venerdì 5 luglio 2013

LINK: MARCO BALDINO, "Foucault e la fine della storia. Contributo alla discussione sul Nuovo realismo" ['Kasparhauser, come si accede al pensiero', 28 maggio 2013]


http://www.kasparhauser.net/nr/foucault_finestoria.html



Vincent Ward, What Dreams May Come, 1998



1.

Un giorno Foucault va a un convegno di medici che discutono sulla “Natura del pensiero medico” e dice: «da Balint [1896-1970] in poi voi dite che il malato manda dei messaggi e che il medico li ascolta e li interpreta» («Messaggio o rumore? 1968» (1)). Tuttavia, perché si dia messaggio è necessario un codice. Ma questo codice non c’è o, per lo meno, non c’è nella natura. La malattia — dice Foucault — si limita al rumore, tutto il resto ce lo mette la medicina. Ed è solo da un secolo e mezzo (e non «sin da quel povero Ippocrate») che la medicina lavora sul rumore per trarne qualcosa come un messaggio. (2)

In sostanza Foucault dice:

    a) che la medicina è un linguaggio;
    b) che la struttura epistemologica della medicina a questo punto può essere compresa solo da un punto di vista di linguistica comparata;
    c) che il suo è un approccio è strutturalista (ma questo viene detto, diciamo così, solo tra le righe). 

Foucault conclude poi il suo discorso con un interrogativo che porta completamente fuori strada:

«A quando un seminario che riunirà medici e teorici del linguaggio e di tutte le scienze ad esso collegate?»

Questa conclusione è, come l’appartenenza di Foucault al movimento strutturalista, puramente occasionale ed estrinseca.

Ed ecco cosa emerge invece dal discorso di Foucault se si lasciano cadere gli elementi occasionali (il fatto che parlava a dei medici) e quelli troppo strettamente collegati alla koinè teorica del momento (lo strutturalismo):

    1) la malattia non invia messaggi;
    2) la malattia si limita al rumore;
    3) non c’è codice nella natura,
    4) tutto il resto lo fa la medicina (il codice, il messaggio, l’interpretazione ce li mette la medicina). 

Un altro fatto interessante da rilevare proprio a questo punto è che Foucault cita Ippocrate ma solo per tagliarlo fuori dal discorso, che si vuole invece limitare all’ultimo secolo e mezzo. Ciò che invece a me preme ha inizio proprio con Ippocrate, e con Socrate e si fissa con Platone.
Se è vero che gli inizi della filosofia sono segnati da questa doppia cattura: la filosofia si struttura sui canoni della medicina e, in compenso, la medicina riceve dalla filosofia: a) un posto nel sistema generale dei saperi; b) il sostegno di un fondamento e di uno statuto epistemologico, allora, se spostiamo l’attenzione dalla natura filosofica del pensiero medico all’architettura medica del discorso filosofico, tutto si ricolloca proprio a partire da quel povero Ippocrate; ossia: ciò che Foucault dice a proposito della medicina come linguaggio lo si ritrova pari pari nella filosofia agli inizi.

Io credo che Foucault volesse lasciar fuori Ippocrate per due motivi essenziali:

    1) perché, come ho già detto, Foucault non voleva dare l’impressione di affrontare il problema da un punto di vista filosofico, ovvero storico-filosofico;

    2) perché il suo approccio “storico” nell’affrontare questioni filosofiche (la “natura” del “pensiero medico”) presupponeva una radicale storicizzazione dello sguardo analitico — non si tratta di collocare l’essenza del pensiero medico nell’ambito della storia universale dello spirito, ma di dimostrare che questa stessa essenza è storica. 

Se tuttavia spostiamo l’attenzione dall’essenza (storica) del pensiero medico all’architettura (medica) del discorso filosofico le due pregiudiziali vengono a cadere, anzi, il fatto di questa caduta costituisce il fulcro del mio ragionamento.

Ciò che Foucault dice della medicina può essere ripetuto per la filosofia ossia per quel particolare uso della mente che si pensa non come particolare, ma come universale: da Platone in poi si sostiene che l’infinità sincategorematica degli enti mandi dei messaggi e che il filosofo sia colui che, ascoltandoli e interpretandoli, costruisce su di essi un sapere, il sapere di ciò che le cose sono in quanto generali determinazioni di un essere assoluto, categorematico, che tutto abbraccia. Tuttavia, perché si dia messaggio, è necessario un codice. La filosofia ritiene che questo codice sia già nell’essere, tuttavia, ahimé, l’infinità degli enti si limita al clamore, nel caos non c’è nessun codice, ed è invece la filosofia che, dopo aver riconosciuto che vi è del rumore, fa tutto il resto:

    a) suppone che questo rumore sia portatore di elementi isolabili (il filosofo è appunto un clinico dell’essente);

    b) suppone che questi elementi siano associabili in modo costante ad altri elementi di cui si dispone il senso;

    c) infine osserva e registra la regolarità di talune configurazioni di elementi. 

La filosofia — si potrebbe dire — codifica, ovvero ricerca nel caos, finché, a furia di percorrere e ripercorrere determinate linee traiettorie, non trova delle regolarità (che per lo più emergono dai suoi stessi movimenti iterativi), quindi assume tali regolarità come intenzioni di messaggio e vi articola un discorso, sul quale edifica poi un sapere (che si vuole certo in quanto fondato sull’intuizione che sottomette l’infinità sincategorematica dell’ente alla totalità categorematica dell’essere) intorno al fluire degli enti.


2.

Foucault conclude il suo discorso sulla medicina con un autentico coup de scène:

«La vittoria sul rumore — egli dice — non ha ancora potuto essere assicurata da un unico codice e, forse, non lo sarà mai».

Il significato che tale affermazione riveste per la medicina è abbastanza scontato, significa che quel sapere particolare che è la medicina non avrà mai il pieno dominio sulla malattia — il che, da un certo punto di vista, vuol significare anche la natura aperta del sapere medico, il fatto che in medicina si dà progresso, che la medicina è un sapere perfettibile nei metodi e accrescibile nei campi d’applicazione. Non così in filosofia la quale è un sapere che interpreta se stesso non come un sapere aperto (cioè imperfetto) sul clamore degli enti, ma come un sapere concluso, perfetto, a cui non è possibile aggiungere alcunché. In un’intervista rilasciata a La Quinzaine litteraire nel 1968 Foucault dice qualcosa di significativo sulla filosofia, dice che la filosofia, «cioè quella cosa che ha la pretesa di dire che cos’è la vita, la morte, la sessualità, se Dio esiste o non esiste, che cos’è la libertà, che cosa bisogna fare in politica, come ci si comporta con gli altri, ecc. è qualcosa che non si dà più, non in questa forma, non con queste pretese...».

Non ho alcun dubbio sul fatto che, al di là dell’occasione, Foucault avesse maturato sin dal ’66 quella concezione, poi espressa nel ’68, sulla «fine della filosofia» in cui risuona un’articolazione filosofica che va da Nietzsche a Heidegger e da Kojève a Bataille.

Questa problematizzazione del pensiero medico contiene già quella problematizzazione del filosofico che, sebbene non tematizzata mai in modo diretto, diverrà il motivo conduttore di tutta la ricerca foucaultiana. In una lettera del 1967 da Civitavecchia Foucault scrive: «leggiucchio Nietzsche; credo di cominciare a capire perché mi ha sempre affascinato. Una morfologia della volontà di sapere nella civiltà europea che abbiamo lasciato da parte a favore di un’analisi della volontà di potenza». Ecco il centro di tutta la questione. Quella frase sul rumore e sull’impossibilità di vincerlo rappresenta, in filosofia, qualcosa di scandaloso, uno scandalo che identifica perfettamente Foucault e che Foucault non smetterà di rinnovare nel corso degli anni.

Nel saggio sulle «Devianze religiose» (vedi nota sopra) Foucault riprende il tema dell’esclusione su cui si era aperta sostanzialmente la sua ricerca (cfr. «Prefazione alla Storia della follia. 1961», in Archivio I, pp. 49-58): in ogni cultura — scrive Foucault — esiste una serie coerente di gesti di separazione la cui funzione è però ambigua: nel momento in cui tracciano il limite aprono lo spazio di una trasgressione sempre possibile (Foucault chiama questo spazio “sistema del trasgressivo”); questo spazio non coincide né con l’illegale o con il criminale, né con il rivoluzionario, né con il mostruoso o l’anormale, né con la somma di tutte queste forme di devianza, tuttavia, ciascuno di questi termini lo definisce almeno obliquamente; la coscienza moderna tende a ricondurre la delimitazione dell’irregolare, del deviante, dell’irragionevole, dell’illecito e anche del criminale alla distinzione normale/patologico. Tutto ciò che la coscienza moderna si rappresenta come “estraneo”, “intrusivo” è trattato con i metodi dell’esclusione quando si tratta di giudicare, con quelli dell’inclusione quando si tratta di spiegare.

Tale affermazione ha in Foucault un carattere generale.

Rapportando tale affermazione al nucleo della nostra argomentazione e mettendola in collegamento con la questione del messaggio e del codice, essa prende il seguente significato:

1) vi è tutta una parte dell’ente il cui clamore non giungerà mai all’orecchio del filosofo se non per essere rigettato, forclos, verworfen.

2) La filosofia, come sapere incontrovertibile della totalità dell’ente, non si dà più. E non si dà più proprio perché è diventato chiaro che la totalità dell’ente non manda alcun messaggio, che il caos non ha codice, che è il filosofo a introdurvi un senso e che, per riuscirvi, deve operare un ritaglio nell’infinità sincategorematica dell’ente per mezzo del quale si produce, poi, ciò che Foucault chiama il “sistema del trasgressivo”, che è la stessa cosa a cui Bataille si riferiva chiamandolo “il sistema dell’eterogeneo”.

3) I codici cambiano quindi continuamente e pertanto un sapere certo dell’immutabile, se mai si è dato, ora non si dà più.



(1) Archivio Foucault, vol. I (1961-1970), a cura di Judith Revel, trad. di G. Costa, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 133-136.

(2) Il problema di questo «da un secolo e mezzo» anziché «dalle origini» è un tratto classico o che diverrà classico in Foucault il quale vuole soprattutto mettere in chiaro che non sta lavorando come un filosofo (non si occupa di categorie, ma di fatti, fatti contingenti). Tuttavia, se il procedimento di Foucault si presenta come una sintesi singolare di indagine storica, di metodo sperimentale, di ermeneutica, di riflessione epistemologica e di creatività letteraria, il tipo di interrogazione che circola nella sua opera è certamente filosofico. Ma è altrettanto vero che la sua ricerca non è mai riconducibile a un chiaro orizzonte disciplinare. Ora, il senso di questa particolare preoccupazione foucaultiana, di non lasciarsi ridurre ad un terreno disciplinarmente riconoscibile, è sicuramente cruciale per la storia del pensiero del Novecento e passa attraverso l'uso che Foucault ha fatto di Nietzsche, ma non ce ne occuperemo in questa nota.
In un saggio del 1968, scritto per Jacques Le Goff («Le devianze religiose e il sapere medico», Archivio I, pp. 170-177), Foucault torna sul tema della nascita recente dell’approccio linguistico al metodo in medicina (il riferimento valga come esempio per l’affermazione “è solo da un secolo e mezzo, e non sin da quel povero Ippocrate, che la medicina lavora sul rumore per trarne qualcosa come un messaggio”): nel dibattito del XVI secolo sull’intervento demoniaco nella realtà mondana — spiega Foucault — quella che sembra essere una vera e propria medicalizzazione del concetto di possessione è in realtà un tentativo di costringere i nuovi linguaggi a svolgere un ruolo di sostegno della verità teologica. Non c’è ancora quel passaggio verso Balint che per alcuni è invece già sempre in cammino nella medicina occidentale.






Nessun commento:

Posta un commento