http://www.poliscritture.it/2014/12/12/uno-di-noi/#more-1542
Uno di noi. Ricordo
di Gianmario Lucini
Questo è l’intervento rielaborato che ho
presentato alla serata del 10 dicembre 2014 in memoria di
Gianmario
Lucini svoltasi a «ChiamaMilano» in Via Laghetto 2 purtroppo alla
presenza di
pochissimi suoi amici.
1.
È troppo presto per capire
quanto poliedrica, contraddittoria, caparbiamente volta al futuro sia
stata
la vita di Gianmario Lucini. L’amicizia potrebbe travisare il
giudizio. Che meno avrà tratti amicali e
più sarà valido. Per
parlare, infatti, di lui – uno di noi – è necessaria non meno ma
più distanza
critica. Oggi difficile. Perché – mi permetto di
aggiungere – siamo tutti un po’ storditi. Non solo per
la sua
improvvisa morte, ma dalla difficoltà di affrontare il declino di
questa Italia. E forse il lutto per
la sua morte e lo sgomento per la
crisi sono in relazione tra loro. Per scuoterci, potremmo rileggere
i
suoi libri di poesia, forse accostati finora frettolosamente,
raccogliere i segni lasciati da Gianmario
tra i tanti amici che,
sparsi in varie città, l’hanno conosciuto e hanno collaborato con
lui, ripensare il
suo lavoro di critico e di editore
“scalzo”.
2.
Alla notizia della sua morte ho scritto: «Gli
furono cari i poeti ancor più della poesia/ e queste nostre
piante
nate storte raddrizzò/ e tutte incoraggiando ospitò nel suo
giardino/ perché sgrovigliassero
piano virtù da miserie.// Anche
per lui essendo gli uomini esseri mirabili». Gianmario, infatti,
ha
cercato i suoi interlocutori tra i poeti. Ad essi ha indirizzato
il suo discorso e gli sforzi della sua casa
editrice. Senza
illudersi. Aveva chiaro che l’intellettualità di massa odierna (e
in essa i poeti) è
appesantita da ambivalenze, vuoti di memoria,
presunzioni a volte meschine, violenti egocentrismi.
Ma perseguiva il
suo progetto aggiustandolo e precisandolo anno dopo anno, non senza
affanni e
delusioni. Ora viaggiando da solo coi suoi libri (spesso di
notte) per le autostrade e le città di questa
penisola con lo
spirito curioso e determinato di un antico chierico vagante. Ora
intrecciando la sua
passione e la sua intelligenza a quelle di altri
che le condividevano. Si è mosso su più fronti: dalla
poesia alla
critica all’attività editoriale alla organizzazione di possibili
gruppi di discussione. Mai
esitando a passare dalla riflessione
poetico-politico-teorica perfino raffinata alla bassa manovalanza.
Il
suo discorso e la sua febbrile attività possono apparire o essere a
volte sfrangiati, troppo
immediati e ansiosi (quante volte avvertiva
che scriveva in fretta quel suo intervento, perché non
aveva tempo
per rivedere o rifinire e subito dopo doveva passare al “lavoro per
la pagnotta” che
incombeva…). Ma andavano nell’unica direzione
a cui possono mirare quelli che, preso atto della
chiusura
corporativa delle Istituzioni, tentano- come lui ha fatto – di
costruire altrove le fondamenta
per qualcosa di vero, giusto e onesto
in poesia, nella critica, nell’editoria, nell’organizzazione
della
riflessione collettiva. Così, instancabile e più solo di
quanto si possa pensare, Gianmario, si è speso
nella costruzione di
un altro possibile noi: non retorico, non partitico, non salottiero,
non corporativo,
non arrogante. Fosse pure quel noi minimo,
assemblato e provvisorio, che s’intravvedenelle
antologie su temi
d’attualità, come l’ultima, Keffyeh. E discutendo con decine e
decine di
interlocutori. Da seguire, da convincere, da bloccare se
troppo capricciosi e presuntuosi, da spingere
a cooperare in quella o
quell’altra delle iniziative che fervidamente e infaticabilmente
sapeva
inventare e proporre.
4.
Ora questo suo discorso –
intrecciatosi con altri condotti in varie città da suoi amici e
amiche, poeti e
poetesse, ma anche con quello di «Poliscritture»,
di cui Gianmario era diventato da poco editore
(assumendosi –
sempre umilmente e pragmaticamente – l’opera d’impaginazione: i
numeri 9 e 10
sono stati graficamente realizzati da lui) – è
rimasto in sospeso. Come non farlo morire? Come non
far morire CFR,
che è stata non solo la vetrina di una fetta interessante della
ricerca poetica italiana,
ma, negli intenti più segreti di
Gianmario, doveva diventare un altro luogo di possibile incontro
tra
intelligenze di varia provenienza e formazione, comunque tra le
più sensibili ai problemi di questo
Paese disfatto ma anche ai
conflitti mondiali, che l’Italia dal 1990 in poi contribuisce ad
alimentare
più che a spegnere?
5.
Per quel che mi riguarda, come ho
già scritto, tenterò di tener viva la memoria di Gianmario
Lucini
ripigliando in mano i suoi libri. Per riannodare da solo
alcuni fili che ci eravamo ripromessi di
tessere insieme. E accennerò
a tre di essi, perché rivelano questioni irrisolte che stanno alla
base
anche dello stordimento cui accennavo all’inizio. Gli avevo
prestato Non c’è più religione di Michele
Ranchetti; e speravo di
confrontarmi con lui su questo libro di radicale revisione del
cattolicesimo e
misurare quanto ancora sia viva o recuperabile
l’eredità cristiana in questo mondo sconvolto. C’era
la figura
di Fortini, punto d’incrocio per qualche generazione proprio tra
cristianesimo e marxismo
che si stava stagliando come oggetto di
confronto tra il suo e il mio percorso, in alcuni punti simili,
in
altri no. C’era il dibattito, intenso e ricchissimo, anche per
gli interventi di altri interlocutori, sulla
poesia e la critica da
fare oggi in un’epoca mutata (e l’implicito confronto tra la sua
idea di poesia
etica e la mia ipotesi di poesia esodante).
6.
Non
entro qui nel merito del pensiero che Gianmario ha sviluppato in 12
raccolte di poesie, in saggi
critici, in interventi sui blog o per
posta elettronica, nei premi che ha organizzato e nelle stesse
scelte
con cui ha composto l’attuale catalogo di CFR. Ma qualcosa voglio
dire. Nel 2012 Gianmario,
Roberto Bertoldo ed io facemmo un
interessante esperimento di lettura e critica reciproca di tre
nostre
raccolte di poesia («Il disgusto», «Pergamena dei ribelli»,
«Immigratorio»). Fu in
quell’occasione che Bertoldo definì
Gianmario «un cantore senza fronzoli». E, infatti, il
suo
linguaggio poetico è prossimo a un parlato quotidiano,
politicizzato e meditato, che intrattiene un
forte legame con la
cronaca e i drammi della storia. E però, contemporaneamente,
Gianmario non ha
rinunciato all’elegia, al distanziamento pacato e
sapienziale. La denuncia morale e politica dei suoi
versi è frenata
ed equilibrata sempre da un’allusione tenera e accondiscendente a
un “silenzio”
ovattato che “esilia dal mondo”. Ho creduto di
ritrovare in questo suo atteggiamento di fondo l’eco
secolare delle
lotte sorte dall’antico sogno evangelico della “Chiesa povera”
che ha attraversato la
storia italiana ed europea. E che sia stato
tale sogno a spingerlo a contrastare in poesia l’estetismo e
il
formalismo o «la poesia delle parole» per privilegiare, come ha
scritto, i temi.[1] Come pure a
tentare di stringere poesia e
vita.[2] O a vedere la “povertà” (concetto che egli, in cerca di
una
razionalità diversa, articolava in modi laici) come “sinonimo
di giustizia, ma anche di libertà” o
“equo scambio col
mondo»[3]. O ad inoltrarsi sul sentiero, per me ambiguo, della fine
delle ideologie
[4]. O a mettere «fuori dalla razionalità»
l’economia e il potere moderno, sottovalutando (sempre
secondo me)
che c’è una razionalità (strumentale) dell’economia e del
potere che funziona e tiene in
scacco le potenzialità razionali (e
diciamo pure di possibile felicità o maggiore felicità) di milioni
di
uomini e donne. A lui che, preoccupato del «disastro ecologico»
e dei danni venuti dal predominio
della «religione della tecnica»,
si spingeva a teorizzare una «lotta per una reciprocità del potere
e
per l’innocenza del potere» dai tratti utopici, non ho nascosto
perplessità e critiche. E tuttavia,
malgrado i punti di attrito, non
sono mai restato indifferente a questo suo sogno cosi
fortemente
ancorato nell’umanesimo cristiano, che egli proiettava a
livello universale e planetario (nell’eco,
penso, del suo amato
Turoldo e anche di Ernesto Balducci). Gli avevo detto che questi suoi
pensieri
erano per me come un risentire il suono di una campana ma
purtroppo non più in un paesaggio
contadino o in apparenza ancora
contadino che permettesse di alimentare anche quel bisogno di
verità
e giustizia cristiana. E che io sentivo e guardavo tutto ciò solo
con amarezza. Come chi da lì è
venuto e lo ha visto scomparire
dallo specchietto retrovisore dell’auto, costretto come tanti
ad
imboccare una delle autostrade che ci hanno portato nei nostri
inferni o purgatori metropolitani.
Con cui dobbiamo fare i conti
senza nostalgia e scoramento.
7.
Concludo. Il mio ricordo di
Gianmario si fonda anche su un dato emotivo personale ed
elementare
che voglio rendere noto. Da quando c’incontrammo la
prima volta (accadde a Milano in una iniziativa
di poeti a
«Quintocortile» nel giugno 2011), ho sentito subito di poter avere
fiducia di quella persona
che non conoscevo. E i successivi nostri
momenti di collaborazione non hanno fatto che rinsaldarla
questa
fiducia. Anche quando abbiamo verificato l’esistenza di differenti
idee e giudizi su varie
questioni. Nel preparare questo scritto ho
riflettuto sulla nostra amicizia e mi sono accorto che la
sua figura
(fantasma adesso) ha in me risonanze profonde, perché coincide
almeno con due
immagini che ho elaborato, ben prima di incontrarlo,
in alcune mie poesie. Quella di quei «puliti miti
oscuri nostri
gemelli», che «ancora vanno, operosi su incerti sentieri;/e
accendono luci tutto tatto
nelle celle cupe della sera/dove ondula,
austera, minacciosa, la biblica mela», di cui ho parlato in
una
poesia intitolata «L’albero»: e quella dell’«oscuro
fratello» che mi accompagna in un paesaggio ostile
e pieno di rischi
in un’altra mia poesia:
Col suo oscuro fratello
ombra che trascina
con sé per mano
tra dirupi e scogli deserti
incombenti su strade
poco visibili
e abissi di periferia
che danno
capogiri da
grattacielo
va
in cerca di una scorciatoia.
Unico passaggio
azzardato
un sentiero con cocci ben murati
su una liscia parete da
attraversare.
In partenza davvero oscuri fratelli – credo – siamo
stati l’uno per l’altro. Non solo perché non ci
conoscevamo. Ma
perché sono tornati i tempi bui. E al buio, si sa, ci si muove a
tentoni e ogni
tentativo di conoscersi – indispensabile premessa
per cooperare – è più arduo. Eppure so che
entrambi abbiamo
lavorato per un reciproco riconoscimento. In altri tempi ci saremmo
chiamati
‘compagni’. Ora tutti e due sapevamo che questa parola
s’è consumata. E non l’abbiamo mai
pronunciata. Abbiamo parlato
soprattutto di dubbi, incertezze, fatiche, amarezze, sdegni
impotenti
di fronte a un presente caotico e orrido, che ha cancellato
il senso di un’epoca e annebbiato una
speranza o scommessa di
cooperazione che per pochi anni sembrò ripresentarsi. Siamo
stati
consapevoli che quelli come noi, che i pensieri e le lotte se
le devono costruire stando nei fondali
bassi della società – lo
aveva detto bene Brecht: Anders als die Kämpfe der Höne sine die
Kämpfe
der Tiefe! : Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul
fondo![5] – non possono abbandonarsi alla
retorica del noi. Lo
devono ricostruire. Da qui quel tono umile, pacato e persino mesto,
ma paziente
e tenace, dello stile e della poesia di Gianmario. Come
altri isolati e minoranze che operano oggi in
mezzo alla barbarie che
c’impongono dai pulpiti dei mass media, egli ha dovuto proseguire,
quasi
invisibile, il suo lavoro per ricostruire – virtuali e reali
– dei luoghi d’interrogazione e di ricerca.
Teniamolo
presente.
Note
[1] « Non parlo di stile, di verso, di estetica, di
prosodia, di linguaggio, ma esplicitamente di temi, di
ribellione, di
lotta dell’umano contro il disumano (che non è lotta politica e
neppure civile, ma lotta
culturale, per un’antropologia».
[2] «La
poesia non deve preoccuparsi della letteratura, ma della vita. La
letteratura viene dopo, non
prima. La critica non deve dire se la
poesia è letteratura, ma se la poesia è vita».
[3] «Tanto devi
dare tanto ricevere: non puoi avere più di quello che ti serve,
perché impoverisci il
mondo e dissipi il mondo”».
[4] «Non ci
servono più le vecchie categorie di giudizio: cristiano o laico o
altro: ci servono idee
diverse, perché queste categorie non sanno
più interpretare la direzione della storia che, se
vogliamo aprire
gli occhi, corre con velocità vertiginosa verso un abisso di
caos».
[5] Dal frammento La bottega del fornaio.
ENNIO ABATE
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