lunedì 6 maggio 2013

Vladimir D'Amora: NAPOLI, UNA PERIFERIA






Non c'è aria, si respira un tempo solo, uno alla volta, ogni masticato giorno. C'è un gusto piatto per i segreti forieri di sangue, per prove che inizino a maggior sangue, un gusto non pagano, e neppure estatico, per la vita che finisca, non più pianta. I piani apparecchiati, so' come le ore che tralignano le une nelle altre, senza misura, senza vuoti che non siano sterminata penuria d'agi. Il blu è iniettato di stordita potenza, i rossi macchiano e non li vedi, c'è sempre una mano che sotterra, distrae, illude. E non perché dell'altro preme a emersione, lottando con altri che taliati si rifacciano. Non sta nascosta l'armonia natale, la lotta per lo spazio serpeggia nelle folate d'angolo, roteando su stessa, acefala, tramortita. Il senso della fine, il limite che fa fratelli e patti, manco scordato. Basta un sole dentro, sfinito, quel sole chimico a minuti, il sabato, e scoppia la mattanza. Pulita, panciuta: è inaspettata come lo sciabordio dell'onda alla carena, in mezzo agli elementi. Nelle grotte, nelle paludi gialle e corrose, risuonano rimbombi importati, gesti di sintesi meschina, e colpi nell'aria fessa, segata da nulla striminziti. Uno ci cade ancora, nel sempre della forma, ridotto a cinico rifiuto: sepolto macchinato nel dolo della madre che urla solo il prossimo caduto, i figli ennesimi già sputi in mezzo alle macerie. C'è un punto alto assai, riprese saltuarie, occhi che vanno e vengono. Li guardi allora a mollo, in vasche gonfie di spuma e aderenti, un carnaio eletto da pavimenti cancerogeni, dove non c'è parola pei mali vecchi e nuovi. Solo urlate d'intesa spicciola, per una carriera che non può finire, intestimoniata e trista. Questi occhi sono alieni, tanto non vedono, non possono vedere il non degli esseri spalmato sulle facce, nelle trapanate truccate mani, sopra le vesti tra pigiami e tute lucidissime. Quello che guardano è un entrare tosti e regrediti in merci dozzinali, serie su serie, senza segreto ch'è la rilucenza del borghese! Arrivano, da fuori, modelli inessenziali, giammai sprofondati nei cieli dei numeri né tra i moti spontanei, non c'è fisica o speranza che regga 'ste scimmie costrette a imitare l'altro invisitato ché portato dall'aria risucchiata. In se stessa martoriata. E se ricambiano, svendono la voluttà mortificata dalle morali indispensabili, aggirabili, arraffata tra i pilastri scorticati da cani e creature bambinoidi. Su grate imbiancate da merda inannusata si danno le materie esiziali a segnare il tramonto del mercato: monadi impazzite, statiche, forate dallo sfizio dell'immagine.

Laddove le abitazioni sono piene di piscio e di figli, gli occhi avvistano non visti, le macchine eseguono ordini semplici, i passaggi tengono l'età della vita sospese e avvitate al rischio, le sovvenzioni giungono con tale ritardo e penuria da innescare lamenti e minacce, su due scalini fratelli di pietra siedono l'ascolto inavvertitamente e la ripetizione sia intensiva sia riproduttiva e lo scontro spacca come spacca lo scontro più elementare e le grida inseguono paura e mentre le macchine adibite al flusso appunto scorrono accanto a successioni e avvicendamenti radicatissimi, perché il cielo è scordato, la dimenticanza che galleggia come tale e pesa - qui è tutto diverso dai nostri dintorni, tutto si rintana nel recente già archiviato, e ci rassomiglia.
Non è illegalità, non è antistato.
Anche questo è.
Ma si interpongono, tra noi e loro, qui e lì sono facce distinguibili solo, e non anche differenziabili, se ci si vende e compra come la coca, lo shampoo, il riso che scuoce quasi subito.

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