poco di noi.
Freud ha detto che la nostra è una civiltà repressiva, in cui le esigenze che spingono all’adattamento e al conformismo e quelle delle nostre energie istintuali, esplicitamente sessuali, sono in conflitto fra loro. Freud riteneva che non vi fosse soluzione per questo antagonismo, ed era convinto che, al giorno d’oggi, non vi potesse essere più alcuna possibilità di amore semplice e naturale fra gli esseri umani.
La nostra civiltà non reprime soltanto gli ‘istinti’ o la sessualità, ma anche ogni forma di trascendenza. Fra uomini a una dimensione (cfr. H. Marcuse, ‘L’uomo a una dimensione’) non c’è da meravigliarsi se qualcuno, avendo esperienze insistenti di altre dimensioni e non potendo né rinnegarle né dimenticarle completamente, è disposto a correre il rischio di farsi distruggere dagli altri o di tradire ciò che conosce.
Nel contesto della follia che attualmente ci circonda, e che chiamiamo normalità, salute, libertà, tutti i nostri sistemi di riferimento sono destinati a restare ambigui ed equivoci.
Un uomo che preferisce la morte al comunismo è normale; ma uno che dice di aver perduto la sua anima è matto. Un uomo che dice che gli uomini sono macchine può essere un grande scienziato; ma uno che dice di essere lui stesso una macchina è, nel gergo psichiatrico, ‘depersonalizzato’. Un uomo che dice che i negri sono una razza inferiore può ottenere stima e rispetto; ma uno che dice che la bianchezza della sua pelle è una forma di cancro perde i diritti civili.
Una ricoverata, una ragazzina di diciassette anni, mi disse una volta di essere in preda al terrore perché aveva dentro di sé una bomba atomica. Questo è un delirio: ma gli uomini di stato che vantano minacciosamente il possesso dell’arma finale sono di gran lunga più pericolosi e più estraniati dalla ‘realtà’ di molti ai quali è stata applicata l’etichetta di ‘psicotico’.
La psichiatria può mettersi dalla parte della trascendenza, della libertà vera, del genuino sviluppo umano: alcuni psichiatri sono già di fatto da questa parte. Ma è estremamente facile per la psichiatria ridursi ad essere una tecnica di lavaggio del cervello: un metodo per produrre, mediante torture preferibilmente non dolorose, degli esseri dalla condotta ben adattata. Nei luoghi di cura migliori, dove la camicia di forza è stata abolita, dove le porte sono senza chiavistelli, dove le leucotomie non si fanno quasi più, si usano tuttavia mezzi di aspetto più innocuo, lobotomie e tranquillanti che ri-istituiscono, questa volta dentro il paziente, le sbarre e i catenacci del manicomio. Ecco perché voglio ripetere che il nostro stato ‘normale’ e ‘ben adattato’ non è, molto spesso, che una rinuncia all’estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità; e che molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io, per adattarsi a false realtà.
Ma per ora basta. Questa è l’opera di un uomo giovane e vecchio al tempo stesso: oggi sono più vecchio, ma sono anche più giovane.
Londra, settembre 1964”
[“L’io diviso”, pag. 15-16]
Successivamente, come ho accennato, le strade del gruppo si divisero, con Laing in particolare che iniziò un lungo vagabondaggio intellettuale e spirituale (cfr. l’articolo di Itten); Cooper, per parte sua, passando per una drammatica crisi esistenziale-spirituale, ebbe la forza di scrivere un testo veramente di frontiera come ‘La morte della famiglia’.- Il contributo del gruppo al geist degli anni ’70 rimase, e fu estremamente importante (si vedano per esempio i riferimenti a Laing e Cooper in ‘Movimento a più voci’ di Maria Schiavo); Cooper si era trasferto a Parigi, dove lavorò fino alla morte a stretto contatto con Foucault, Guattari etc.; Laing, dopo soggiorni e viaggi in Oriente e altrove, approdò all’Austria (e all’alcool, come si sa).
6. Distruggi quello che ti distrugge
“La nostra pratica ha dimostrato come l’azione debba svilupparsi a partire dalla sofferenza. I bisogni dell’individuo sono presi per quello che sono, come prodotti specifici, non misurabili con criteri esterni: si tratta, attraverso un lavoro collettivo, di sviluppare le loro contraddizioni immanenti. Da ciò si impone un superamento, ed è così che ciascuno è portato a sentire la necessità soggettiva di rovesciare i rapporti esistenti.- ‘E importante quindi spiegare che spiriti e corpi sono programmati dal capitalismo, che la miseria personale si identifica con le contraddizioni della società, che il passaggio da oggetto a soggetto storico si potrà realizzare solo collettivamente. Così la protesta inibita che i sintomi della malattia fanno intravedere si risolverà nella dialettica individuo-società. I sentimenti repressi dei pazienti (cioè di coloro che soffrono coscientemente) libereranno l’energia necessaria all’azione che innescherà la bomba necessaria per far saltare in aria il sistema dominante di assassinio permanente. In questo modo l’agitazione si fa azione, è la messa in moto di un processo unico di rivoluzione della coscienza e della realtà”.
[FDMA, p. 34]
“La malattia: tesi e principi dell’SPK.
- la malattia è la condizione e il risultato dei rapporti di produzione capitalisti.
- come condizione dei rapporti di produzione, la malattia è forza produttiva per il capitale.
- come risultato dei rapporti di produzione capitalisti, la malattia è, nelle sue forme di sviluppo di protesta della vita contro il capitale, forza produttiva rivoluzionaria per gli uomini.
- la malattia è la sola forma di “vita” possibile sotto il dominio del capitale.
- malattia e capitale sono identità: l’intensità e l’estendersi della malattia aumentano nella misura in cui si ammortizza il capitale, movimento che va di pari passo con la distruzione del lavoro umano o distruzione del capitale umano.
- i rapporti di produzione capitalisti implicano la trasformazione del lavoro vivente (creatività) in materiale morto (merci, capitali). La malattia è l’espressione di questo processo in perpetua estensione centrifuga.
- come disoccupazione velata e sotto la forma di assistenza sociale, la malattia è il tampone delle crisi nello sviluppo capitalista.
- l’inibizione, la malattia cioè nella sua forma non sviluppata, è la prigione interiore dell’individuo.
- se si toglie all’organizzazione degli Istituti di Sanità l’amministrazione, l’utilizzazione e la conservazione della malattia e se la malattia prende forma di resistenza collettiva dei pazienti, lo Stato è allora obbligato a reagire e a sostituire alla mancanza di una prigione interiore delle vere e proprie prigioni esterne.
- le istituzioni sanitarie si occupano della malattia ad una sola condizione: che il paziente non abbia alcun diritto.
- la salute è una chimera biologico-fascista che ha la funzione di nascondere la necessità sociale della malattia e di nascondere altresì la propria funzione agli occhi degli abbrutiti e di coloro che abbrutiscono.”[FDMA, p.17-18]
Il Collettivo Socialista dei Pazienti di Heidelberg (SPK) nacque dal lavoro portato avanti da alcuni medici della Clinica Psichiatrica Universitaria di Heidelberg –guidati dal Dr. Wolfgang Huber- nel dopo-’68. Si sviluppò fra il ’70 e il ’71, giungendo fino ad avere 500 membri (pazienti, operatori sanitari, studenti, lavoratori). Riuscì inizialmente a ottenere- a prezzo di aspre lotte- una certa copertura istituzionale, che saltò a metà 1971. L’attività terapeutica- condotta in ‘sedute di agitazione’ sia individuali che collettive (e accompagnata da gruppi di studio teorici) partiva dal presupposto che non vi era distinzione di fondo fra malato e sano, né fra curante e curato; che la messa in comune della sofferenza e delle esperienze avrebbe permesso sia una elevazione del livello di coscienza politica che un calo del malessere. Si utilizzavano Hegel, Marx, Lukacs.
Per un certo tempo le cose parvero funzionare bene, l’influsso dell’SPK crebbe, così come le simpatie di cui godeva in ambienti intellettuali di sinistra. La repressione crescente e la politicizzazione sempre più spinta fecero sì, pare accertato, che al progetto originario si sovrapponesse una attività coperta di vera e propria preparazione alla lotta armata. Furono organizzati gruppi che falsificavano documenti, altri di addestramento alle armi da fuoco etc; si svilupparono contatti con la RAF (Rote Armee Fraktion, la c.d. banda Baader-Meinhof). Dopo l’incarcerazione di parecchi degli elementi più attivi, molti passarono nella clandestinità, entrando nella RAF vera e propria (nomi famosi come Elisabeth von Dyck, uccisa nel ’79, Sieglinde Hofmann, Klaus Jünschke ). Uno di questi, Siegfried Hausner, uno studente di 23 anni, prese parte nel 1975 alla occupazione della ambasciata tedesca di Stoccolma, morendo poi in prigione in conseguenza delle ferite riportate nell’assalto delle teste di cuoio tedesche. In suo nome era intitolato il gruppo della RAF (commando Siegfried Hausner) che nel settembre del ’77 rapì il presidente della Confindustria tedesca Schleyer (ucciso 45 giorni dopo), dando il via al terribile autunno tedesco.
Nel suo carattere estremo, sono comunque significativi i rapporti fra l’esperienza dell’SPK e altre di lotta antiistituzionale. Attribuire alla società capitalistica e ai suoi funzionari pagati l’origine di miseria e sofferenza era qualcosa di molto diffuso in quegli anni. Notevole il carattere di gruppo per certi aspetti autoreferenziale, e dall’altro il passaggio dalle armi della critica alla critica delle armi- che non era comunque qualcosa di assolutamente isolato nella Repubblica Federale Tedesca di allora.
Sartre scrisse, quasi un anno dopo i primi arresti, una lunga lettera di solidarietà, che fu poi usata come prefazione per le nuove edizioni del più importante scritto teorico dell’SPK, ‘Fare della malattia un’arma’. La lettera, credo, merita di essere letta integralmente:
“Cari compagni!
Ho letto il vostro libro con il più grande interesse. Vi ho trovato non solo l’unica radicalizzazione possibile dell’antipsichiatria ma anche una pratica coerente intesa a sostituirsi alla pretesa “cura” della malattia mentale.
A quello che Marx chiama l’alienazione, fatto generale in una società capitalistica, pare che voi diate il nome di malattia, per esprimersi in termini grossolani. Credo che abbiate ragione. Nel 1845, Engels scriveva nella ‘Situazione della classe operaia in Inghilterra’: “l’industrializzazione ha creato un mondo siffatto che solo una razza di umanità disumanizzata, degradata, abbassata a un livello bestiale, tanto dal punto di vista intellettuale che morale, può adattarvisi.”
Visto che le forze atomizzanti agiscono in modo sistematico per degradare (all’interno e all’esterno) in sotto-uomini una classe di uomini, si può comprendere come l’insieme delle persone di cui parla Engels siano state colpite dalla “malattia”- malattia che si può assieme concepire globalmente come una danno che si è fatto subire ai salariati e come una rivolta della vita contro questo danno che tende a ridurli alla condizione di oggetto. Dal 1845 le cose sono profondamente cambiate ma l’alienazione resta, e resterà fin quando esisterà il regime capitalistico, poiché essa è, come voi dite, “condizione e risultato” della produzione economica. La malattia, voi dite, è la sola forma di vita possibile nel capitalismo. Di fatto lo psichiatra, che è un salariato, è un malato come tutti. Soltanto che la classe dirigente gli dà il potere di “guarire” e di internare. La “guarigione”, va da sé, non può essere, nel nostro regime sociale, la eliminazione della malattia: è la capacità di continuare a produrre rimanendo ammalato. Nella nostra società vi sono dunque i sani ed i guariti (due categorie di ammalati che ignorano di esserlo, e che osservano le norme della produzione), e dall’altra parte gli “ammalati” riconosciuti, coloro che una rivolta contradditoria rende incapaci di produrre in cambio di un salario, e che vengono consegnati allo psichiatra. Questo poliziotto inizia con il metterli fuori legge rifiutando loro i diritti più elementari. ‘E naturalmente complice delle forze atomizzanti: considera i casi individuali isolatamente, come se i disturbi psiconevrotici fossero delle tare proprie e certe soggettività, dei destini peculiari. Unendo allora ammalati che paiono somigliare fra loro in quanto singolarità egli studia dei comportamenti diversi – che non sono che effetti- e li lega fra loro, creando delle entità nosologiche che tratta come singole malattie, e che poi procede a classificare. L’ammalato è dunque atomizzato in quanto malato, e rigettato in una categoria particolare (schizofrenia, paranoia, etc.) nella quale si trovano altri malati che non possono avere alcun rapporto sociale con lui dato che sono tutti considerati esemplari identici della stessa psiconevrosi. Voi, invece, vi siete proposti di giungere- al di là della varietà degli effetti- al fatto fondamentale e collettivo: la malattia “mentale” è indissolubilmente legata al sistema capitalistico che trasforma la forza lavoro in merce e, di conseguenza, i salariati in cose (Verdinglichung). Vi pare che l’isolamento degli ammalati non può che portare avanti l’atomizzazione iniziata a livello dei rapporti di produzione e che, nella misura in cui i pazienti nella loro rivolta reclamano oscuramente una società diversa, è bene che essi stiano insieme e agiscano l’uno sull’altro e tramite l’altro- in breve che costituiscano un collettivo socialista.
E, poiché lo “psichiatra” è anche lui un malato, voi rifiutate di considerare malato e medico come due individui organicamente separati: questa distinzione, in effetti, ha sempre avuto l’effetto di rendere lo “psichiatra” il solo significante, e il malato isolato e messo fuori legge l’unico significato, quindi puro oggetto. Voi considerate, al contrario, la relazione paziente-medico una relazione dialettica che si trova in ciascuno e che, secondo il corso degli avvenimenti, una volta uniti fra loro i malati manifesterà soprattutto l’uno o l’altro di questi due termini, nella misura in cui i pazienti insisteranno maggiormente sugli aspetti reazionari della malattia o prenderanno coscienza della loro rivolta e dei loro veri bisogni, negati o sfigurati dalla società. Diventa necessario- dato che la malattia, al di là degli effetti diversi, è una contraddizione comune, e dato che ogni individuo è un significante-significato- mettere assieme gli ammalati perché l’uno con l’altro isolino gli aspetti reazionari della malattia (p.e. l’ideologia borghese) e gli elementi progressisti (esigenza di una società diversa il cui fine supremo sia l’uomo e non più il profitto). Va da sé che questi collettivi non mirano a guarire, dato che la malattia è prodotta in ogni uomo dal capitalismo, e dato che la “guarigione” psichiatrica non è che un reinserimento dei malati nella nostra società- ma tendono a spingere la malattia verso il suo sviluppo, cioè verso il momento in cui diventerà, tramite la presa di coscienza comune, una forza rivoluzionaria.
Quello che mi pare rimarchevole nell’SPK è che i pazienti senza un medico individuale- cioè senza un polo individuale dei significati- stabiliscono delle relazioni umane e si aiutano reciprocamente a una presa di coscienza della situazione guardandosi negli occhi, cioè in quanto soggetti significanti-significati, mentre nella forma modernista della psichiatria, la psicanalisi, il malato non guarda nessuno ed il medico è posto dietro a lui per registrare le sue dichiarazioni e ordinarle a suo piacimento- con questa determinazione spaziale del rapporto paziente-medico che mette il primo nella condizione di puro oggetto e fa del secondo il significante assoluto, che decifra il discorso della malattia con un’ermeneutica di cui pretende di possedere lui solo il segreto.
Sono felice di aver compreso il progresso reale costituito dall’SPK. Apprezzando le vostre ricerche, capisco anche che esse vi espongono alla peggiore repressione della società capitalistica. E che esse devono scatenare contro di voi, oltre ai rappresentanti della “cultura”, politici e poliziotti. Dovrete lottare in tutti i modi, poiché coloro che dirigono la nostra società intendono impedirvi di portare avanti le vostre pratiche. Non fosse che accusandovi gratuitamente di complotto criminale. Non è sulla base di stupide incarcerazioni che sarete giudicati, ma sulla base dei risultati che avrete ottenuto.
17 aprile 1972
Jean-Paul Sartre”
[l’originale autografo è riprodotto sul sito dell’SPK]
Sartre era nel pieno della sua fase maoista. Qualche anno più tardi, avrebbe usato termini e toni molto più critici e sommessi riferendo dell’incontro che nel dicembre ’74 ebbe nel carcere di Stammheim con Andreas Baader. Non di meno, riletta adesso, la lettera è di una durezza sconvolgente.
7.
In una intervista Foucault disse di considerare Sartre un uomo del XIX secolo che cercava di pensare il XX. ‘Glas’ di Derrida soprassedè ‘Saint Genet’ (senza mai menzionarlo). Ne ‘L’AntiOedipe’ e ‘Mille Plateaux’ di Deleuze e Guattari Sartre è praticamente assente; spicca un lungo riferimento a ‘L’homme au magnétophone’ (MP, 65); poco più altro. (‘Speculum. De l’autre femme’ della Irigaray apparve nel ’74, ‘SCUM’ di Valerie Solanas già nel ‘67). Il panorama è diverso, la posta un’altra.
APPENDICE
a) Sulla psicanalisi esistenziale. Da ‘L’être et le néant’:
Il s'agit au contraire de retrouver, sous des
aspects partiels et incomplets du sujet, la véritable concrétion qui ne
peut être que la totalité de son élan vers l'être, son rapport originel à
soi, au monde et à l'autre, dans l'unité de relations internes et d'un
projet fondamental. Cet élan ne saurait être que purement individuel
et unique; loin de nous éloigner de la personne, comme le fait, par
exemple, l'analyse de Bourget qui constitue l'individuel par sommation
de maximes générales, il ne nous fera pas trouver sous le besoin
d'écrire - et d'écrire de tels livres - le besoin d'activité en général:
mais, au contraire, repoussant également la théorie de la glaise docile
et celle du faisceau de tendances, nous découvrirons la personne dans
le projet initial qui la constitue . C'est pour cette raison que se
dévoilera avec évidence l'irréductibilité du résultat atteint: non parce
qu'il est le plus pauvre et le plus abstrait, mais parce qu'il est le plus
riche; l'intuition ici sera saisie d'une plénitude individuelle.
[605]
Psychanalyse empirique et psychanalyse existentielle recherchent
l'une et l'autre une attitude fondamentale en situation qui ne saurait
s'exprimer par des définitions simples et logiques, parce qu'elle est
antérieure à toute logique, et qui demande à être reconstruite selon des
lois de synthèse spécifiques. La psychanalyse empirique cherche à
déterminer le complexe, dont le nom m ême indique la polyvalence de
toutes les significations qui s'y rapportent. La psychanalyse existentielle
cherche à déterminer le choix originel. Ce choix originel
s'opérant face au monde et étant choix de la position dans le monde est
totalitaire comme le complexe ; il est antérieur à la logique comme le
complexe ; c'est lui qui choisit l'attitude de la personne en face de la
logique et des principes ; il n'est donc pas question de l'interroger
conformément à la logique. Il ramasse en une synthèse prélogique la
totalité de l'existant et, comme tel, il est le centre de références d'une
infinité de significations polyvalentes.
[615]
Cette comparaison nous permet de mieux comprendre ce que doit
être une psychanalyse existentielle, si elle doit pouvoir exister. C'est
une méthode destinée à mettre en lumière, sous une forme rigoureusement
objective, le choix subjectif par lequel chaque personne se fait
personne, c'est-à-dire se fait annoncer à elle-même ce qu'elle est. Ce
qu'elle cherche étant un choix d'être en même temps qu'un être, elle
doit réduire les comportements singuliers aux relations fondamentales,
non de sexualité ou de volonté de puissance, mais d 'être qui
s'expriment dans ces comportements. Elle est donc guidée dès
l'origine vers une compréhension de l'être et ne doit s'assigner d'autre
but que de trouver l'être et la manière d'être de l'être en face de cet
être. Avant d'atteindre ce but, il lui est interdit de s'arrêter. Elle
utilisera la compréhension de l'être qui caractérise l'enquêteur en tant
qu'il est lui-même réalité-humaine; et comme elle cherche à dégager
l'être de ses expressions symboliques, elle devra réinventer à chaque
fois , sur les bases d'une étude comparative des conduites, une
symbolique destinée à les déchiffrer. Le critère de la réussite sera
pour elle le nombre de faits que son hypothèse permet d'expliquer et
d'unifier, comme aussi l'intuition évidente de l'irréductibilité du
terme atteint. A ce critère s'ajoutera, dans tous les cas où cela sera
possible , le témoignage décisoire du sujet. Les résultats ainsi atteints
- c'est-à-dire les fins dernières de l'individu - pourront alors faire
l'objet d'une classification et c'est sur la comparaison de ces résultats
que nous pourrons établir des considérations générales sur la réalité-humaine
en tant que choix empirique de ses propres fins. Les
conduites étudiées par cette psychanalyse ne seront pas seulement les
rêves, les actes manqués, les obsessions et les névroses mais aussi et
surtout les pensées de la veille, les actes réussis et adaptés, le style,
etc. Cette psychanalyse n'a pas encore trouvé son Freud ; tout au plus
peut-on en trouver le pressentiment dans certaines biographies
particulièrement réussies. Nous espérons pouvoir tenter d'en donner
ailleurs deux exemples, à propos de Flaubert et de Dostoïevsky. Mais
il nous importe peu, ici, qu'elle existe: l'important pour nous c'est
qu'elle soit possible .
[620]
La psychanalyse existentielle va lui découvrir le but réel de sa
recherche qui est l 'être comme fusion synthétique de l'en-soi avec le
pour-soi; elle va le mettre au fait de sa passion. A vrai dire , il est
beaucoup d 'hommes qui ont pratiqué sur eux-mêmes cette psychanalyse,
et qui n'ont pas attendu de connaître ses principes, pour s'en
servir comme d'un moyen de délivrance et de salut. Beaucoup
d'hommes savent, en effet, que le but de leur recherche est l'être ; et,
dans la mesure où ils possèdent cette connaissance, ils négligent d e
s'approprier les choses pour elles-mêmes et tentent de réaliser
l'appropriation symbolique de leur être-en-soi. Mais dans la mesure
où cette tentative participe encore de l'esprit de sérieux et où ils
peuvent croire encore que leur mission de faire exister l'en-soi-pour-soi
est écrite dans les choses, ils sont condamnés au désespoir, car ils
découvrent en même temps que toutes les activités humaines sont
équivalentes - car elles tendent toutes à sacrifier l'homme pour faire
surgir la cause de soi - et que toutes sont vouées par principe à
l'échec. Ainsi revient-il au même de s'enivrer solitairement ou de
conduire les peuples. Si l'une de ces activités l'emporte sur l'autre, ce
ne sera pas à cause de son but réel, mais à cause du degré de
conscience qu'elle possède de son but idéal; et, dans ce cas, il arrivera
que le quiétisme de l'ivrogne solitaire l'emportera sur l'agitation vaine
du conducteur de peuples.
Mais l'ontologie et la psychanalyse existentielle (ou l'application
spontanée et empirique que les hommes ont toujours faite de ces
disciplines) doivent découvrir à l’agent moral qu'il est l'être par qui les
valeurs existent. C'est alors que sa liberté prendra conscience d'elle même
et se découvrira dans l 'angoisse comme l'unique source de la
valeur, et le néant par qui le monde existe. Dès que la quête de l'être
et l'appropriation de l'en-soi lui seront découvertes comme ses
possibles, elle saisira par et dans l'angoisse qu'ils ne sont possibles que
sur fond de possibilité d'autres possibles. Mais jusque-là, encore que
les possibles pussent être choisis et révoqués ad libitum, le thème qui
faisait l'unité d e tous les choix de possibles, c'était la valeur ou
présence idéale de l'ens causa sui. Que deviendra la liberté, si elle se
retourne sur cette valeur ? L'emportera-t-elle avec elle, quoi qu'elle
fasse et dans son retournement même vers l'en-soi-pour-soi, serat-
elle ressaisie par-derrière par la valeur qu'elle veut contempler ? Ou
bien, du seul fait qu'elle se saisit comme liberté par rapport à elle même,
pourra-t-elle mettre un terme au règne de la valeur? Est-il
possible, en particulier, qu'elle se prenne elle-même pour valeur en
tant que source de toute valeur ou doit-elle nécessairement se définir
par rapport à une valeur transcendante qui la hante ? Et dans le cas où
elle pourrait se vouloir elle-même comme son propre-possible et sa
valeur déterminante, que faudrait-il entendre par là ? Une liberté qui
se veut liberté, c'est en effet un être-qui-n'est-pas-ce-qu'il-est et qui est-
ce-qu'il-n'est-pas, qui choisit, comme idéal d'être, l'être-ce-qu'i1-
n'est-pas et le n 'être-pas-ce-qu'il-est. Il choisit donc non de se
reprendre, mais de se fuir, non de coïncider avec soi, mais d'être
toujours à distance de soi . Que faut-il entendre par cet être qui veut
se tenir en respect, être à distance de lui-même ? S'agit-il de la
mauvaise foi ou d'une autre attitude fondamentale ? Et peut-on vivre
ce nouvel aspect de l 'être ? En particulier, la liberté, en se prenant
elle-même pour fin, échappera-t-elle à toute situation ? Ou, au
contraire, demeurera-t-ell e située ? Ou se situera-t-elle d'autant plus
précisément et d'autant plus individuellement qu'elle se projettera
davantage dans l'angoisse comme liberté en condition et qu'elle
revendiquera davantage sa responsabilité, à titre d'existant par qui le
monde vient à l'être ? Toutes ces questions, qui nous renvoient à la
réflexion pure et non complice, ne peuvent trouver leur réponse que
sur le terrain moral. Nous y consacrerons un prochain ouvrage.
[EN 674-676]
b) è orribile per una coscienza diventare vischiosa.
Mais le visqueux
offre une image horrible: il est horrible en soi de devenir visqueuse
pour une conscience. C'est que l'être du visqueux est adhérence
molle et, par ventouses de toutes ses parties, solidarité et complicité
sournoise de chacune avec chacune, effort vague et mou de chacune
pour s'individualiser, que suit une retombée, un aplatissement vidé
de l'individu, sucé de toute part par la substance. Une conscience
qui deviendrait visqueuse se transformerait donc par empâtement de
ses idées. Nous l'avons dès notre surgissement dans le monde, cette
hantise d'une conscience qui voudrait s'élancer vers le futur, vers
un projet de soi et qui se sentirait, dans le moment même où elle
aurait conscience d'y parvenir, retenue sournoisement, invisiblement
par la succion du passé et qui devrait assister à sa lente dilution
dans ce passé qu'elle fuit, à l'invasion de son projet par mille
parasites jusqu'à ce qu'enfin elle se perde complètement elle-même.
De cette horrible condition, le “vol de la pensée” des psychoses
d'influence nous donne la meilleure image. Mais qu'est-ce donc
que traduit cette crainte , sur le plan ontologique, sinon justement
la fuite du pour-soi devant l'en-soi de la facticité, c'est-à-dire
justement la temporalisation? L'horreur du visqueux c'est l'horreur
que le temps ne devienne visqueux, que la facticité ne progresse
continûment et insensiblement et n'aspire le pour-soi qui
« l'existe ». C'est la crainte non de la mort, non de l'en-soi pur, non
du néant, mais d'un type d'être particulier, qui n'existe pas plus que
l'en-soi-pour-soi et qui est seulement représenté par le visqueux. Un
être idéal que je réprouve de toutes mes forces et qui me hante
comme la valeur me hante dans mon être: un être idéal où l'en-soi
non fondé a priorité sur le pour-soi et que nous nommerons une
antivaleur.
Ainsi, dans le projet appropriatif du visqueux, la viscosité se révèle
soudain comme symhole d'une antivaleur, c'est-à-dire d'un type
d'être non réalisé, mais menaçant, qui va hanter perpétuellement la
conscience comme le danger constant qu'elle fuit et, de ce fait,
transforme soudain le projet d'appropriation en projet de fuite.
Quelque chose est apparu qui ne résulte d'aucune expérience
antérieure, mais seulement de la compréhension préontologique de
l'en-soi et du pour-soi et qui est proprement le sens du visqueux. En
un sens, c'est une expérience, puisque la viscosité est une découverte
intuitive; et, en un autre sens, c'est comme l 'invention d'une aventure
de l'être. A partir de là apparaît pour le pour-soi un certain danger
neuf, un mode d'être menaçant et à éviter, une catégorie concrète
qu'il retrouvera partout. Le visqueux ne symbolise aucune conduite
psychique, a priori: il manifeste une certaine relation de l'être avec
lui-même et cette relation est originellement psychisée parce que je
l'ai découverte dans une ébauche d'appropriation et que la viscosité
m'a renvoyé mon image. Ainsi suis-je enrichi, dès mon premier
contact avec le visqueux, d'un schème ontologique valable, par delà
la distinction du psychique et du non-psychique, pour interpréter
le sens d'être de tous les existants d'une certaine catégorie, cette
catégorie surgissant d'ailleurs comme un cadre vide avant l'expérience
des différentes espèces de visqueux. Je l'ai jetée dans le
monde par mon projet originel en face du visqueux, ell e est une
structure objective du monde en même temps qu'une antivaleur,
c'est-à-dire qu'elle détermine un secteur où viendront se ranger
les objets visqueux. Dès lors, chaque fois qu'un objet manifestera
pour moi ce rapport d'être, qu'il s'agisse d'une poignée de main,
d'un sourire ou d'une pensée, il sera par définition saisi comme
visqueux, c'est-à-dire que, par delà sa contexture phénoménale, il
m'apparaîtra comm e constituant, en unité avec les poix, les colles,
les miels, etc., le grand secteur ontologique de la viscosité.
[EN, 657-8]
c) 1935: Sartre e la mescalina.
“Un giorno di novembre, seduti sotto la veranda del caffè delle Mouettes a le Havre, avevamo a lungo deplorato la monotonia del nostro avvenire. Le nostre due vite erano impegnate l’una con l’altra, le nostre amicizie per sempre stabili, le nostre carriere fissate- ed il mondo continuava il suo corso. Ancora non avevamo trent’anni, e nulla di nuovo ci sarebbe mai capitato, per sempre! Di solito non prendevo troppo sul serio queste lamentazioni. Qualche volta, non di meno, cadevo giù dal mio olimpo. MI capitava, se una sera bevevo un bicchiere di troppo, di versare torrenti di lacrime; si risvegliava la mia vecchia nostalgia dell’assoluto; di nuovo scoprivo la vanità degli scopi umani, e l’imminenza della morte; rimproveravo a Sartre di lasciarsi prendere da quella odiosa mistificazione che è la vita. L’indomani restavo ancora sotto l’influsso di quella illuminazione. Un giorno, passeggiando lungo quel blocco di gesso ricoperto di erba stinta che domina la Senna, a Rouen, avemmo una lunga discussione. Sartre negava che la verità si trovasse nel vino e nei pianti; secondo lui l’alcool mi deprimeva, ed io davo in modo fallace ragioni metafisiche al mio stato. Io argomentavo che, distruggendo i controlli e le difese che di solito ci proteggono da evidenze insopportabili, l’ubriachezza mi obbligava a guardarle in faccia. Oggi penso che, in una condizione privilegiata come la mia, la vita ha in sé due diverse verità, fra le quali non si può scegliere e che bisogna affrontare insieme: la gioia di esistere, e l’orrore che ciò debba finire. Allora però io oscillavo dall’una all’altra; la seconda aveva il sopravvento solo a tratti, ma sospettavo che essa fosse la più reale.
Avevo un’altra preoccupazione: invecchiavo. Né la mia salute né il mio aspetto ne soffrivano. Ma di tanto in tanto mi lamentavo che tutto intorno a me si scoloriva: Non sento più niente, gemevo. Ero ancora capace di estasi, però avevo la sensazione di una perdita insopportabile.Il bagliore delle scoperte che avevo fatto all’uscita dalla Sorbona si era a poco a poco dileguato. La mia curiosità trovava ancora del nutrimento; ma non più novità folgoranti. Pure, intorno a me, la realtà traboccava, ma io commisi l’errore di non cercare di penetrarla; la trattenevo in schemi o miti che erano più o meno consunti: quello del pittoresco, per esempio. Mi sembrava che le cose si ripetessero perché mi ripetevo io stessa. Questa malinconia però non disturbava in modo serio la mia vita.
Sartre aveva redatto la parte critica del libro sull’immaginazione che gli aveva domandato il Professor Delacroix; aveva posto mano a una seconda parte, molto più originale, in cui riprendeva alla radice il problema dell’immagine, utilizzando le nozioni fenomenologiche di intenzionalità e di hyle; fu allora che mise a punto le prime idee chiave della sua filosofia: l’assolutà vacuità della coscienza, ed il suo potere di nullificazione. Questa ricerca, nella quale inventava insieme metodo e contenuto, prendendo dalla propria esperienza tutti i materiali, richiedeva una considerevole concentrazione; non arrestato da nessuna preoccupazione per la forma, scriveva con una rapidità estrema, sforzandosi di seguire con la penna il movimento del pensiero; diversamente dal suo lavoro letterario questa invenzione continua e accelerata lo affaticava.
Si interessava evidentemente al sogno, alle immagini ipnagogiche, alle anomalie della percezione. In febbraio, uno dei suoi antichi compagni, il Dr. Lagache, gli propose di andare all’ospedale di Sainte-Anne per farsi fare una puntura di mescalina; questa droga provocava allucinazioni, e Sartre avrebbe potuto osservarne l’effetto su sé stesso. Lagache l’avvertì che l’avventura sarebbe stata poco piacevole; però, non comportava nessun pericolo. Sartre rischiava tutt’al più di presentare per la durata di alcune ore dei ‘comportamenti bizzarri’.
Passai la giornata a Boulevard Raspail con Mme Lemaire e Paigniez. A fine pomeriggio, come d’accordo, telefonai a Sainte-Anne: con una voce impastata Sartre mi disse che la mia chiamata lo strappava a un combattimento contro delle piovre nel quale sicuramente non avrebbe avuto la meglio. Giunse mezz’ora più tardi. Lo avevano steso su un letto, in una stanza debolmente illuminata; non aveva avuto allucinazioni; ma gli oggetti che aveva attorno si deformavano in modo orribile: aveva visto degli ombrelli-avvoltoio, delle scarpe-scheletro, dei visi mostruosi; e di lato a lui, dietro, brulicavano dei granchi, dei polipi, delle cose ghignanti. Uno degli interni se ne era meravigliato: nel suo caso, aveva raccontato alla fine della seduta, la mescalina aveva avuto degli effetti del tutto differenti; aveva saltellato per praterie fiorite, in mezzo a urì meravigliose. Forse, Sartre si diceva con rincrescimento, se si fosse aspettato queste delizie, invece che degli incubi, si sarebbe poi orientato verso quelle visioni paradisiache. Ma lo avevano influenzato le predizioni di Lagache. Parlava senza gioia, osservando intanto con aria sospettosa i fili telefonici che correvano sul tappeto. In treno tacque a lungo. Portavo delle scarpe di lucertola i cui lacci terminavano in una specie di ghianda: si aspettava di vederli, da un minuto all’altro, trasformarsi in giganteschi scarabei. Ci fu anche un orang-utang, senza dubbio sospeso per le zampe al tetto della carrozza, che incollava al finestrino un volto minaccioso. Il giorno dopo Sartre era in buone condizioni, e mi parlò con distacco di Sainte-Anne.
Una delle domeniche successive Colette Audry mi accompagnò a Le Havre. Con le persone che gli piacevano Sartre si metteva sempre in mostra; fui stupita del suo malumore. Abbiamo camminato lungo la spiaggia e raccolto delle stelle di mare, quasi senza parlare. Sartre sembrava non sapere che ci stessimo a fare lì Colette ed io, né cosa ci stesse a fare lui stesso. Lo lasciai un poco irritata.
Quando lo rividi, si spiegò. Da qualche giorno gli succedeva di essere in preda all’angoscia; gli stati in cui cadeva ricordavano quelli in cui l’aveva gettato la mescalina, e di ciò era terrorizzato. Le sue percezioni si deformavano; le case avevano delle facce ghignanti, con occhi e mascelle dappertutto; non poteva impedirsi di cercare, e trovare, su ogni quadrante di orologio un volto di civetta. Beninteso sapeva che erano delle case, degli orologi; gli occhi, i ghigni- non si poteva dire che ci credesse, ma un giorno ci avrebbe creduto; un giorno si sarebbe veramente convinto che un’aragosta gli trotterellava dietro. Di già una macchia nera danzava ostinatamente nello spazio, all’altezza dei suoi occhi. Un pomeriggio passeggiavano a Rouen, sulla sponda sinistra della Senna, fra binari, cantieri, vagoni e pezzi di praterie malate; mi disse bruscamente: “lo so di cosa si tratta: sono all’inizio di una psicosi allucinatoria cronica”. Così come la si definiva allora, era una malattia che nel giro di dieci anni portava fatalmente alla demenza. Protestai energicamente e, una volta tanto, non per partito preso di ottimismo ma per buon senso. Il caso di Sartre non somigliava in nulla agli esordi di una psicosi allucinatoria. Né la macchia nera né l’ossessione delle case-mascella indicavano la nascita di una psicosi incurabile. Sapevo inoltre con quale facilità l’immaginazione di Sartre correva verso la catastrofe. “La vostra sola pazzia è di credervi pazzo”, gli dissi. “Vedrete”, rispose cupamente.
Non vidi nulla tranne un abbattimento da cui faceva la più grande fatica a sollevarsi. A volte gli riusciva. Per Pasqua andammo sui laghi italiani. Sembrava molto allegro, finchè andavamo in barca sul lago di Como, e nelle stradine di Bellagio, dove una notte vedemmo una processione con le torce. Ma tornati a Parigi non riescì più nemmeno a fingere la salute. Fernand espose dei quadri alla galleria Bonjean; durante tutta l’inaugurazione Sartre rimase seduto in un angolo, silenzioso, con il viso spento. Lui che un tempo guardava tutto non osservava più niente. Restavamo a volte fianco a fianco in un caffè o camminavamo per le strade senza scambiarci una parola. Mme Lemaire pensava che fosse esaurito; lo mandò da un medico suo amico, ma questi rifiutò di fargli dare un periodo di congedo; a suo avviso, Sartre aveva bisogno della minor quantità possibile di tempo libero, e di stare da solo il meno possibile; si limitò a prescrivergli mezza pastiglia di belladenal mattino e sera. Sartre continuò dunque a far lezione e a scrivere. Il fatto è che si perdeva con più difficoltà nelle sue paure se qualcuno era con lui. Si mise a uscire spesso con due suoi ex allievi, per i quali aveva molta amicizia: Albert Palle e Jacques Bost, fratello minore di Pierre Bost: la loro presenza lo difendeva dai crostacei. A Rouen, quando io facevo lezione, gli faceva compagnia Olga[7]; questa prendeva assolutamente sul serio il suo ruolo di infermiera. Sartre le raccontava una quantità di storie, che divertivano lei e aiutavano lui a distrarsi.
I medici hanno sostenuto che la mescalina non poteva assolutamente avere provocato quella crisi; la seduta al Sainte-Anne aveva solo fornito a Sartre certi schemi allucinatori; erano indubbiamente state la fatica e la tensione generata dalle sue ricerche filosofiche a ravvivare le sue paure. Più tardi noi abbiamo pensato che esse esprimevano un malessere profondo: Sartre non si rassegnava a passare alla ’età della ragione’, alla ‘maturità’.
Nei tempi in cui alloggiava alla Scuola Normale, vi si cantava un lamento assai carino sulla triste sorte riservata ai normalisti. Ho già raccontato con quale ripugnanza Sartre la vedeva allora. Si era bene adattato ai primi due anni di insegnamento tanto era felice di aver concluso il servizio militare: la novità di quella esistenza lo aiutava a sopportarla. A Berlino aveva ritrovato la libertà, la gioia della sua vita di studente; Tanto maggior disagio ebbe a ripiombare nella serietà e nella monotonia della condizione di adulto. La conversazione che avevamo avuto al caffè delle Mouettes non era stata per lui un chiacchierare superficialmente. Certo amava i suoi allievi, e insegnare; ma detestava avere dei rapporti con un direttore, un censore, dei colleghi, dei genitori di studenti; l’orrore che gli ispiravano i ‘porci’ non era solo un tema letterario; questo mondo borghese di cui si sentiva prigioniero lo opprimeva. Non era sposato, manteneva alcune libertà: non di meno, la sua vita era saldata alla mia. In breve, a trent’anni si metteva su un cammino tracciato fin dall’inizio: le sue sole avventure sarebbero state i libri che avrebbe scritto. Il primo era stato rifiutato; il secondo esigeva ancora del lavoro. Quanto al suo libro su ‘L’immagine’, Alcan aveva accettato solo la prima parte, e lui prevedeva che la seconda, che lo interessava molto di più, non sarebbe stata pubblicata che molti anni dopo. Avevamo entrambe una assoluta fiducia nel suo avvenire; ma l’avvenire non sempre basta a illuminare il presente. Sartre aveva messo tanto ardore ad essere giovane che nel momento in cui la sua giovinezza lo abbandonava ci sarebbero volute delle gioie molto grandi per consolarlo di ciò.
Ho già detto che malgrado le apparenze la mia condizione era completamente diversa dalla sua. Passare l’esame di stato, avere in mano un mestiere era per lui una cosa scontata. Io, in cima a quella scalinata a Marsiglia, avevo avuto una vertigine di gioia: non mi sembrava di subire un destino, ma di averlo scelto. La carriera in cui Sartre vedeva impantanarsi la sua libertà non aveva smesso di rappresentare per me una liberazione. E poi, come ha scritto Rilke a proposito di Rodin, Sartre era ‘il proprio cielo’; sempre in questione dunque fra le cose incerte, ma mai in questione per me, la sua esistenza giustificava per me il mondo, che nulla invece giustificava ai suoi occhi.
La mia personale esperienza non mi permetteva dunque di capire i motivi della sua depressione; si è già visto d’altra parte che la psicologia non era il mio forte, e nei riguardi di Sartre in particolare mi guardavo bene dal ricorrervi; per me, lui era pura coscienza e radicale libertà; mi rifiutavo di considerarlo pura pedina di circostanze oscure, oggetto passivo; preferivo pensare che lui stesso produceva le sue angosce, le sue illusioni per via di una sorta di volontà cattiva; più che spaventarmi, la sua crisi mi irritò; discussi, ragionai, gli rimproverai la sua compiacenza a ritenersi condannato. Vi vedevo una specie di tradimento; non aveva il diritto di lanciarsi in stati d’animo che minacciavano le nostre costruzioni comuni. C’era anche della viltà in questo mio modo di fuggire davanti alla verità, ma la lucidità non mi sarebbe servita a molto; i problemi di Sartre non potevo risolverli io al suo posto; per guarirlo dei suoi passeggeri disturbi mi mancavano l’esperienza e le tecniche necessarie. Non l’avrei certamente aiutato se avessi condiviso le sue paure. La mia collera fu senza dubbio una reazione sana.”
[Simone de Beauvoir, FA, 214-220]
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Abbreviazioni:
CRD, ‘Critique de la Raison dialectique, tome 1’
EN, ‘L’être et le néant’
FA, ‘La force de l’âge’
OR, ‘Oeuvres romanesques’
RV, ‘Reason and Violence: A Decade of Sartre's Philosophy, 1950-1960’
MP, ‘Mille Plateaux’
FDMA, ‘Fare della malattia un’arma’
CDG, ‘Les carnets de la drôle de guerre’
PdP ‘Phénomenologie de la perception’
Novembre 2010
[1] Ancora 20 anni dopo i granchi avranno un ruolo fondamentale ne ‘I sequestrati di Altona’ (cfr. il saggio di Louette in ‘Silences de Sartre’).
[2] Nella ‘Fenomenologia della percezione’, a un certo punto Merleau-Ponty riporta una ‘nota autobiografica inedita di Sartre’ che si riferisce alla stessa occasione (è molto probabile che esistesse una memoria di Sartre su tutto l’esperimento):
‘Un sujet sous mescaline perçoit la vis d'un appareil comme une ampoule de verre ou comme une hernie dans un ballon de caoutchouc. Mais que voit-il au juste? “Je perçois un monde de boursouflures ... C'est comme si l'on changeait brusquement la clé de ma perception et qu'on me fît percevoir en boursouflé comme on joue un morceau en ut ou en si bémol... A cet instant, toute ma perception se transforma et, une seconde, je perçus une ampoule de caoutchouc. Est-ce a dire que je vis rien de plus? Non, mais je me sentais comme monté de telle sorte que je ne pouvais percevoir autrement. La croyance m'envahit que le monde est tel ... Plus tard, se fit un autre changement ... Tout me parut pâteux et écaillé à la fois, comme certains gros serpents que j'ai vus dérouler leurs anneaux au Zoo de Berlin. A ce moment, me vint la peur d'être sur un îlot entouré de serpents”.’ [PdP 392]
[3] Non ‘volo del pensiero’ come nella traduzione italiana abituale.
‘Un sujet sous mescaline perçoit la vis d'un appareil comme une ampoule de verre ou comme une hernie dans un ballon de caoutchouc. Mais que voit-il au juste? “Je perçois un monde de boursouflures ... C'est comme si l'on changeait brusquement la clé de ma perception et qu'on me fît percevoir en boursouflé comme on joue un morceau en ut ou en si bémol... A cet instant, toute ma perception se transforma et, une seconde, je perçus une ampoule de caoutchouc. Est-ce a dire que je vis rien de plus? Non, mais je me sentais comme monté de telle sorte que je ne pouvais percevoir autrement. La croyance m'envahit que le monde est tel ... Plus tard, se fit un autre changement ... Tout me parut pâteux et écaillé à la fois, comme certains gros serpents que j'ai vus dérouler leurs anneaux au Zoo de Berlin. A ce moment, me vint la peur d'être sur un îlot entouré de serpents”.’ [PdP 392]
[3] Non ‘volo del pensiero’ come nella traduzione italiana abituale.
[4] In fondo, questo è stato sempre uno dei campi di fondo della filosofia: la comprensione di sé, il distacco dall’immediatezza subita o dalle abitudini malsane accumulate- la capacità di accettare quanto è immodificabile e cercare di cambiare quanto non lo è; si pensi solo a Montaigne, o, in modo diverso, ai libri di Hadot.
[5] A Kingsley Hall venne girato nel ’72 un documentario, ‘Asylum’, di Peter Robinson.
[6] “La notion d’autrui ne saurait, en aucun cas, viser une conscience solitaire et extramondaine
que je ne puis même pas penser: l’homme se définit par rapport au monde et par rapport
à moi-même; il est cet objet du monde qui détermine un écoulement interne de l’univers, une hémorragie interne; il est le sujet qui se découvre à moi dans cette fuite de moi-même vers l’objectivation.” [EN 296]
[7] Olga Kosakiewicz, verso cui nacque poi una disperata storia d’amore; cfr. Ivich ne ‘L’ âge de raison’, e Xavière de ‘L’invitée’.
cfr. sul sito di Poliscritture
http://www.fracarma.altervista.org/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=2&Itemid=15
http://www.fracarma.altervista.org/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=2&Itemid=15
Questo testo è stato concepito nell’ottobre –novembre 2010 per il bollettino del centro di studi sartriani di Roma, dove doveva comparire- cosa che poi per un insieme di motivi non è avvenuto. ‘E variamente circolato per mail. Dalla sua origine dipende il carattere ‘specialistico’, il dare per scontato un abbastanza alto livello di conoscenza del pensiero e del significato storico di Jean Paul Sartre. Non mi è chiaramente possibile fornire in breve un simile sfondo, non posso che rinviare altrove.
RispondiEliminaCercherò comunque di chiarire alcuni dei temi di fondo di questa ricerca:
a) cosa pensava Sartre della psichiatria? e, connessa a questa domanda, come e in che contesto si sono formate le sue posizioni?
b) che rapporto vi è stato fra Sartre e i movimenti di trasformazione e rottura della psichiatria tradizionale?
La risposta a queste domande non è scontata, e porta a una revisione sia della ‘psicologia’ (o antropologia) di Sartre che a un ripercorrere la storia della psichiatria antiistituzionale (al di là delle caricature alla Jervis, o del velo di silenzio/ normalizzazione che si è steso su quanto di più sinceramente e radicalmente innovativo era in ballo in quei movimenti). –La ricerca presenta fra l’altro alcuni testi sostanzialmente ignoti, come la prefazione scritta da Sartre per un libro di Laing e Cooper del 1964, o la sua lettera del 1972 ai “compagni dell’SPK” (Collettivo Socialista dei Pazienti, di Heidelberg); un tema centrale è l’esperienza con la mescalina del 1935, mai tematizzata da Sartre ma verosimilmente strettamente collegata a momenti centrali della sua opera ( cfr. la ‘estasi orribile del parco’ della Nausea, o il lungo brano sul ‘vischioso’ alla fine dell’Essere e il Nulla).
Un punto sostanziale emerso per me- qui solo accennato- è la fondamentale differenza fra l’antropologia di Sartre e quella di Simone de Beauvoir, che tanto (e tanto contrastato) influsso ha avuto nello sviluppo del pensiero femminista; proprio qui sta comunque una delle frontiere davanti a cui si arresta la ricerca: il mutamento di paradigma fra il marxismo esistenziale/maoista (mi si perdoni la barbarie dell’espressione) di Sartre e il pensiero e gli sviluppi sociali successivi (che alla fine del saggio evoco nominando- solo nominando- Foucault, Derida, Deleuze, Guattari, Valerie Solanas, Luce Irigaray).
Lo scavo archeologico forse permette di arrivare con occhi più aperti e sensibili al qui ed ora, più pronti a coglierne il contenuto ed il sapore- nella loro ricchezza come nella loro a volte atrocità.-
Aggiungo che questo saggio si collega al mio precedente lavoro su Bernward Vesper e la Germania degli anni ’60-’70 (POLISCRITTURE 4), oltre che naturalmente alla mia pratica di lavoro (psichiatra e psicoterapeuta) e pratica generalmente sociale. Vi sono alcune persone (‘pazienti’) che nel loro rifiuto della psichiatria istituzionale odierna mi hanno costretto a fare i conti con diversi dei miei presupposti, e che sono de facto coautori di questo saggio. Esso è stato preannunciato in diversi dei suoi temi da ricerche più a largo raggio testimoniate p.e. sulle mie pagine facebook; là i ‘cammini dell’antipsichiatria’ hanno portato a incontrare non solo Sartre ma Ginsberg, PK Dick, Breton, Artaud, Gerard de Nerval, Anna Kavan, Sylvia Plath, Sarah Kane etc etc etc- oltre che p.e. Jared Lee Loughner, l’attentatore paranoico di Tucson, con i suoi ‘ultimi pensieri’ (‘No! Non avrò fiducia in Dio! Cos’è un governo se le parole non hanno un significato?’)
La bibliografia la fine del saggio è uno strumento di lavoro; parecchi dei testi citati sono raggiungibili con mezzi elettronici, oltre che nelle normali biblioteche e librerie.
Parma, 15 marzo 2011
Giacomo Conserva (gconse@libero.it)