domenica 23 ottobre 2011

(via J. Valli): A. Cavalletti ■ "L'esigenza comunista. Nota sul concetto di 'classe'" [Alfabeta 2, 9/2011]



Il 6 maggio 1934 Walter Benjamin rispondeva al suo amico Scholem: «Di tutte le forme e le espressioni possibili il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo, di una professione di fede [...] a costo di rinunciare alla sua ortodossia – esso non è altro, non è proprio nient’altro che l’espressione di certe esperienze che ho fatto nel mio pensiero e nella mia esistenza, è un’espressione drastica e non infruttuosa dell’impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l’economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza [...] il comunismo rappresenta, per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita».


Non potrebbe darsi espressione più lucida, insieme più sobria e più potente, di quella che, volendo attenerci al vocabolario benjaminiano, potremmo chiamare l’esigenza comunista. Il comunismo antidogmatico, estraneo all’ortodossia, non proviene per Benjamin da una qualche lontana educazione ideologica, non risale a una tradizione, non dipende dalla saldezza di un ideale e meno ancora della realizzazione storica, in forma aberrante di stato, di queste tendenze: nasce dalla pura e semplice constatazione di un’impossibilità. Ma la constatazione non è affatto la cosa più facile.

Se il comunismo è l’esigenza di chi è stato derubato dei suoi mezzi di produzione, se l’attualità di queste parole risiede nella loro esattezza antipsicologica, esse esigono da noi la stessa precisione: occorre constatare questa situazione per poter davvero essere comunisti, e se saremo capaci di lasciare paure e speranze, raggiungendo questa drastica chiarezza, non potremo che essere comunisti.

Ripenso a quella lettera a Scholem, così giusta e dura nei toni, quando l’ipotesi comunista si ripresenta nelle voci autorevoli che compongono il libro appena pubblicato da DeriveApprodi, L’idea di comunismo (maggio 2011, pp. 256, euro 18,00). Penso soprattutto a Badiou (il cui contributo ha visto la luce anche in un apposito volumetto di Cronopio dal titolo L’ipotesi comunista) e a Negri: penso all’Idea comunista secondo Badiou, quale «forzatura» dell’impossibile in direzione del possibile, forzatura che opera come una «sottrazione» del potere statuale. Penso alle parole di Negri: essere comunisti significa oggi come ieri «essere contro lo Stato», resistere al rapporto di potere capitalistico in nome di un possibile che non si riduce alla configurazione statuale («i soggetti si propongono sempre come elementi di resistenza singolare e come momenti di costruzione di un’altra forma del vivere comune»). Negri lega poi questa resistenza al suo concetto di «moltitudine», e questo a quello marxiano di classe: le singolarità compongono la moltitudine, le singolarità non soltanto soggiacciono ma resistono al capitale, «la moltitudine è concetto di classe». Se c’è una possibilità, è anche qui nel «rapporto di forza che si esprime fra il padrone e il proletario», cioè nella lotta di classe. Marx diceva: decisiva è la «forza» (Gewalt).

Dunque: il comunismo come possibilità che si dà oltre lo Stato; come possibilità contenuta in quella forza (o violenza, poiché le nostre parole si riuniscono nel tedesco Gewalt) che scontrandosi con lo Stato riesce a resistergli, cioè a sottrargli potere; forza che appartiene alla classe, violenza di cui solo la classe è capace. Questo è il punto, ancora oggi; e a chi crede che ragionare in termini di classe sia davvero poco à la page, risponderà il sillogismo di Marchionne: poiché le classi non esistono, ubbidite al padrone. Si tratta dunque, ancora una volta, di quel grado estremo nel quale la dinamica potere-resistenza raggiunge l’antinomia, grado decisivo di tensione e resistenza che Marx ha espresso con la formula: «catene radicali».

Vorrei allora tornare a Benjamin, riprendendo e sviluppando alcuni temi toccati in un mio libretto intitolato appunto Classe (Bollati Boringhieri 2009). Nel 1936, Benjamin compone la cosiddetta zweite Fassung del saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Si tratta della stesura più completa e importante del saggio. Ora, questa versione contiene com’è noto una lunga nota sul concetto di classe, nota assai apprezzata da Adorno nella famosa lettera a Benjamin del 18 marzo 1936, che per il resto era invece fortemente critica. La nota si apre con queste parole: «La coscienza di classe proletaria, che è la più chiarita, tra l’altro modifica profondamente la struttura della massa proletaria». Questo nel 1936, quando la massa proletaria tedesca che tanto piaceva agli apparati di partito era caduta nelle braccia del nazismo, quando il fascismo era ormai penetrato negli ambienti operai in profondità, e – come scrisse Wilhelm Reich – da due parti: attraverso il Lumpenproletariat («una espressione che fa rizzare i capelli») e la sua corruzione materiale, e attraverso l’«aristocrazia operaia» e la sua duplice corruzione, materiale e ideologica.

Proprio in queste condizioni, cioè quando la stolida fiducia nella «base di massa» aveva dato i suoi frutti, Benjamin pensava alla coscienza di classe come modificazione della struttura di questa massa. Che tipo di modificazione? Un allentamento, un rilassamento, una Auflockerung, si legge nelle righe successive. Di cosa? Delle pressioni, appunto, che producono la pericolosa massa piccolo-borghese. Se esiste una coscienza di classe proletaria, sarà anche e necessariamente un allentamento capace di impedire la trasformazione di quella massa di operai in una folla pericolosa, nella folla studiata dai maestri della psicologia sociale di fine Ottocento: «Le Bon e gli altri». Proprio qui, dove ci aspetteremmo almeno un riferimento all’amplissima letteratura di stampo marxista, Benjamin ricorre ad autori ben diversi e persino reazionari. Cita Le Bon. Ma «citare» significa per lui salvare qualcosa strappandolo al contesto originario: la foule dangereuse, la folla che per Le Bon segue il suo capo in stato ipnotico, viene così strappata alla sua condizione di modello ideale, viene storicizzata e riconosciuta con precisione nella massa piccolo-borghese. Perché la piccola borghesia non è neanche una classe (ist keine Klasse) ma soltanto una folla. È la massa compatta (kompakte Masse) del totalitarismo, compressa dalle paure, dalle spinte degli antagonismi sociali, che non agisce ma è solo reattiva, e in cui prevale l’odio razzista, l’entusiasmo sonnambolico per la guerra. «In questa massa, in effetti, è determinante l’istinto gregario». Il suo modello è stato plasmato dal capitale: un semplice aggregato di individui che non hanno nulla in comune se non gli interessi privati. Sono i clienti, riuniti casualmente nel mercato.

E se il capitale è appunto interessato al controllo di questa massa eterogenea di semplici consumatori, lo Stato esegue ora il suo compito storico: rende le adunate perenni e obbligatorie offrendo agli individui un modo di venire a capo della propria situazione, di farsi una ragione del loro assembramento casuale in termini di razza, sangue, suolo; offrendo a questa folla gregaria e ipnotizzata una guida sicura, cioè un politico-attore, un divo-ammaliatore. La «prestazione» (Leistung) specifica di questo capo sarà infatti saper stare di fronte alla macchina da presa.

La coscienza di classe è invece attiva: opera l’allentamento delle pressioni e lo fa, per Benjamin, attraverso la solidarietà (Solidarität). Ora anche questa parola, «solidarietà» (la più usata), acquista qui un senso del tutto nuovo. Perde il suo significato militaresco di formazione compatta, si allontana dal dovere e dal debito (essere in solido), fa anch’essa la prova del rilassamento (abbandono delle paure, solidarietà del piacere, edonismo rivoluzionario: sono i temi che nel libro avevo cercato di sviluppare attraverso il marxismo epicureo di Jean Fallot). Questa classe solidale non può essere mai ipostatizzata, mai riconosciuta in alcun «soggetto» determinato: non è altro che dissoluzione costante delle tensioni. È il contro-movimento che resiste alla formazione della folla piccolo-borghese (compressa tra paure e speranze) in seno a qualsiasi formazione sociale. E se c’è un capo rivoluzionario, se qualcuno indica la strada, è colui che non si lascia mai ammirare. La sua «prestazione» sarà: sapersi immergere sempre di nuovo, scomparire, solidale, nelle pieghe della massa, diventare «uno dei centomila». Facciamo nostra questa prestazione: allentiamoci.

Auflockerung è qui il termine chiave. Anche se Adorno l’aveva curiosamente trascurato. Nella lettera del 18 marzo 1936, infatti, scriveva: «Non posso concludere senza dirle che le poche frasi sulla disintegrazione (Desintegration) del proletariato come “massa” (‘Masse’) attraverso la rivoluzione rientrano per me tra le più profonde e potenti, sul piano della teoria politica, da quando ho letto Stato e rivoluzione». Ora, Benjamin non aveva mai parlato di disintegrazione, ma di una trasformazione della struttura sociale. E non aveva certo scelto a caso la parola: Auflockerung.

Come chiarirla? A partire da un’ipotesi per così dire filologica. Direi che Benjamin riprende qui, nel saggio sull’arte di massa, un terminus technicus della sua filosofia, e in particolare della sua meditazione estetica; direi che egli riprende qui, dove «l’estetica diventa politica», il concetto chiave di un saggio giovanile, dedicato a Due poesie di Friedrich Hölderlin. Si trattava, in quelle pagine del 1914-15, di determinare il compito dell’esegesi. L’esegeta, diceva Benjamin, deve rivolgersi alla poesia (Gedicht) facendo emergere quel dettato (Gedichtete) che ha guidato il poeta e a cui il poeta è riuscito a dare sì un’espressione in atto (in quel testo che abbiamo sotto gli occhi), e tuttavia una determinazione limitata. Qualcosa del dettato è rimasto ancora in potenza, ancora esprimibile. Deve allora occuparsene il buon esegeta. Come può farlo? Non è forse questo dettato qualcosa di troppo vago, come un’idea prima e ormai inattingibile, il non-so-che di un’ispirazione di fatto indeterminabile? Al contrario, risponde Benjamin, il dettato si differenzia dall’opera solo «per la sua maggiore determinabilità: non per una mancanza quantitativa, ma per l’esistenza potenziale delle determinazioni in atto nella poesia, e di altre».

L’esegesi consisterà allora in un «allentamento» (Auflockerung) dei legami interni, funzionali, che governano l’opera poetica e le conferiscono la sua forma attuale. L’esegesi – diremo – è dunque una modificazione profonda della struttura dell’opera: è quell’atto che forza il dato testuale, flette le sue giunture, spezza i vincoli prosodici e fa apparire, nell’opera stessa, uno spettro di possibilità ancora aperte. L’esegesi è lo sviluppo e il dispiegamento dei possibili che un testo poetico serba in sé, ancora inespressi. Per questo ogni autentica poesia, potremmo dire ancora, esige l’operazione esegetica.

Come si sa, Benjamin scrisse negli anni del saggio sull’Opera d’arte quello sul teatro epico di Brecht, in una prima versione nel 1931 e poi in quella definitiva nel 1939. Questo teatro, diceva il testo del 1931, si distingue dagli altri poiché non richiede che il pubblico lo segua come una «massa ipnotizzata». E la stesura del ’39 precisava: il pubblico del teatro epico è un pubblico rilassato (entspanntes Publikum), che segue l’azione con distacco, un pubblico critico e allentato (gelockert). Il teatro brechtiano rappresentava per Benjamin, dunque, una tecnica di allentamento. E nella forza che distrugge la «quarta parete», nella cancellazione della differenza ovvero nella piena solidarietà tra attore e pubblico – come anche nell’ammirazione di Benjamin per il cinema privo di «attori» dell’avanguardia russa – riconosciamo il modello della politica o dell’esigenza comunista.

La classe rivoluzionaria è un rilassamento del pubblico. Il comunismo è un’azione di allentamento: scioglie tutte le catene sciogliendo quei legami aberranti (i miti biopolitici del territorio, della razza, della patria o del lavoro) che lo Stato dispone per organizzare l’ammasso casuale dei consumatori e contenerne le spinte dissolutorie. Sciogliendo questi legami (e la massa nella classe), il comunismo dispiega la potenza del nostro essere insieme (la nostra piena determinabilità). Dove c’è il divo-attore, dove si dà un maestro della posa (e sia anche una posa di sinistra), ci sono solo folla e fascismo. Il comunismo non riconosce nessun divo.


[Di questi tempi sto riflettendo attorno a queste cose. Che un altro mondo deve essere possibile o almeno immaginabile. E davanti alle molteplici catastrofi e orrori che ci circondano o si annunciano mi viene (dopo anni!) di nuovo in mente il nome di una alternativa, che storicamente si è chiamata comunismo. GC

-vedi qui per esempio  



3 commenti:

  1. commento connesso di GM: ' ... quando ho riletto, di recente, il Manifesto di Marx. Lo confesso con vergogna: da decenni non lo avevo fatto - il che deve certamente tradire qualcosa. " (Derrida, Spettri di Marx)'

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  2. commento connesso: 'forse bisognava disintossicarsi dall'ideologia e dal mito (e sappiamo quanto violenta quella ideologia abbia potuto manifestarsi, e non solo nei gulag ma in mille altre sfere)- e attraversare i campi fioriti del capitalismo multinazionale postmoderno per vedere che alla fine il deserto interpersonale ci stava crescendo attorno, e le crisi economiche mondiali, e le mille guerre... e che qualche alternativa da qualche parte bisogna ricercarla'

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  3. JV, commento collegato: "...] Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il "materialismo dialettico" per il "Vangelo secondo Lienin".
    Qualcuno era comunista perché era convinto d’avere dietro di sé la classe operaia.
    Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.
    Qualcuno era comunista perché c’era il grande Partito Comunista.
    Qualcuno era comunista nonostante ci fosse il grande Partito Comunista. [...] »

    (Giorgio Gaber)

    ... Non so come la si debba o possa mettere: io sono anarchista e individualista e, sebbene non abbia alcuna vera esigenza definitoria [se non per difesa...], è forse strano [almeno: oggi, suona bizzarro, dato che si tende a far coincidere saldamente comunismo e socialismo reale, marxismo e comunismo, Marx e marxismo; tanto che c'è chi richiama queste coppie con intenzionalità del tutto reazionarie e compiaciutamente tali, sulla base di convinzioni profonde di ordine finanche pretenziosamente ultramondano (per esempio, riportando una cosa di certo forse poco significativa, le info del profilo fb del filosofo Alexandr Dugin, uomo di estrema "destra comunista" - sic! - sfoggiano tali citazioni, che immagino essere da lui fortemente sentite: "Vincit omnia veritas"; "one day all of you will repent" ... Che verità? La sua, evidentemente: una Verità intesa in senso particolare e determinabile, che richiama un ordine sacro ed immutabile, da ripristinare, facente capo ad un principio assoluto, ad un capo, ad un leader, ad un "re dei re", di ordine anche exotericamente religioso, occidentalmente monoteistico: e non sono queste cose rigettate ampiamente in questa nota sull'esigenza comunista e sul concetto di classe presso Benjamin?!?)], ma potrebbe anche andarmi bene un comunismo che fosse inteso come comunismo degli individui, inteso come anarchismo perpetuamente realizzantesi nell'immanenza, al di là di tensioni utopistiche ideali, al di là di menzogne - altrettanto ideali - riguardanti regni, compimenti, pace perpetua, stabilità, eccetera... Mi andrebbe bene un comunismo come anarchismo della compossibilità leibniziana massima tra individui inseriti in rapporti di potere e potenza continui; ovvero, mi andrebbe bene una visione tragica e nietzschiana della faccenda, non storica e che a nulla dovesse [trat]tenersi e che a nulla tendesse con pretese più o meno ideali e/o sentimentali. Ma allora, penso appunto a Nietzsche, al Benjamin del frammento teologico-politico, alla distruzione; e penso anche a Stirner, Kafka, Spinoza, Bataille, ai surrealisti un tempo trotzkisti e poi anarchisti [individualisti], ad Arp e Duchamp, a Schwitters e Bellmer, a Daumal e agli altri de "le grand jeu", alla saggezza più o meno esoterica orientale ed ebraica, al post-punk e a certo industrial e al free jazz, a Jarry, Foucault, Genesis P-Orridge, Burroughs, e ad altri; posso al limite pensare anche a Marx, sebbene del tutto (sic!) escludendo il marxismo [che poi, anche lì è un casino: non c'è solo un marxismo, e ci sono marxisti che forse sarebbe meglio definire marxiologi o marxiani, credo] ed anche il socialismo, in qualche modo [a proposito, qualcuno di voi ha per caso letto questo? http://www.adelphi.it/libro/9788845909924]; insomma, posso pensare a tutto ciò che in qualche modo sento, anche ragionando, esteticamente/eticamente vicino. Trovo interessantemente bizzarro (?) tutto ciò... Voi, no?"

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