lunedì 10 ottobre 2011

Da Ennio Abate: una lunga polemica su terrorismo e oscurità [sett-ott 2011, 'le parole e le cose']

Da http://www.leparoleelecose.it/?p=1064#comments

Sull’equivalenza narrativa terrorismo:oscurità


di Daniela Brogi
 «Mehr Licht! Mehr Licht!»
Negarlo è difficile: Buongiorno, notte, (Filmalbatros, 2003), di Marco Bellocchio, è una delle opere più belle del cinema italiano degli anni Zero. Il film è liberamente ispirato al memoriale dell’ex terrorista Anna Laura Braghetti Il prigioniero (Mondadori, 1988), e tanto per cominciare è la prova che si può rifare un ottimo lavoro anche a partire da un libro brutto e ridicolo. Com’è noto, Bellocchio rinarra la vicenda del sequestro Moro, ma uno degli aspetti più originali del film consiste nella scelta di condurre il racconto per lo più attraverso le molte rappresentazioni e teorie che nel corso degli anni sono state date sull’affaire Moro. Così, per esempio grazie ai filmati di repertorio, oppure usando la televisione sempre accesa nel covo di via Montalcini come presenza chiave della vicenda, Buongiorno, notte contiene «una rete complessa di allusioni ad altri film e persino a se stesso (l’elemento autoreferenziale di una sceneggiatura, intitolata proprio Buongiorno, notte, scritta da un personaggio del film) che dimostrano che non c’è un diretto accesso alla comprensione della storia, ma che tale comprensione viene costruita tramite la narrazione e la rappresentazione»[1].
Oltre tutto, anche il titolo è davvero bello, e indimenticabile: Buongiorno, notte, è dichiaratamente ispirato alla poesia di Emily Dickinson Good Morning – Midnight-[2], nella traduzione di Nicola Gardini (Crocetti, Milano 2001), che è stato il primo a usare la forma “Buongiorno notte“, potenziando la capacità smisurata di tempo-spazio contenuta in quelle due parole che vivono avanzando all’indietro.
L’effrazione dei principî di non contraddizione e asimmetria che definiscono il pensiero sistematico diurno; la regressione all’oscurità notturna – in senso temporale, visivo, mentale, acustico – per alludere alle vicende del terrorismo italiano tra i fatti di Piazza Fontana (1969) e la strage della stazione di Bologna (1980), e soprattutto l’uso della metafora del buio per nominare l’evento (il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro) che più di tutti ha fissato quell’epoca nella memoria e nell’inconscio italiani: tutto ciò, a ripensarci, non arriva a Bellocchio da un immaginario mai attivato in precedenza, perché intanto, appena si cominci a stare dentro questo ‘effetto notte’, torna subito negli occhi e nella mente anche la fortunata inchiesta televisiva in diciassette puntate di Sergio Zavoli La notte della Repubblica (passata per la prima volta su RAI2 dal 12 dicembre 1989 al 11 aprile 1990), poi diventata anche un libro (ERI, Mondadori, 1989).
Oppressione e buio, le due condizioni emotive e sensoriali che sembrano più naturalmente connotare il clima di quegli anni, si ridefiniscono, nel titolo scelto da Zavoli, a partire da un nuovo orizzonte al di fuori del buio: per via di una ricostruzione che intende riportare alla luce «muovendo dalla cronaca e autenticandola con le testimonianze»[3]; La notte della Repubblica è tesa al ristabilimento di un discorso autorevole intorno alle tenebre; la dominante del nero sottomesso al controllo è assecondata anche dalle immagini che scorrono nella sigla (che si può vedere qui) e dal set televisivo – per cui rimando all’analisi di Pezzini[4]; e tuttavia, anche di quell’operazione resiste soprattutto l’effetto cupo di tenebra, che sovrasta tutti gli altri toni espressivi e discorsivi – come, tornando alla sigla, càpita alla musica di accompagnamento (composta da Gianni Marchetti), dove la melodia triste intonata dal pianoforte diventa angosciosa e crea un senso di smarrimento appena si aggiunge nel sottofondo l’accompagnamento degli archi che ripetono incessantemente la stessa nota.
Soltanto un ulteriore esempio (non certo unico): il titolo del libro di Mario Calabresi (figlio del commissario ucciso nel 1972): Spingendo la notte più in là (2007), che conferma quanto il motivo dell’oscurità sia stato, sia il punto cieco attorno al quale sembra dover gravitare ogni discorso degli anni e sugli anni del terrorismo. Ecco però che, senza stare a continuare il catalogo, può valere la pena di porre la domanda plausibile a monte di tutto il resto: da dove arriva, per quali voci, o strade questo cortocircuito semantico, simbolico e memoriale?
Invece di avere un’origine esplicita, come l’espressione “anni di piombo” derivata dalla (controversa[5]) traduzione italiana del titolo del film (Die bleierne Zeit) di Margarethe Von Trotta, Leone d’Oro 1981, la metafora dell’oscurità come pratica discorsiva e mentale, o anche come forma di vita prediletta dalle narrazioni del terrorismo non pare che sia ancora stata molto considerata. La prima importante ragione certamente ha a che fare con la sua stessa condizione di strettissima parentela con il campo dell’immaginario – che è cosa diversa dal campo tematico[6], perché l’immaginario è una zona spesso ambigua, fantasmatica, e dai confini molto meno pacificati e chiari, ossia meno delimitabili con nettezza, come spiega bene Donnarumma in una presentazione delle sue ricerche sulla narrativa del terrorismo[7].
Andando poi a ritroso, non mancano certo grandi testi che, nell’arco del Novecento (ma il discorso in parte vale già per I demonî), non abbiano usato il topos della notte come metafora di un blackout mentale, morale ed esperienziale, della vita come della storia: pensiamo a Voyage au bout de la nuit (1932); o all’orrore del campo di concentramento raccontato in La nuit (1958) di Eli Wiesel («Jamais je n’oublierai cette nuit, la première nuit de camp, qui a fait de ma vie une nuit longue et sept fois verrouillée»[8]); o al verso di Brecht «Wirklich, ich lebe in finsteren Zeiten!» [Davvero, vivo in tempi bui![9]] riecheggiato anche nel discorso pronunciato da Hannah Arendt nel 1959 Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten. Rede über Lessing [L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing[10]]. Ma al 1955 risale pure Nuit et brouillard il documentario sulla Shoah diretto da Alain Resnais (e che recupera nel titolo la frase tedesca Nacht und Nebel usata per indicare la realtà dei campi concentrazionari e delle camere a gas).
Insomma la metafora della tenebra e dell’oscurità (che naturalmente ha anche una fortissima ascendenza biblica, sempre che sia possibile o giusto dare ancora per scontata la familiarità di questo codice), questa metafora più volte, nel ventesimo secolo, è tornata a fissare situazioni di accecamento della coscienza, della storia, della vita: è un dato ovvio – «vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece»[11].
Ancora però attende spiegazioni più chiare l’altro dato da cui siamo partiti, ovvero il fatto che, tanto all’epoca degli eventi, quanto attraverso lo sguardo di poi, tra la strage di piazza Fontana e il ventennio successivo la realtà civile e politica italiana si è quasi sempre narrata ed è stata narrata (narrativizzata) attraverso la notte: che non è più un modo possibile tra gli altri, ma diventa un’icona assoluta: un dispositivo totalizzante di condensazione dei significati.
L’immaginario, come si accennava, difficilmente conosce un punto alfa, un grado zero a partire dal quale i concetti si articolano in maniera lineare e ordinata: è una cultura di profondità, tanto nel senso di una trama interna complessa attorno a cui prendono vita immagini, sintomi e forme, quanto nel senso di un mondo di figure e significati spesso dai contorni offuscati, di cui non sempre si può individuare l’ombelico, e questa è una delle ragioni per cui talora le vicende dell’immaginario possono intrecciarsi con quelle di un trauma, come racconta ad esempio, per rimanere in argomento, un film come Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani.
Un testo, c’è, tuttavia, che può essere considerato non dico come l’origine ma come punto di coagulazione importante all’interno di questo grumo di reciproci scambi e reversibilità tra la serie delle vicende degli anni di piombo e la serie simbolica del buio e dell’oscurità: si tratta del famoso articolo pubblicato da Pasolini sul «Corriere della Sera» del 1° febbraio 1975 col titolo Il vuoto del potere in Italia, ma, com’è noto, quello scritto ha fatto epoca ed è passato alla storia come L’articolo delle lucciole. Confluito poi negli Scritti corsari, l’articolo delle lucciole è uno dei più noti e amati testi pasoliniani; proprio ad esso è dedicato pure il saggio di Georges Didi-Huberman Come le lucciole [Survivance des lucioles, 2009][12].
Era il primo febbraio 1975: due mesi e mezzo prima, il 14 novembre 1974, era uscito l’altro notissimo articolo, Il romanzo delle stragi, e nove mesi più tardi, la mattina del 2 novembre, all’idroscalo di Ostia, sarà ritrovato il corpo massacrato di Pasolini: questa intanto, anche questa, è la temporalità tra le parole e le cose attraverso cui guardare all’articolo delle lucciole.
Proviamo a riscorrerlo sommariamente; il testo è suddiviso in sei paragrafi: si comincia recuperando un articolo pubblicato da Fortini («L’Europeo», 26 dicembre 1974) di cui Pasolini rifiuta «il tendenziale esordio», ovvero l’assunto di una distinzione ancora possibile tra «fascismo fascista» e «fascismo democristiano» fatta a suo tempo dalla rivista «Il Politecnico», secondo un modello di scansione in fasi diverse del fascismo che rimontava al primo dopoguerra. Una decina di anni fa, scrive Pasolini, si è consumato il passaggio a un fascismo totalmente nuovo e altro, che può essere stigmatizzato da una «definizione di carattere poetico-letterario»: la «scomparsa delle lucciole». Prima di quel fenomeno, si spiega nel secondo paragrafo (Prima della scomparsa delle lucciole), «la continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta»; poi – siamo al terzo passaggio (Durante la scomparsa delle lucciole) – proprio gli anni del «Politecnico» hanno coinciso con fasi di transizione percepite attraverso analisi «in sostanza formalistiche», inadatte a comprendere davvero quanto la sovrapposizione delle due categorie del «benessere» e dello «sviluppo» avrebbero realizzato il «”genocidio” di cui nel Manifesto parlava Marx». Dopo la scomparsa delle lucciole – siamo al quarto snodo – si è compiuta la «prima “unificazione” reale subita dal nostro paese», attraverso la sostituzione traumatica dei «valori» del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico con nuovi modelli di «comportamento coatto» legati all’industrializzazione, al potere dei consumi, e che consentono di parlare di una vera «mutazione». Malgrado tutto però, scrive Pasolini, questo articolo non è stato scritto solo per polemizzare con Fortini, ma «per una ragione molto diversa. Eccola. Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri» sollevando le quali «ci sarebbe il nulla, il vuoto». «La spiegazione è semplice [si legge in attacco del quinto punto]: oggi in Italia c’è un drammatico vuoto di potere» che è un vuoto «in sé» perchè gli uomini democristiani, illudendosi che nel loro regime tutto sarebbe stato sempre uguale, non hanno saputo percepire né capire il passaggio dalla «fase delle lucciole» alla «fase della scomparsa delle lucciole», ovvero che «il potere reale procede senza di loro». «Tuttavia [si attacca nel sesto e ultimo paragrafo] il “vuoto” non può sussistere […] è probabile che in effetti il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è un indice ad esempio l’attesa “morbosa” del colpo di stato», come se si trattasse di un semplice problema di sostituzione piuttosto che di quel «potere reale» di cui per ora «noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche». Quanto a me, conclude Pasolini con il famosissimo fulmen in clausola da intendersi alla lettera ancor prima che in figura, «sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola».
Riprendere, almeno a grandi linee, i passaggi centrali di un articolo spesso ridotto all’unica immagine delle lucciole, può essere un gesto onesto di riconoscimento intellettuale. Con tutto il disordine e la disperata vitalità, Pasolini infatti si rivela, alla prova degli anni, sempre più capace di tenuta. L’autore degli Scritti corsari è veramente il saggista italiano del secondo Novecento che più di ogni altro ci parla della nostra attualità; e che dunque può servirci ancora molto, purché la sua opera non sia schiacciata su banali forme di iconolatria. D’altronde, è un gesto altrettanto onesto dichiarare che qui non si intende fare il punto, una volta per tutte, sui retroscena politici di quell’articolo: per esempio sulla relazione – opaca ma di certo attiva – che c’è tra l’ultima frase («darei l’intera Montedison per una lucciola»), le notizie sul caso Mattei che Pasolini sarebbe stato per svelare, la stesura di Petrolio e la sua morte. Pasolini, lo dice bene Tricomi[13], è di per sé «un’opera incompiuta», vocata a un destino, anche critico, «irrisolto». Né si potrebbe insomma sciogliere qui la matassa delle tesi giudiziarie via via riprese e discusse (per esempio, oltre che da molti film, ripetutamente e in modo appassionato da Belpoliti, Benedetti, Buffoni, su «Nazione Indiana[14]»).
Ho recuperato questo testo perché credo che, all’interno del discorso svolto sin qui sull’uso della notte e dell’oscurità come metafora non solo prevalente ma addirittura dominante, ossessiva, nel racconto degli anni di piombo, l’articolo delle lucciole fissi bene i modi di funzionamento e di ripresa continua di quell’archetipo; e possa rappresentare dunque un punto di partenza importante per la discussione – che qui si vuole più che altro ampliare, non certo esaurire – sulle predominanti narrative della stagione del terrorismo.
Molte volte il tema della scomparsa delle lucciole è stata usato come mito puramente poetico-letterario (lo presentava così già l’autore, è vero, ma parlando intanto anche di tutt’altro, come si è visto); o magari è stato ripreso come argomento di protesta affine ad altri idoli di un anticapitalismo romantico talora attivo in certa critica marxista. Ma il fatto è che l’elegia non basta; non convince: avvicina troppo la postura corsara a un miagolio (il codice del melodramma in Pasolini c’è, eccome, ma deborda di solito, si fa parola nervosa, piuttosto che appagarsi di un’armonia plastica: questi mesi che precedono la morte sono gli stessi dell’Abiura dalla Trilogia della vita, quelli in cui non si ha più voglia di giocare[15]). Né sembrano risolvere l’energia di quell’immagine lampeggiante a tratti, nel buio, le letture strettamente sociologiche, o magari orientate nella chiave di una sorta di ecologismo ante litteram.
Belpoliti, in un libro importante come Settanta, parla della scomparsa delle lucciole come di un’«evidente metafora sessuale»[16], che proseguirebbe, tra l’altro una simbologia presente già in una lettera del 1941 di Pasolini all’amico Farolfi, dove si ricorda «una quantità immensa di lucciole, che facevano boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli, e le invidiavamo perché si amavano, perché si cercavano con amorosi voli e luci, mentre noi eravamo aridi e tutti maschi in artificiale errabondaggio»[17]. è un passaggio di vita ricordata che cattura tutta la disperata energia sensuale, fisica come psichica, di un corpo nemmeno ventenne, e Belpoliti ha avuto ragione a recuperarlo; questa evidenza può bastare però a commentare l’articolo del 1974? Forse no. E anche il saggio di Didi-Huberman Come le lucciole è ricco di suggestioni e di spunti, come sempre, ma una lettura tutta centrata sul valore delle lucciole come simbolo di sopravvivenza (survivance) rischia di squilibrare la questione di fondo: per esempio perché rischia di diventare un’immagine tanto facile quanto fissa e identica a sé stessa, in cui si perde il motivo e il gesto dinamico della luce intermittente nel buio («la luce è frutto di un buio seme»[18]); si perde quell’oscillazione-contraddizione continua che attinge a una precisa temporalità storica e oltretutto è dispositivo centrale anche della poesia pasoliniana – uso l’esempio più semplice: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere / […] Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: // ma a che serve la luce?»[19].
«Darei l’intera Montedison per una lucciola»: dentro il buio/vuoto terrificante della storia, le lucciole che appaiono e scompaiono, esistono e non esistono, danno forma e la tolgono, sono metafora insuperabile di ciò che vive intorno e che non vedi: corpuscoli luminosi – non certo fiaccole votive – che producono vertigine dello sguardo nel medesimo istante in cui sconvolgono la direzione del tempo. Pensiamoci: esiste un’immagine che potrebbe spiegare meglio non solo il fenomeno del flashback, ma la capacità, di una stessa parola, di fissare due esperienze solitamente separate come il lato diurno della memoria e quello oscuro dei ricordi? Entrambi si confondono, producono fasci intermittenti ora di luce, ora di tenebra, sdoppiandosi l’uno nell’altro.
L’autore della scomparsa delle lucciole rivela allora, anche attraverso questo articolo, una capacità di «immaginazione politica» (secondo una definizione di Scalia) tanto alta quanto intraducibile (l’aggettivo è aggiunto da Piergiorgio Bellocchio)[20]: dove intraducibile, direi, non vale come sinonimo di “ineffabile” ma come espressione di una riluttanza alla concettualizzazione pacificata, alla definizione di una geometria fissa di rapporto tra le parole e le cose. Le lucciole fissano quella che si potrebbe provare a chiamare una figurazione concettuale: dove visivo e semantico stanno assieme in maniera potentissima. E intercettano dunque, con largo anticipo su molti altri testi, quello che nel tempo diventerà un motivo dominante della mitografia degli anni Settanta. Fino al punto di poter parlare di una modalità narrativa ossessivamente filtrata dalla compresenza di luce/buio, proiettata su uno scenario fantasmatico (penso anche a Fantasmi italiani, del 1974, di Arbasino[21]) e che, almeno sul piano del racconto, si è impadronita dei fatti, della realtà, dando loro forma. Precisamente quella forma da cui, in maniera anche apparentemente oscura, sentirà la necessità di ripartire pure Sciascia, proprio ne L’affaire Moro, che comincia così: «Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola […]. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora silenzioso pieno di voci e di giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini»[22].

[1] A. O’Leary, Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, traduz. di L. A. Salaris, Angelica Editore, 2007, p. 96.
[2] «Good Morning – Midnight – / I’m coming Home – / Day – got tired of Me – / How could I – of Him? // Sunshine was a sweet place – / I liked to stay – / But Morn – didn’t want me – now -  / So – Goodnight – Day! // I can look – can’t I – / When the East is Red? / The Hills – have a way – then – / That puts the Heart – abroad – // You – are not so fair – Midnight – / I chose – Day – / But – please take a little Girl – / He turned away!».
[3] S. Zavoli, La notte della Repubblica, edizione allegata a «l’Unità» del 17 gennaio 1994, p. 4
[4] I. Pezzini, Televisione e terrorismo in Italia. Un caso di studio: «La notte della Repubblica» di Sergio Zavoli, in Immagini quotidiane. Sociosemiotica visuale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 118-120 e passim.
[5] Cfr. A. O’Leary, Tragedia all’italiana, cit., p. 50.
[6] Ciò non toglie tuttavia che possano essere utili strumenti i dati e le considerazioni offerti da Luigi Reitani nella voce “Notte” da lui curata per il Dizionario dei temi letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, UTET, Torino 2007, vol. II, pp. 1671-1674.
[7] R. Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana (1969-2010), in AA. VV., Per Romano Luperini, a cura di Pietro Cataldi, Palumbo, Palermo 2010, pp. pp. 438-465.
[8] E. Wiesel, La Nuit, Les Éditions de Minuit, Paris 2007, pp. 78-79; La notte, trad. di D. Vogelmann, La Giuntina, Firenze (1992) 2000.
[9] B. Brecht, An die Nachgeborenen [A coloro che verranno], 1939, traduz. di R. Leiser e F. Fortini, in B. Brecht, Poesie e canzoni, Torino, Einaudi, 1959.
[10] Preparato in occasione del conferimento del Premio Lessing, il testo fu pubblicato per la prima volta nel 1960; è molto nota la traduzione inglese (curata da Clara e Richard Wiston con la consulenza della Arendt): On Humanity in Dark Times. Thoughts about Lessing, che apre la raccolta Men in Dark Times (Harcourt, Brace & World, New York 1968). In edizione italiana cfr. H. Arendt, L’umanità in tempi bui, a cura di L. Boella, Raffaello Cortina, 2006.
[11] M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, [1953], Einaudi, Torino 2008, p. 36. Sulla Grande Guerra, invece, riguardo alla poesia, molti utili campioni di espressione in notturna  potrebbero essere prelevati dall’antologia curata da A. Cortellessa, Le notti chiare erano tutte un’alba, Bruno Mondadori, Milano 1998.
[12] Bollati Boringhieri, Torino 2010, traduzione di Chiara Tartarini; cfr. pure l’intervista a cura di I. Mattazzi, Luce-buio Didi-Huberman. Una allegoria politica illuminata dalle lucciole, in «il Manifesto», 20 febbraio 2010 (di cui trovo particolarmente importante il passaggio in cui l’autore osserva che «Non è l’immagine a interessarmi in quanto tale, ma ciò che questa immagine veicola sul dolore degli uomini, sulla sofferenza dell’umano».
[13] A. Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005.
[14]http://www.nazioneindiana.com/2010/03/24/dopo-la-tragedia/; http://www.nazioneindiana.com/2010/04/01/il-corpo-insepolto-di-pasolini/; http://www.nazioneindiana.com/2010/04/08/sullomicidio-di-pasolini-replica-a-marco-belpoliti/
[15] «[…] se io dessi corpo a ciò che qui è solo potenziale, e cioè inventassi la scrittura necessaria a fare di questa storia un oggetto, una macchina narrativa che funziona da sola nell’immaginazione del lettore, dovrei per forza accettare quella convenzionalità che è in fondo giuoco. Non ho più voglia di giocare»: P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, pp. 544-545.
[16] M. Belpoliti, Settanta, nuova edizione, Einaudi, Torino 2010, p. 94.
[17] P. P. Pasolini, Lettere. 1940-1954, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1986, p. 37. Tutta la scena della comitiva ventenne è descritta attraverso il contrasto buio/luce.
[18] L’umile Italia, 1954, in P. P. Pasolini, Bestemmia, Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, con prefazione di G. Giudici, Milano, Garzanti, 1995 [1993], cit., vol. I, p. 209.
[19] Le ceneri di Gramsci, in P. P. Pasolini, Bestemmia, cit., vol. I, p. 227. Ma si veda pure: «Mendicare un po’ di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?», ivi, p. 203 (Comizio, 1954).
[20] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. XXXIV.
[21] A. Arbasino, Fantasmi italiani, Cooperativa Scrittori, Roma 1977. «I fantasmi del titolo rinviano naturalmente sia ai nuovissimi fantasmi della psicanalisi fantasmatica (“scenari immaginari in cui è presente il soggetto – l’Italia – e che raffigurano, in modo più o meno deformato dai processi difensivi, l’appagamento di un desiderio e, in ultima analisi, di un desiderio inconscio”, Laplanche & Pontalis), sia ai vecchi fantasmi della tradizione popolare che percorrono il nostro caro Paese con lenzuolo in testa e due buchi per gli occhi» (p. 8).
[22] L. Sciascia, Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano 1989, pp. 467-468.

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Un saggio originale, persuasivo e davvero ricco di spunti di rilessione. “La metafora della luce e della tenebra che fissa situazioni di accecamento della coscienza e della storia” mi ha ricordato anche un altro grande film uscito all’inizio degli anni Settanta, girato da Elio Petri: “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” che si chiude con l’immagine delle tapparelle che si abbassano nella stanza in cui il protagonista ha appena ricevuto gli inquirenti, mentre sullo schermo appare la citazione di Franz Kafka. Qui la forza della mefatofa è all’ennesima potenza. Il film è ricco di riferimenti artistici e culturali, ma non c’è dubbio che sia stato fortemente condizionato dagli eventi politici interni: la strage di piazza Fontana, la morte violenta dell’anarchico Giuseppe Pinelli e l’arresto di Pietro Valpreda.
Articolo molto bello, ben scritto e importante. Fra i molti significati possibili a cui il campo semantico della notte può alludere, penserei anche al buio profondo come impossibilità reale di conoscenza. Gli scrittori che hanno attraversato i lunghi anni Settanta hanno progressivamente e imperfettamente compreso che per intendere l’Italia, l’Italia non bastava più, se i suoi confini geografici non coincidono con quelli politici. La crisi che la sconvolge solo in parte è endogena. La luce sta altrove. Ma non è detto che sia un sole splendente. Grazie per quest’ottimo esercizio di critica. Complimenti
Il saggio di Daniela è esemplare, anche come prova delle potenzialità che la rete può offrire alla scrittura critica: in termini di maggiore libertà dell’indagine ermeneutica, di allusione per balzi rapidi a un’interpretazione (che mette in cortocircuito arti diverse) incentrata su una sola intuizione figurale (il campo semantico del buio). Sto tenendo un corso sulla forma-saggio nel secondo novecento e utilizzerò di certo questa lettura con i miei studenti, non appena affronterò le idee e le forme della saggistica di Pasolini! Ma, oltre che per la critica letteraria, il testo di Daniela è interessantissimo per l’immaginazione sociologica e politica: sciolte le funebri maschere dei democristiani che non capivano la nuova sostanza della società italiana “modernizzata”, il “vuoto” è stato occupato per vent’anni da un “pieno”: la maschera imbellettata dell’imprenditore. Ancora una volta, il sondaggio cognitivo delle forme simboliche del presente ci giunge dagli scrittori più che dai “politologi”…
Condivido quello che dice Emanuele: il saggio di Daniela è bellissimo. Mi sembra che Daniela ponga anche il problema di una permanenza delle lucciole al di là della loro elegia (quella che – dice Daniela – ha trasformato la postura corsara in miagolio) nel momento in cui sottolinea la loro energia effimera ma persistente. Pasolini voelva dirci che c’era “luce in tenebra” e dunque in quegli anni si era dispiegata anche una intensa vitalità (politica civile esistenziale). Penso al fatto che due anni fa, gestendo un seminario sulla poesia degli anni Settanta, i professori presenti – anagraficamente legati a quella stagione – parlarono a lungo proprio dei limiti di questa metafora del buio: per loro gli anni Settanta erano stati molto di più.
Brogi, ma tutte queste lodi non ti mettono ansia? Allora, visto che sono proprio condivisibili, aggiungo qualche dubbio:
a) Il buongiorno lo si dà a qualcosa che inizia. Quindi, la notte comincia con la morte di Moro, e non riguarda il periodo di massima diffusione del terrorismo. Se, allora, il titolo del film volesse dire che l’età di ferro inizia quando finisce l’età eroica del sangue e dei grandi conflitti? Se la notte fosse non quella di Zavoli, ma quella dopo, quando ormai si sono concluse le luttuose Traggedie d’horrori, e le Scene di malvaggità grandiosa? Se quello di cui si parla nel film di Bellocchio fosse, al di là della deprecazione degli anni di piombo, il rimpianto dell’età perduta della Grande Storia, per quanto/ in quanto atroce e piena di eventi tumultuosi?
b) il buio avvolge tutte le età di barbarie e di orrore, dal Medioevo in giù. Il che lo conferma come adattissimo al romanesque, e – tanti per restare in area – a tanti noir (!) italiani che hanno raccontato gli anni Settanta;
c) non sono convinto, come Zinato, che questo saggio sia «prova delle potenzialità che la rete può offrire alla scrittura critica». La serratezza del discorso, la tensione concettuale, la ricchezza dei rimandi, lo stesso apparato delle note lo rendono un saggio molto bello, ma da carta stampata. Il che aprirebbe la questione capitale del come scrivere sul web.
Bellissimo saggio, sorprendente per la maestria del discorso e del percorso critico: testi letterari e filmici, momenti storici e temi di ancora scottante attualità politica, vengono attraversati seguendo una metafora di cui interessa molto più la figura che i figurati. In un approccio di questo tipo (degno delle Lezioni americane di Calvino) la intelligenza si libra sovrana sulla pesantezza asfissiante delle ideologie e delle teorie.
Il riferimento alla Dickinson all’origine del titolo di Bellocchio mi fa venire in mente che in contesto notturno il titolo del libro di Calabresi, “Spingendo la notte più in là”, mi ha sempre ricordato quello di un bel disco degli Shins, “Wincing the night away” (con riferimento all’insonnia di cui soffre il leader della band). L’album è uscito nel gennaio, il libro nel maggio del 2007.
Come contributo non è un granché, ma io sono uomo di scarse letture…
Mi permetto di aggiungere – ma solo per rendere onore a questo saggio così convincente – una ulteriore nota ‘sul’ colore (nero, ovviamente).
Qualche anno fa un amico afro-americano a cui stavo raccontando un po’ di storia italiana recente mi chiese se dovevo proprio usare “black” per parlare del terrorismo nero, se non c’era un’altra parola. Io cominciai a spiegare che quel “black” non era lo stesso del “Black Power”: non aveva connotazioni razziali, ma veniva dalla storia della destra italiana, del fascismo, dell’esaltazione della guerra e così via. Per lui che era stato nel Black Civil Rights Movement la spiegazione risultò ancor meno convincente, visto che, mi disse, il fascismo aveva, eccome, “connotazioni razziali”. Il malinteso traduttivo (e simbolico) però mi ha sempre fatto riflettere su una questione ancora aperta, quella sorta di afasia della lingua italiana che colpisce il lessico (e quindi il pensiero) della differenza, e per cui ci ritroviamo “letteratura negra” nei cataloghi delle biblioteche o “culattoni” in bocca a Ministri della Repubblica. La questione non è meramente terminologica o di buona educazione, e addita a un rimosso della nostra cultura che a farlo emergere un poco porta ogni volta dritto al problema italiano per eccellenza – io credo – quello del potere.
Un bel saggio del 1931 di René Crevel (tradotto in inglese da Beckett) si intitolava “La negresse du bordel” e portava alla luce le contraddizioni al cuore della modernità: i bordelli di lusso delle metropoli, con la loro offerta di ‘prodotti’ esotici, facevano il paio con l’occupazione coloniale e la crescita dei patri imperi, e insieme corrispondevano bene alla divisione del lavoro simbolico del bianco e del nero, della purezza domestica e della sensualità ‘selvaggia’, dell’etero e dell’omo, del padrone e del servo. Diversi decenni più tardi Toni Morrison, in un libro chiamato Playing in the dark, chiamava “giochi al buio” le tracce della presenza africana rimossa nella cultura statunitense. Se il ‘nero’ italiano è ancora, malgrado quel che pensava il mio amico, quello dei poteri occulti, dei governi ombra, dei black block veri o infiltrati, delle manovre terroristiche, non tanto quello dell’identità razziale, è pur vero che, secondo le linee tracciate da Crevel, i suoi “giochi al buio” riescono ancora perfettamente a vampirizzare l’africanità sia nei diritti che nell’immaginario: il ‘bunga-bunga’ di ispirazione primitivista, con la ragazzina nordafricana che ha imparato in fretta a far commercio della propria esoticità, sta nella stessa catena di montaggio (ma non di potere) con le “lucciole” africane che punteggiano le strade della riviera.
Se il discorso dominante non ha idea di che lingua sta parlando, né sa dirimere queste incresciose prossimità tra edonismo e sfruttamento, qualche luce dovremo cercarla altrove, laddove ci si riappropria del ‘nero’ come momento non di oppressione o oscuramento, ma di fondazione del sé, fosse pure nella marginalità (vedi, per es., le “pecore nere” Kuruvilla, Mubiayi, Scego, Wadia). In questo la metafora di Pasolini, che in un sol colpo si riappropria sia della luce che della notte, è davvero irriducibile e potentissima. Grazie all’autrice di questo pezzo per avercela raccontata in modo così ricco.
Grazie per la lettura, e per il vostro tempo.
Gli elogi son troppo generosi, e non vorrei fare come il protagonista del film ricordato (Un cittadino al di sopra di ogni sospetto), ma seriamente sono convinta che il mio intervento possa essere migliorato. Pone una questione di cui a questo punto sono lieta di accertare l’interesse e la serietà, ma certamente le risposte – già lo ammettevo – non sono finite. Spero dunque che la discussione prosegua, mentre intanto son persuasa che valga la pena di continuare a rifletterci su, proprio grazie ai commenti. È un vantaggio dell’uso possibile della rete come luogo di confronto critico, ma su questo tornerò più avanti.
@ Corrado Benigni
Non avevo considerato con attenzione l’opera di Elio Petri, ma certamente il suo film e più in generale la rete di rimandi tra la sua cinematografia e i libri di Sciascia arricchiscono il paesaggio.
@ kosmodromo
Sono molto d’accordo quando scrive che «Gli scrittori che hanno attraversato i lunghi anni Settanta hanno progressivamente e imperfettamente compreso che per intendere l’Italia, l’Italia non bastava più, se i suoi confini geografici non coincidono con quelli politici».
@ Emanuele Zinato – Tiziana de Rogatis – Raffaele Donnarumma
Recupero tra poco le osservazioni di Zinato sulle potenzialità che la rete può offrire alla scrittura critica.
Intanto tre spunti: non so se l’unione di visuale e concettuale, dal punto di vista del discorso critico, sia una risorsa più congeniale alle pratiche discorsive della rete, tuttavia io ci credo molto. E anche su questo Pasolini è stato un precursore: è il motivo per cui definivo le lucciole come una sorta di figurazione concettuale.
Certo: esplorare il cortocircuito tra arti diverse e scavalcare con serietà i confini – spesso surretizi – tra le discipline non è facile. In una recensione pubblicata sul domenicale del “Sole” qualche settimana fa, Claudio Giunta giustamente avvisava di fare attenzione alle insidie dell’esercizio critico comparativo, e in particolare alla sua deriva più pericolosa – e fastidiosa – vale a dire il bricolage. Credo che Giunta abbia molta ragione, e il mio uso delle note a margine, con rimando puntuale alle fonti, in fondo tenta di controllare – o quantomento consentire al lettore di controllare – proprio simile rischio.
E infine è molto condivisibile pure il passaggio in cui Zinato scrive che «il sondaggio cognitivo delle forme simboliche del presente ci giunge dagli scrittori più che dai “politologi”…». L’articolo delle lucciole a mio parere conferma tutto questo. Ma al tempo stesso mi premeva discutere – forse in passaggi troppo sintetici e veloci – che quelle forme di rappresentazione del terrorismo tutte articolate secondo la semantica del buio hanno costruito anche una “mitografia” coatta degli anni Settanta. Perciò parlavo dell’oscurità come metafora ossessiva, dispositivo totalizzante di condensazione dei significati. E proprio in questo senso – per rispondere subito al secondo dubbio esposto da Donnarumma quando scrive che «il buio avvolge tutte le età di barbarie e di orrore, dal Medioevo in giù. Il che lo conferma come adattissimo al romanesque…» – io credo, replicando appunto a Donnarumma, che, malgrado la notte sia certamente un archetipo che attraversa tutte le epoche, la differenza tra l’uso romanesque della notte nel Decameron (l’esempio più veloce: la novella seconda della terza giornata, quella di Agilulfo) o nella “notte degli imbrogli” di Promessi sposi, VIII, e la ricorrenza così esclusiva della notte nelle narrazioni del terrorismo sia tangibile e fortissima.
Il commento di Tiziana de Rogatis arricchisce proprio questo ultimo punto: per usare una metafora, ci rimette i colori (lo dico con la stessa lucidità con cui tante volte ci diamo reciprocamente torto), chiede di rimettere accanto al racconto tutto in chiaroscuro dell’Italia degli anni Settanta un’esperienza di luce che davvero, malgrado tutto, ha contraddistinto il senso comune di quell’epoca, malgrado la letteratura e il cinema di solito abbiano privilegiato l’effetto notte. Bisogna rifletterci meglio.
@ Gianluigi Simonetti
che ci mette la musica, sono gratissima. È pleonastico, ma propongo questo traffico di refurtiva: http://www.youtube.com/watch?v=zJ5ufdOckmE
@ Renata Morresi
Grazie per la sua attenzione: tutti i commenti che posta su “Le parole e le cose” confermano, a mio parere, l’efficacia di questo blog.
Morresi parla del rimosso che ci abita attraverso le parole: sembra una questione logora e non lo è. Proprio stamani, mi sono sentita dire “leggi razziali” quando invece, come giustamente mi ha ricordato una collega, l’espressione più giusta da usare è “leggi razziste”.
Ho imparato molto da tutto quello che scrive Morresi, e attendo di leggere ancora.
@ Donnarumma, è giunto il momento. Mi sta tanto a cuore risponderti, e sono già sicura che lo farò incompletamente, eppure bisogna: non solo perché sei un esperto di narrativa del terrorismo (diciamo pure il più bravo), ma perché poni una questione di fondo: la scrittura sul web (era il punto c) della tua replica).
Al punto b) ho già risposto, e quanto al dubbio a) («Il buongiorno lo si dà a qualcosa che inizia. Quindi, la notte comincia con la morte di Moro, e non riguarda il periodo di massima diffusione del terrorismo»). Mi pare che tu abbia ragione, nel senso che è giusto interrogarsi e continuare a interrogarsi sulle periodizzazioni e gli scarti cronologici delle varie fasi del terrorismo, ma dal punto di vista del racconto che è stato fatto di quegli anni, dal punto di vista dell’automitografia di quegli anni (era il focus principale del mio discorso), e tutto sommato anche dal punto di vista del film di Bellocchio, tutto questo tuttavia non invalida l’estensione della metafora del buio anche al periodo precedente. Il fatto è che il modo così geometrico con cui imposti la domanda, provocandomi per passione della discussione, a me pare troppo secco. Se ha senso dire “il buongiorno lo si dà a qualcosa che inizia”, ha altrettanto senso dire : “ la notte è qualcosa che arriva alla fine”: a seconda del punto da cui parti si avranno risultati – o paralogie – diversi, ma non erano questi che mi interessavano principalmente. E in ogni caso nella prima parte del mio lavoro, quando accennavo a Buongiorno, notte, insistevo sull’ossimoro piuttosto che sull’antitesi tra giorno e notte. Quello stesso ossimoro che si incarna, visivamente e concettualmente, nell’immagine delle lucciole. Insomma: a dirla tutta, a me sembrano, messi così, dubbi un po’ tortuosi, un po’ come il linguaggio dell’Anonimo manzoniano, per l’appunto. E d’altra parte sono repliche coerenti con il passaggio in cui scrivi «non sono convinto, come Zinato, che questo saggio sia “prova delle potenzialità che la rete può offrire alla scrittura critica”. La serratezza del discorso, la tensione concettuale, la ricchezza dei rimandi, lo stesso apparato delle note lo rendono un saggio molto bello, ma da carta stampata. Il che aprirebbe la questione capitale del come scrivere sul web».
Non voglio darti torto né ragione completamente, perché credo che sia importante non vivere il lavoro della critica letteraria – almeno nel senso in cui entrambi lo intendiamo – come alternativa necessariamente obbligata tra questi due luoghi: quello virtuale, della rete, e quello reale, della carta stampata. Gli interventi che hai postato a proposito dell’articolo di Simonetti su Elisabeth di Sortino (http://www.leparoleelecose.it/?p=993) sono esempi eccellenti di un discorso critico di qualità. E credo che siano stati utili a molti, oltre che a me.
Da parte mia, scrivendo questo articolo, che è nato di proposito come lavoro destinato a Le parole e le cose, ho inteso fare un esperimento critico; ho scommesso, certo coi mezzi di cui disponevo, sulla possibilità di forzare i codici del discorso in rete – a costo di rischiare di appesantirlo. Ho argomentato, inserito le note, le fonti, ho citato nel corpo del testo gli autori che come te hanno detto finora le cose più interessanti sulla questione trattata. Insomma: ho provato a ripensare, come potevo, la sostenibilità della rete, proponendo, sì, codici considerati desueti on line. Il riscontro mi incoraggia. E mi incoraggiano, accanto all’alta qualità dei commenti, anche le risorse che effettivamente questo luogo può dare: per esempio la possibilità di raggiungere una comunità più ampia e trasversale, o la circostanza stessa per cui stamani, a un giorno di distanza dalla pubblicazione, ho potuto discuterne con un nostro collega che vive in Australia (quanto tempo sarebbe occorso con il cartaceo?).
Non siamo soltanto critici letterari; siamo anche lavoratori della conoscenza: anche questo può essere un modo di interagire con quella povertà culturale e lessicale di tanti studenti – e non solo – che ci sgomenta così tanto, e che nasce evidentemente anche dal malcostume indotto dalla rete a consumare senza mediazioni la parola scritta.
Domande ronzate in una vecchia capoccia mentre leggeva testo perfetto e commenti laudatori in questo post:
1. La rivoluzione russa fu una lucciola illuministica o l’inizio di una notte oscurantista?
2. A cosa di “reale” rimanda la metafora della luce e dell’oscurità, se non si vuole che rimanga pura metafora, archetipo eterno, rivestimento visibile di qualcosa che sempre rimarrà mistero ineffabile e inafferrabile?
3. Cosa distingue l’oscurità (soprattutto politica per me, che volo rasoterra) degli anni Settanta dalle tante altre “nuttate” che coprono secoli?
4. E’ possibile parlare di immaginario degli anni Settanta senza misurarsi a fondo sulla storia degli anni Settanta? O del film di Bellocchio senza appoggiarsi solo ad altre rappresentazioni televisive o letterarie in funzione di quasi vangelo?
5. Davvero il film di Bellocchio dà sicuramente qualcosa in più rispetto ai saggi storici o alle riflessioni d’ogni tipo su quegli anni (perché, si sa, sempre l’arte è un passo avanti sull’arida interrogazione scientifica)?
A voi interesseranno poco le mie domande (sono fuori dal giro e LPLC mi ha già invitato a “moderare i toni”), ma sappiate che per me è tremendo sentirvi parlare di metafore della luce e dell’ombra a proposito degli anni Settanta senza vedervi manco sfiorare la storia di allora.
Non ne parlate perché è terreno ormai sviscerato dagli storici e quindi ben sistemato almeno nelle menti coltivate di questo Paese? O tali e tanti sono i fili di continuità che da quel verminaio conflittuale ancora da guerra fredda giungono al verminaio catatonico e globalizzato d’oggi, per cui Torquato Accetto è il vero guru della odierna critica letteraria? O un tabù non dichiarato impone che gli anni Settanta vadano giudicati «i peggiori della nostra vita», come hanno scritto in coro (sospetto) gli AA.VV. nel libro della Marsilio, dimostando quale sonno della ragione oggi domini il made in Italy intellettuale (o che per salvare i chiaroscuri- al massimo – l’alba “innocente” del ’68 venne oscurata dai cattivoni terroristi?) O c’è, a disciplinare corpi e menti degli intellettuali, la pratica degli scompartimenti stagni, per cui i letterati facciano i letterati e gli storici gli storici e gli economisti gli economisti; e non devono più esistere scambi, sollecitazioni, provocazioni, polemiche, se non “corrette”, se non “inter nos”, con finale, ideologica, allusione ad una mitica, futura, utopica ricomposizione dei saperi?
Sinceramente ve la dico tutta: i vostri discorsi estetici così ben composti e senza sbavature mi paiono ottime corazze contro l’extraletterario, le cose, il conflitto, che almeno alcuni degli autori da voi citati (Pasolini e non solo lui) sapevano, negli anni Settanta, ancora nominare storica-mente, dando sostanza alle loro metafore, prima di finire confezionati “in salsa piccante”.
E un po’ per mettere zizzania tra studiosi così provetti e seri, aggiungo che ho letto anch’io, con altri occhi e memoria però, lo scritto citato in nota di Donnarumma e che lo vedo neutralizzato in questo contesto iper-estetico.
Io vi ho letto chiaro e tondo che «il terrorismo ha prodotto una serie di discorsi letterari che, mentre lo dicevano, insieme lo nascondevano (p. 443). E ci sento una buona, saggia, (fortiniana?) diffidenza (non rifiuto, per carità!) verso la letteratura-letteratura.
Vi ho letto che «fare una storia dell’immaginario [degli anni Settanta] significa spesso fare la storia di come ci proteggiamo dalla storia e di come cerchiamo di allontanarla». Parole sante. Forse riferibili anche al film di Bellocchio (che non ho visto e non vedrò).
Qui, invece, si ricama, si sguazza nell’immaginario, s’insegue nei secoli l’archeologia delle sue figure, delle metafore della luce e della notte. E nell’immaginario (ahimè, senza più il “materiale”!) si resta.
Eppure c’è qualche residuo autosospetto, se si dice che « l’immaginario è una zona spesso ambigua, fantasmatica, e dai confini molto meno pacificati e chiari, ossia meno delimitabili con nettezza». Ma, allora, che si fa? Se ne esce? Se ne può uscire? O bisogna girarci attorno in eterno? Anche Benjamin, mi pare di ricordare, disse che ad un certo punto bisognava pur risvegliarsi dai sogni (dall’immaginario). O mi sbaglio?
Qui si accenna a Mario Calabresi e pudicamente viene appena ricordato che è «figlio del commissario ucciso nel 1972» e nulla più. Perché si è tra letterati? Perché di tali faccende si occupano gli storici?
Almeno Donnarumma nel suo saggio ricorda che «non esiste “un racconto” sociale sul terrorismo o, poniamo, sul caso Moro: esistono molti racconti che lottano per affermare una loro idea di quei fatti; e non è detto che riescano ad espellere le versioni opposte» (p. 442). E tiene – credo – uno spiraglio aperto verso una storia non rappacificata e unficata. Qui no.
Concludo. Mi spiace di rompere sempre (con crescente amarezza, lo giuro) le uova così elegantemente depositate nei vostri post-panieri. Già mi aspetto le solite accuse di “fraintendimenti”. E diplomaticamente e con un vostro sospiro di sollievo, prometto di saltare un po’ di post prima di azzardare altri commenti.
Spero di resistere.
@Ennio Abate
Sì, resista, la prego, mentre da parte mia resisterò a considerarla una persona sgarbata e farò tesoro delle sue critiche.
E perché mai “persona sgarbata”? L’obiezione di Ennio Abate mi sembra perfettamente comprensibile, e chiunque scriva su terrorismo e letteratura dovrebbe aspettarsela. E’ una obiezione di principio, ma importante, e la discussione serve proprio a mettere in dubbio i principi, altrimenti si rischia di restare nel ghetto della stessa doxa. Le obiezioni di Raffaele Donnarumma erano molto più distruttive della sua, eppure sono state analizzate con molta pazienza. Perché Ennio Abate non merita la medesima attenzione? Da quanto mi è parso di capire, si tratta di una persona (o dell’unica persona) che ha vissuto quegli anni e il suo punto di vista -solo per questo- meriterebbe un po’ di interesse e di rispetto. Se l’obiezione è banale, basta distruggerla con buoni e rapidi argomenti, non gridare al marziano o rispondere che non si ha più tempo.
Non è la prima volta che critiche di principio provenienti da sconosciuti o persone non gradite vengono censurate o gentilmente trascurate. A volte, da lettore esterno, ho l’impressione di spiare dal buco della serratura una riunione di amici. E’ molto bello questo blog: abbiatene cura!
Da quando esiste, LPLC ha dovuto ricorrere alla censura una volta sola, effettivamente ai danni di Ennio Abate, su invito di un utente che si era sentito personalmente offeso, a nostro parere a giusto titolo, da una sua frase polemica. Solamente la frase contestata è stata rimossa.
Non ci pare che all’interno di questo thread ci sia motivo di ventilare ipotesi censorie.
Detto questo, ringraziamo Averroè per le sue altre osservazioni critiche, che ci paiono condivisibili e che meritano la nostra attenta riflessione.
@Averroè
le critiche sono fondamentali. Posso rispondere su questioni precise riguardanti il testo di cui si discute; non posso farlo, non mi riesce, e tutto sommato ho il diritto di scegliere di non farlo, quando invece si tratta di replicare a chi si vanta di non conoscere ciò di cui si parla, ma in ogni caso mi aggredisce e mi coinvolge nel processo intero a una generazione, o nei conti in sospeso con la propria generazione. Terrò presenti, come ho già detto, le obiezioni di Abate, e pure le sue, che trovo molto più interessanti. Grazie a tutti.
Però! Una discussione che merita di essere chiamata discussione!
@ Brogi
È vero, c’è notte e notte e, come le vacche, non tutte le notti sono dello stesso nero. Io però pensavo proprio ad atmosfere gotiche e da feuilleton: di qui l’allusione al noir.
Messo a fianco di tante altre cose sul terrorismo, a me sembra che il film di Bellocchio sia interessante proprio perché enfatizza l’ossimoro di cui tu parli, e che sta anche altrove, ma in modo meno produttivo: quello per cui gli anni Settanta sono stati terribili e perciò grandi e perciò narrabili e perciò da rimpiangere, visto che il tedio è iniziato dopo. La notte arriva alla fine: sì, del giorno – e allora, erano gli anni Settanta a essere il vero giorno. L’ossimoro è un’antitesi in compresenza: e quindi, include un’antitesi.
Sono d’accordo quando dici che non c’è, per la critica letteraria, un’alternativa secca su web e carta stampata. Però neppure mi faccio illusioni sulla democraticità del mezzo – di cui, infatti, tu non parli: e ti rivolgi pur sempre un pubblico di élite, composto di universitari sparsi per entrambi gli emisferi. In effetti, mi chiedo se LPLC debba essere pensato come lo scaffale dello champagne nel supermercato della rete, o uno scomparto con un’offerta di vini più ampia, e meno esosa (tavernello e damigiane all’etanolo escluse). Secondo me, il problema di una vera democratizzazione dello stile e dell’argomentazione (qui come sulla carta, del resto!) rimane. Ne vedo vari esempi proprio quassù, piuttosto diversi: solo a guardare gli ultimi giorni, mi è piaciuto il pezzo di Simonetti, ho apprezzato quello di Giubilini pur essendo in disaccordo sul merito, trovo che Abate dica delle cose importanti in un tono giustamente acceso. Ma mi sembra che ancora le famose possibilità della rete non le sfruttiamo, e che la critica 2.0, sino ad ora, non abbia dato quel che potrebbe. È una discussione che meriterebbe fare a parte.
@ Abate
Il problema che lei pone, cioè quello del rapporto fra immaginario e storia, è quello da cui sono partito. Personalmente, non vedo l’immaginario come un’entità impalpabile, ma come una serie di discorsi il cui peso politico e ideologico è fortissimo, ma la cui natura non si limita alla politica e alla ideologia. Secondo me, è urgente una critica dell’immaginario che ci abita e nel quale respiriamo, e il saggio di Brogi ne è un ottimo esempio perché fa vedere come funzioni una metafora, e quali conseguenze interpretative e pratiche abbia. C’è poi una differenza sostanziale tra i modi di raccontare il terrorismo a seconda delle fasi e delle generazioni: il racconto in praesentia, prodotto da Sciascia o Pasolini o Volponi o tanti altri è un’altra cosa dalla mitologia prodotta quando il sangue non viene più sparso (se non eccezionalmente: Biagi e D’Antona). E c’è una differenza decisiva tra chi raccontava il terrorismo che aveva davanti, e non poteva del tutto vedere, e chi, nella generazione nata a fine anni Sessanta/inizio Settanta, lo racconta avendo molti più mezzi per capirlo, ma sotto l’ipoteca di una mitologizzazione che a tratti lo muta in favola. Sono gradi mutevoli di conoscenza e di misconoscimento.
Però Bellocchio lo guardi, e, soprattutto, ci faccia sapere che ne pensa.
@ Averroè
Distruttivo? Quel post lì? Mi sottovaluti!
Trovo tutto molto giusto – a parte il punto in cui si dice che Abate usa toni “giustamente accesi”. perdonami – perdonatemi – la capziosità, ma un passaggio mi ha fatto capire di aver usato un’espressione davvero cretina. la correggo dunque, e intanto aggiungo uno spunto alla discussione sulla scrittura sul web.
Gli universitari “sparsi per gli emisferi” (che bravo, hai acchiappato subito la mia frase sbagliata) a cui mi rivolgo sono precari, cervelli in fuga, ex studenti andati via da questo paese per vecchi. Ci tengo a precisarlo perché il problema della democraticità della scrittura in rete è giusto e fondato, però trovo giusto articolarlo guardando a ciò che è materiale appunto, tenendosi alla larga, per quello che si può, dal rischio di alimentare l’ antintellettualismo che ormai abita la cultura italiana. Insomma: essere universitari non è cosa brutta e scandalosa a tutti i costi e lo champagne non è articolo di chi guadagna 1300 euro al mese, dài. non diamo cibo a questo cliché con battute irresistibili.
dalla scomparsa delle lucciole alla scomparsa di un mondo che si ribellava alla scomparsa di un mondo. mi sembra che oggi le cose stiano molto peggio di quando Pasolini scriveva il suo famoso articolo per il quale coniò quella bella e fongorante metafora… ma per andare fuori di metafora credo che noi oggi per indicare quel «vuoto» indicato da Pasolini non abbiamo altro modo che chiamarlo «vuoto»; non è vero che il Potere e il Palazzo prima o poi correranno ad abitare quel «vuoto», ritengo che oggi il sistema dell’economia (e della politica) della stagnazione forzata si difenda (paradossalmetne) indicando e mantenendo quel «vuoto»… lo so, è una formulazione paradossale ma credo che questa sia la situazione attuale del Paese. È il «vuoto» che Bossi esorcizza chiamando il suo popolo alla secessione; è il «vuoto» che Berlusconi esorcizza chiamando il suo popolo alla governabilità (perché tutto cambia se tutto rimane come prima); è il «vuoto» che si sovrappone ad altro «vuoto»… siamo testimoni in questi ultimi due tre decenni di una moltiplicazione e intensificazione del «vuoto» in tutti i campi, da quello letterario a quello del politico. E la conseguenza è che tutti e ciascuno continua a parlare dentro quel «vuoto» che fagocita ed espelle il buio e la luce, li emulsiona e li fa ribollire in una schiuma fumogena salmastra ed arsa. Dentro il «vuoto» attuale della stagnazione stilistica (etica, estetica, politica) il Paese continua ad incartarsi, questo è il lato amaro e derisorio di questo disgraziato Paese; ciascuno si limita ad innaffiare (anche con intelligenza) il proprio orticello… il risultato è che si aggiunge al «vuoto» un po’ di profumo (ho ricordo del fortiniano «profumo di servi»).
Che dire? Direi che stiamo assistendo ad un aggravamento della crisi, che probabilmente il prossimo futuro vedrà un ulteriore aggravamento della crisi… e tutto dipenderà dalla capacità di accusare i colpi della piccola borghesia italiana … direi che è buon segno che gli imprenditori siano sfilati in marcia contro il governo dell’inefficienza e della corruzione… ma siamo sicuri che questa crisi non si risolverà in un nuovo (e vecchio) dispotismo fiscale-finanziario con intere generazioni di disoccupati e di precari umiliati e offesi?
«..E la conseguenza è che tutti e ciascuno continua a parlare dentro quel «vuoto» che fagocita ed espelle il buio e la luce, li emulsiona e li fa ribollire in una schiuma fumogena salmastra ed arsa»: quello che scrive giorgio linguaglossa mi sembra molto vero e detto davvero bene: attraverso un’immagine (per tornare a questioni discusse nei post precedenti) suggestiva ma per niente rarefatta, che cattura visivamente e concettualmente il vuoto tra le parole e le cose della società italiana.
È verissimo. I mezzi per capire quel tempo a chi era – a chi stava ventenne in quel tempo non erano poi così tanti. Non si riusciva nemmeno a capire, in verità, come fosse possibile che “L’articolo delle lucciole” era in prima pagina sul Corriere. Sono uno dei moltissimi che lo lesse ammirato il giorno che uscì. Ricordo perfino il punto esatto dove lo lessi. L’ho appena riletto. C’è un passaggio che vorrei segnalare, ed è questo: “Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere.” È un passaggio che mi appare complicatissimo eppure centrale, in ogni sua parte; anche in quella sua non certo elogiativa locuzione – “questa gente italiana” – mitigata tre volte da quell’ “amore reale”.
Grazie a Daniela Brogi per questo suo saggio molto bello.
Sì esattamente Adelelmo Ruggieri: penso anche io che quel passaggio sia cruciale – si potrebbe ricostruire un’intera discussione proprio su quel passaggio. grazie di averlo ricordato e di aver pure decriptato un motivo che forse avevo troppo imboscato nel testo di partenza, ovvero l’importanza di rileggere l’articolo delle lucciole per intero.
Arrivo tardi, ma mai troppo tardi per ringraziarti, Daniela, di due cose: il saggio brillantissimo e la segnalazione che me ne hai fatto. Partire dal film di Bellocchio per dipanare un discorso critico sulla metafora del buio che approda a Pasolini e alle lucciole è stato un seguirti in un percorso avvincente, di conoscenza, riguardo al quale potrei solo aggiungere (correndo i rischi additati da Giunta) un parallelo con “Tenera è la notte”, solo per dire che il buio è anche il luogo in cui si sfugge, come il protagonista di Fitzgerald, alle proprie responsabilità mature. Questo fu anche – detto da uno che nella seconda metà degli anni Settanta a Firenze ha frequentato ambienti abbastanza borderline – il terrorismo. Bravissima.
Qualche considerazione: ma di quale “terrorismo” si parla nel saggio, o ha in mente l’autrice? La periodizzazione adottata “del terrorismo italiano tra i fatti di Piazza Fontana (1969) e la strage della stazione di Bologna (1980)”, e ancora: “tra la strage di piazza Fontana e il ventennio successivo”, mi pare il punctum dolens politico di tutta la faccenda narrativa. Si tratta d’una periodizzazione singolare, perché se vuole intendere il terrorismo delle Brigate Rosse e dei gruppi armati che vi facevano riferimento, allora sarebbe corretto iscriverlo nel periodo che va tra la primavera del 1970 (primi comunicati della “Brigata Rossa”) e, poniamo, il gennaio 1987 (fine dell’esperienza unitaria storica delle BR). Non si tratta d’un semplice “puntiglio” filologico, dato la cronologia su cui il saggio si basa ha ai suoi estremi due “fatti” di pertinenza non già del “terrorismo rosso”, bensì di ciò che è stato definito stragismo di Stato, con relativi depistaggi, collusioni, connivenze tra apparati dello Stato, politica e servizi segreti stranieri. La mescolanza di questi due antitetici piani narrativi (per dir così, anche se personalmente diffido del concetto di storia come Grande Narrazione) è, di fatto, l’humus di cui si nutre la metafora del buio sviluppata dal saggio. “Oppressione e buio” accomunerebbero emotivamente e sensorialmente le “vicende” terroristiche a prescindere, ma nella stesso carniere temporale idealizzato (e d’una temporalità meramente lineare, peraltro, si tratta) vengono stipate prede affatto allotrie, due “narrazioni” estranee una all’altra. Inoltre, mentre il c.d. stragismo di Stato ha operato nell’oscurità, e resta una delle zone buie della storia politica italiana, per cui anche per la corrispondente narrazione è legittimo avvalersi della metafora del buio (o meglio sarebbe dire la corrispondente allegoria, visto che si tratta di narrazione), il terrorismo brigatista (quello tout court ipotizzato nel saggio) ha operato, per dire dal punto di vista tecnico, senza entrare ovviamente nel merito politico, alla luce del sole, ossia producendo documenti, proclami e comunicati, è stato cioè un terrorismo diurno se messo a confronto con il sotterraneo e “anonimo” stragismo di Stato. Ma so che a questo punto la questione politica da dirimere (che è anche, ma solo dopo, narrativa) passa dall’autrice, che si limita a registrare la percezione di buio di quegli anni avuta dagli autori dei documenti (peraltro pochi ed eterogenei: dal reportage al film al racconto giornalistico) esaminati, agli autori stessi, ossia all’immaginario e alla sensibilità politica dei vari Bellocchio, Zavoli, Calabresi, ecc. Detto in altri termini: salta qui fuori un problema di verità storica e di sua rappresentazione artistica (anche se di artistico c’è solo il fim di Bellocchio). Mentre, per contro, la metafora mutuata dal film Gli anni di piombo di Margarethe Von Trotta nulla a che fare aveva con l’oscurità percepita, bensì con la grevità politica e “materica” di quegli anni.
Per concludere queste obiezioni metodologiche, una questione di “passaggio” vorrei formulare: ha una fine (storica, politica, ma anche narrativa) la metafora del buio? L’escamotage del saggio consiste nel sostituire alla metafora del buio quella del vuoto, mutuata dall’articolo di Pasolini sul “Corriere della Sera”, noto come “L’articolo delle lucciole”. Ma a tale trasformazione si potrebbe applicare la stessa obiezione che Pasolini formulava all’articolo di Fortini (apparso su “L’Europeo” del 26-12-1974) a proposito della distinzione tra “fascismo aggettivo e fascismo sostantivo” operata dalla rivista vittoriniana “Il Politecnico” (1945-47), vale a dire che essa “non è né pertinente né attuale” dal punto di vista analitico e storico. Difatti, Pasolini applicava la metafora del vuoto al mutamento decisivo, antropologico secondo lui, intervenuto con la falsificazione e la distruzione dei “valori” del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, che aveva portato i “potenti democristiani” a divenire “maschere funebri” che coprono il vuoto: “il potere reale procede senza di loro”. Pasolini concludeva l’articolo con la consapevolezza che quel vuoto si stava riempiendo “attraverso una crisi e un riassestamento” che avrebbe sconvolto l’intera nazione. Ebbene, oggi il “riassestamento” è venuto, e quel vuoto è stato riempito con altre maschere, gioiose nell’annunciare la vittoria del mercato unico e la sua capacità di autoregolamentazione. Illusioni a parte, ci troviamo comunque a leggere e a scrivere in una fase capitalistica nuova, altra rispetto a quella fortiniana e pasoliniana,che nulla a a che fare con l’immagine poetica delle lucciole. Anzi, come s’era accorto già Sciascia, le lucciole sono ritornate, per cui – semmai – bisognerebbe riflettere sulla natura della loro nuova presenza, sul tipo di luce che esse emanano e se l’attuale sia davvero la luce subentrata alla metafora del buio.
Insomma, l’articolo di Pasolini non è né profetico né dirimente, esso è semplicemente datato, e, per dire provocatoriamente con il Fortini del 1972 (“Pasolini non è la poesia”): “Molte cose Pasolini sa fare. Non la più importante per lui: che sarebbe di stare un po’ zitto”.
Il commento di errebì è, se posso, un po’ fuori fuoco. Non perché le cose che dice sia inesatte, tutt’altro! ma perché a mettere fuori gioco le distinzioni che fa è appunto la narrativa italiana, soprattutto dai primissimi anni Settanta alla metà degli anni Novanta. Di fatto, si elabora uno schema interpretativo che ha a che fare soprattutto col terrorismo nero, e che si proietta poi su quello rosso, facendo sfumare pericolosamente le distinzioni. Ricordo del resto che le Br sono state sedicenti per il Pci e l’Unità sino al 1975: la violenza politica era tutta, direttamente o indirettamente, espressione del Potere e della Borghesia – il che permette di allontanare lo spettro di una parte della classe operaia davvero sedotta da una ipotesi/parodia di rivolusione. In effetti, quello di cui qui si parla non è la realtà storica del terrorismo: anche dopo la metà degli anni Novanta, quando diviene tema di moda e moltissimi documenti sono a disposizione di tutti, continuano a protrarsi schemi interpretativi poveri e unificanti (complotti, grandi vecchi, nichilismo, uccisione dei padri ecc.). È, piuttosto, una volontà pertinace di nascondere il terrorismo e, nel caso di quello rosso, di liquidarne il significato politico e sociale. La letteratura (e, ma meno, il cinema) servono qui a misurare la distanza dalla storia e dalla cronaca, non la prossimità. Se, tra le maglie, viene fuori una verità, è di tutt’altro ordine, e riguarda un’angoscia di fronte alla storia, anziché la sua fisionomia appurabile.
@ Donnarumma: direi appunto, se ho ben capito il soggetto dell’impersonale “si”: “a mettere fuori gioco le distinzioni che fa è appunto la narrativa italiana, soprattutto dai primissimi anni Settanta alla metà degli anni Novanta. Di fatto, si elabora uno schema interpretativo che ha a che fare soprattutto col terrorismo nero, e che si proietta poi su quello rosso, facendo sfumare pericolosamente le distinzioni”. Quindi, se ho ben capito, ripeto, non sono le distinzioni che faccio ad essere fuori gioco (peraltro mi sono limitato al materiale, un po’ esiguo e poco narrativo, preso in considerazione dal saggio), ma semmai lo “schema interpretativo” della narrativa italiana. Non esistono proiezioni dell’un terrorismo sull’altro, quello rosso non è stato una semplice né meccanica risposta a quello nero (che poi di nero aveva solo la facciata, io ho parlato di stragismo di Stato, che aveva ben altra strategia da quella dei “manovali”). Ma al di là di ciò, mi pare importante mettere la metafora del buio in relazione con l’immaginario e il pensiero politico degli autori citati dal saggio, e non prendere per oro colato la loro percezione dell’oscurità. E importante mi pare anche la valutazione politica attuale dell’immagine poetica pasoliniana delle lucciole, vale a dire se dalla metafora dell’oscurità siamo trapassati a quella del vuoto (ma lo stesso Pasolini in chiusura dell’articolo percepiva il nuovo riempimento di quel “vuoto”), o se dal 75 ad oggi siano intervenuti altri e radicalmente nuovi “riassestamenti” (capitalistici), e altre e radicalmente nuove “crisi”. Per concludere direi che oggi bisogna prendere atto del fatto che le “lucciole” sono tornate, ma non si tratta di un semplice ritorno, né sono sempre le stesse.
@errebì
Sì: è vero (e mi scusi, il «si» non era il massimo della chiarezza). Se vuole: è la narrativa a mettere fuori gioco, o piuttosto a offuscare, le distinzioni della realtà, travasando sul terrorismo rosso schemi interpretativi elaborati per il terrorismo nero (e nero in quanto nera quella parte dei servizi segreti che lo predisponeva). Sul giudizio storico (il terrorismo «rosso non è stato una semplice né meccanica risposta a quello nero») sono d’accordo, ci mancherebbe!: ma non è questo che racconta la narrativa italiana, tranne pochissime eccezioni (es.: Balestrini). Insomma: la narrativa italiana è una pessima fonte storica sul terrorismo, ma un interessantissimo capitolo della storia dell’immaginario e degli intellettuali.
Quanto a Pasolini, non sta a me rispondere. Ma sembra anche a me che il clima sia cambiato (e sono lucciole, non lanterne).
Concludendo il post di un giorno fa errebi scrive: «Molte cose Pasolini sa fare. Non la più importante per lui: che sarebbe di stare un po’ zitto».
Quella frase finale, ripescata da Fortini, e usata da errebi come espressione riepilogativa del proprio commento prima di tutto mi mette i brividi: mi turba in senso politico, perché intimare il silenzio non è mai stato, storicamente, un buon segno. D’altra parte, la trovo pure un po’ comica: mi pare un po’ ridicolo insomma che un signore attempato – come rivelano certe marche linguistiche e lessicali della sua scrittura – intimi il silenzio – non dico a me, ma a Pasolini- invocando l’autorità di un grandissimo autore come Fortini da cui si è riusciti con rara perizia a estrapolare la frase più brutta mai usata nell’arco di un’attività durata più di cinquant’anni; e per giunta, come se non bastasse, si fa tutto questo, nel mentre stesso in cui ci si compiace di avere uno sguardo più maturo e responsabile, usando la sigla “errebi” (che sia Roberto Baggio?ne sarei onoratissima), insomma, senza manco metterci il proprio nome.
Ora, a me pare che, anche a giudicare dai due post successivi, la discussione abbia intrapreso strade abbastanza lontane dall’articolo di partenza che, vale la pena ricordarlo, è dedicato, come dichiara subito il titolo, all’equivalenza narrativa terrorismo: oscurità. Strade molto interessanti da percorrere, ma diverse. Dunque potrei anche effettivamente scegliere di far silenzio. Tuttavia, siccome non siamo in una chat privata, ma in una piazza pubblica per così dire, a cui appartengono anche altre voci e occhi che hanno generosamente speso tempo a leggere sin qui, una risposta è dovuta, soprattutto perché in questo modo posso recuperare anche questioni poste da Ennio Abate: questioni che a mio parere vanno nominate con chiarezza, perché il punto non è, alla fine, se si stia parlando delle lucciole, di Pasolini, di autofiction, o di romanzo, ma di cosa appunto si stia parlando, e se volete anche di quali toni usare.
Cercherò di spiegarmi meglio recuperando alcune obiezioni.
a) la questione della periodizzazione: da Piazza Fontana fino alla stazione di Bologna. Come dicevo nel testo, ho ripreso quella di uno dei testi di cui parlavo, La notte della Repubblica di Zavoli, perché, come ho dichiarato più volte, il mio discorso guardava essenzialmente alle strategie – visive, concettuali, metaforiche – attraverso le quali è stato costruito il racconto, la mitografia di quegli anni. (E già che ci sono abbiate pazienza ma ci tengo molto a segnalare un lavoro saltato dalla correzione automatica delle note: Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008).
b) errebi osserva poi, recuperando una questione articolata meglio già da Ennio Abate, che «salta qui fuori un problema di verità storica e di sua rappresentazione artistica», e si parla pure di «il punctum dolens politico di tutta la faccenda narrativa». Ecco, siamo arrivati alla questione vera. Il fatto è che a me non duole proprio niente, in questa situazione. Tralascio la questione per cui chi sa di possedere il significato “giusto” di cosa sia la verità storica mi allarma un po’ e passo a spiegarmi meglio. Scrivendo quel saggio, non ho inteso dare un giudizio storico del terrorismo: non faceva parte del contenuto di quel lavoro. Soprattutto, non faceva parte della postura, e in generale non è questa la posizione da cui mi occupo di narrazioni letterarie e cinematografiche. A titolo di critica dovrei sapere tutto e di più? Scusate non la penso così. Ciò non significa certo che la storia e la politica non mi interessino e non mi riguardino; significa, per me, che non voglio spacciarmi da legislatrice, risanatrice o guerrigliera; significa che, quando domani avrò la notizia di un altro barcone di esseri umani disperati affogati, non voglio in nessuna maniera consentirmi di sentirmi in pace e migliore in quanto autrice di un articolo su Pasolini; perché signori, parliamoci chiaro: la critica dell’ideologia è una delle cose più serie che esistano, ma anche l’ideologia può essere una grande narrazione, o, in certi casi estremi, la più perversa forma di estetica. La sintassi da comunicato brigatista qua e là ricordata da certi attacchi di frase dei passaggi che ho letto asseconda orientamenti di gusto, oltre che di idee.
c) l’immaginario. Ecco: mi piacerebbe che qualcuno, magari in un articolo su LPLC, mi aiutasse a capire quale sia stato, storicamente, discorsivamente o come altro volete dire, il salto compiuto dal momento eroico in cui si gridava con gioia «l’immaginazione al potere» al momento in cui, spesso proprio quegli stessi eroi, hanno cominciato a gridare all’untore ogni volta che si entrava in contatto con parole come immaginazione, immaginario, ecc. Sono stati costruiti canoni letterari che più angusti e scollati non si può intorno a questa fobia. Ora, io non posso, non saprei proprio, credetemi, addentrarmi una volta per tutte nella questione, ma quello che mi pare importante dire, rispetto ai passaggi letti nei commenti, è una cosa tanto banale quanto vera: l’immaginario non è tutto quello che non è storico, non è politico, non è materiale. Sarebbe d’aiuto uscire una volta per tutte da questi dualismi davvero datati. Ci aiuterebbe a discutere meglio di narrazioni, di storia, ma in fondo anche a discutere davvero delle ragioni per cui la vita politica italiana da vent’anni è imprigionata da un capo che intorno all’esercizio della seduzione e del dominio sessuale (non solo da modularsi sugli esercizi coitali) ha costruito molta parte del suo potere.
d) la metafora del vuoto: come già dicevo nel testo di partenza e come mi hanno aiutato a chiarire alcuni dei commenti, l’equivalenza tra vuoto e caduta dei valori agricoli è un argomento da anticapitalismo romantico che davvero mostra la corda. Si può dire che quel vuoto è stato riempito dal mercato unico? A mio avviso no: mi pare un’analisi volgare e limitata: appena sostenibile quarant’anni fa, certamente non più oggi.
In più, quel vuoto c’è: non voglio dire principalmente – sbaglierei – ma in qualche ridotta parte anche a causa di chi era così convinto, proprio come donna Prassede nei Promessi sposi, di essere dalla parte giusta, di poter raddrizzare il cervello e le vite delle persone, da lasciar perdere l’esperienza.
e) e infine i toni. Scusate ancora, ma sarebbe importante, secondo me, evitare l’atteggiamento autoritario e paternalistico di chi pensa che siccome c’era ha visto, sa tutto e meglio. Per rispetto di tutti gli altri abitanti di questa piazza virtuale io ho provato a spiegare meglio le mie ragioni, ma certi toni gridati e pure aggressivi mi sembrano abbastanza poco accettabili. E se ricapitasse non li accetterò più. Per non dire poi che l’intimazione al silenzio da cui siam partiti mi ricorda sinistramente il momento in cui la Democrazia Cristiana, all’epoca del sequestro di Moro, nel documento del 25 aprile, stabilì che il Moro che scriveva dalla prigionia non era l’uomo che il Partito riconosceva.
Ho detto tutto quello che potevo dire.
Ringrazio la redazione di LPLC per la risposta e per l’attenzione.
@Raffaele Donnarumma. Sulla tua forza distruttiva circolano molte leggende in effetti. Ma la distruzione più efficace è sempre quella che non è percepita come tale.
@Daniela Brogi
Non credo che sia possibile parlare di terrorismo con gli stessi toni e la stessa pacata indifferenza con cui si discute del gusto di un paté, almeno non in Italia, e non fino a quando esisteranno testimoni. Gli uomini non riescono a parlare pacatamente nemmeno di calcio, come poter desiderare che si discetti in modo distaccato di una strana specie di guerra civile che ha interessato tutto il paese e che una delle due parti non vuole riconosce tale?
Non credo, soprattutto, che sia giusto -né filologicamente né moralmente- decidere di parlare e di scrivere di terrorismo senza accettare di entrare nel «processo a una generazione e nello scontro tra generazioni», come non è giusto (moralmente e filologicamente) scrivere su eventi storici o su sue rappresentazioni letterarie o cinematografiche, se si è allarmati dalla coscienza di possedere il «significato giusto della verità storica».
Non è giusto filologicamente, perché ciascuno degli autori che lei ha preso in considerazione aveva una precisa idea di cosa fosse la verità storica di quei tempi, eppure lei a quanto pare lei non ne è stata allarmata: perché dovrebbe allarmarsi se qualcuno che non ha scritto racconti o fatto film ritiene di possedere la verità su quel periodo?
La filologia inoltre insegna che anche quando -come lei afferma– ci si «occupa di narrazioni letterarie e cinematografiche», la verità storica deve essere conosciuta perché solo se si «misura la distanza dalla storia e dalla cronaca» (Raffaele Donnarumma) si è capaci di capire fino in fondo cosa nell’immaginario è stato fatto a partire da una data realtà. Mi sembrerebbe difficile occuparmi della rappresentazione cinematografica o narrativa delle crociate se prima non ho stabilito con estrema chiarezza l’evento «vie es eigentlich gewesen». Ranke in questi decenni è poco di moda, ma non credo che ci sia nulla di scientifico nella paura per la verità, né per chi afferma di possederla (fare scienza significa pretendere di dire la verità, no?)
Non è giusto moralmente, perché pretendere di parlare di una guerra civile dinanzi a chi l’ha vissuta trasformando la discussione in una questione puramente estetica o retorica, significa di fatto esercitare una forma di violenza, e invitare al silenzio, quello stesso silenzio che le mette «i brividi». E significa anche non aver capito che l’estetica e la retorica sono la sola forma in cui la verità esiste ed è comunicata.
Nel caso del terrorismo italiano poi c’è un altro problema, che non esiste in nessun altro dove sono esistiti analoghi “movimenti terroristici” (scusate l’espressione): basta pensare al caso tedesco.
Conosco molto poco la storia italiana degli ultimi quarant’anni, perché mi sono sempre rifiutato di studiarla, ma la questione del terrorismo e degli anni di piombo è qualcosa che è entrata ed entra nella porta delle coscienze di tutti, senza alcun invito: basta un padre amico d’infanzia di uno degli imputati, un amico figlio di un poliziotto o di un magistrato che in quegli anni lavoravano a Milano. E poi, appunto, il cinema, i documentari, i libri, le riviste, la letteratura. O il caso Battisti. Ma c’è soprattutto un’altra cosa, molto più seccante. A scuola (e sto parlando della profonda e impolitica provincia italiana, non oso immaginare cosa succedesse a Milano o a Bologna), sin da piccolo si era costretti a prendere posizione su quella materia, anche se non la si conosceva, e per strane, misteriose ragioni di posizionamento sociale e politico. Nella guerra a me sembra di esserci stato da sempre, anche se controvoglia, e del tutto involontariamente. E quella che era una guerra svoltasi prima che io nascessi non vive oggi solo nei sopravvissuti e nei loro «conti in sospeso con la propria generazione», ma esiste soprattutto e si è prolungata «nel processo intero a una generazione», la “nostra”, appunto, contro la “loro”. Questa è la realtà in cui i film, i romanzi e le scritture di cui parla si sono prodotti e sono di fatto recepiti. Non c’è nulla di filologico nel desiderio di far finta che questa guerra non esista. Anche lei del resto è in guerra, altrimenti avrebbe evitato di lambiccare sull’età del suo interlocutore a partire da dubbie considerazioni sulle marche linguistiche e lessicali dei suoi interventi. Ed è proprio il fatto che siamo ancora in guerra (anche se per ragioni completamente diverse) a rendere necessaria la comprensione di come, oggi, in Italia, il cinema e la letteratura parlino di quegli anni.
@ Daniela Brogi, brevemente, perché un commento non è articolabile quanto un saggio, e perchè non voglio “aggressivamente” occupare più spazio del dovuto:
a) la ringrazio per la “rara perizia”, ma le confesso che non mi ci è voluto molto “a estrapolare (dagli scritti fortiniani) la frase più brutta mai usata nell’arco di un’attività durata più di cinquant’anni”, perché leggendo Fortini si può vedere come quella sua forza polemica faceva parte della lotta delle interpretazioni in campo culturale e politico (sa, allora non c’era ancora il “politicamente corretto”);
b) le assicuro che, anche senza “metterci il nome” (è una vecchia faccenda quella degli pseudonimi nei commenti – nel mio caso un acronimo – vecchia quanto i blog), le cose che dico le direi comunque, indipendentemente da come mi firmo, per cui restiamo ai contenuti.
PS.: Roberto Baggio l’ho lasciato anni fa che sparava alle anitre nella sua tenuta argentina. Poi l’ho perso di vista.
c) (scusandomi per l’aggiunta): non entro nel merito della sua indagine (un po’ poliziesca, mi lasci dire) per cui, in forza di certe marche linguistiche e lessicali della mia scrittura, lei mi definisce un “attempato interlocutore”, ma mi aspetterei però, per coerenza, diciamo così, che lei continui a distinguere, da certe loro marche linguistiche e lessicali, i suoi interlocutori in “giovani” e “attempati”
errebi: tra i giovani e gli attempati ci sono gli adulti.
averroè: ha scritto cose molto giuste e importanti.
Il post, molto bello, ha avuto il merito di aprire una discussione interessante, non solo per gli apporti che da altri sono stati forniti, ma anche per le dinamiche che l’hanno animata. Non posso fare a meno di leggere la discussione anche attraverso altre lenti, quella generazionale certamente, ma anche quella di genere, per cui forse in una sede diversa da questa sarebbe interessante sottoporre a critica una certa postura intellettuale maschile. Comunque non è su questo che vorrei soffermarmi.
Daniela, in uno dei suoi ultimi commenti, solleva un problema secondo me essenziale, e cioè quello dell’immaginario. Intanto ho l’impressione che forse rimozioni e narrazioni ambigue del terrorismo continuino a circolare anche nel discorso pubblico. Mi è capitato proprio ieri di vedere un documentario, prodotto dalla TV franco-tedesca Arte, sulle brigate rosse. La costruzione è, secondo me, esemplare: la storia delle brigate rosse raccontata esclusivamente da quattro dei componenti del gruppo del sequestro Moro (Moretti, Gallinari, Morucci e Fiore). Il titolo in tedesco è ‘Sie waren die Terroristen der Roten Brigaden’ (‘Erano i terroristi delle Brigate Rosse’), ma gli autori avrebbero dovuto più opportunamente usare la prima persona plurale, visto che la ricostruzione è affidata unicamente ai ricordi e alle considerazioni storiche e politiche dei quattro, senza che quelle voci siano affiancate da altri punti di vista (giudiziari, storici, politici). Ora, capisco che i francesi – l’autore principale è francese – abbiano una visione romantica del nostro terrorismo rosso, ma sarebbe utile capire che cosa delle narrazioni – intese in senso lato – che noi abbiamo prodotto abbia alimentato questa immagine. Sono sufficientemente ignorante in materia per chiedere qui a quelli che ne sanno di più se hanno ipotesi in merito.
Concordo con Daniela sul fatto che sarebbe comunque giusto iniziare a porsi il problema del rapporto tra reale e immaginario in termini nuovi, provando a usare lenti di lettura dinamiche, circolari e in grado di fornirci immagini stratificate, piuttosto che schemi monodimensionali basati sull’idea della derivazione. Ho l’impressione, ma forse mi sbaglio e avrei bisogno di rifletterci di più, che spesso il punto di vista ‘materialista’ e quello – sto semplificando brutalmente, mi rendo conto – ‘postmoderno’ finiscano per cadere nello stesso identico errore, che è quello di cancellare completamente, per un verso o per un altro, la dimensione dell’esperienza: o siamo effetto di rapporti di produzione che ci determinano e ci trascendono, o siamo effetto di narrazioni subdole che parlano attraverso di noi senza che noi ce ne accorgiamo. Sarà, forse, ancora una volta una questione di genere, ma anche io ho pensato, come Daniela, alle rappresentazioni del femminile in Italia e mi sembra che ci sia un problema di metodo molto grosso, per cui anche lavori pregevoli come quello di Lorella Zanardo finiscono per non dirci niente sulla dimensione dell’esperienza individuale, ci regalano un teorema – le donne sono influenzate dalla televisione – ma non ci spiegano davvero come. Forse perché, appunto, l’impasto è meno lineare di quanto si pensi e l’oscillazione tra ciò che è materia e ciò che è immagine in senso lato passa sempre da quel filtro non indifferente che è il singolo individuo, la sua psiche, la sua storia, la sua capacità di riconoscersi in quanto soggetto sociale. Certo, noi lavoriamo con le categorie storiche e produciamo approssimazioni che non possono ovviamente tenere conto delle biografie individuali – questo compito lo si lascia agli scrittori semmai – ma mi chiedo se non sia possibile porre in maniera differente la questione.
@ Averroè, Brogi, Savettieri
Sebbene non sia d’accordo sulla definizione di «guerra civile», mi riconosco molto nel tipo di sguardo rivendicato da Averroè, come misto di partecipazione parziale (cioè limitata e di parte) e tensione verso una qualche possibile forma di verità. Qui parliamo pur sempre di film e racconti che si confrontano con gente ammazzata sul serio, e con gente che sul serio ha ammazzato: il rispetto di alcuni fatti è il minimo della decenza. In questo senso, la questione dell’immaginario – suscitata ancora da Avveroè, da Brogi e da Savettieri – merita qualche approfondimento.
Immaginario è tante cose: una facoltà e un repertorio (per questo se ne può parlare al singolare), ma anche una pluralità di formazioni discorsive e figurative/figurali (per cui si rende necessario il plurale). L’immaginario sta dentro la realtà, come la politica o l’economia: ne nasce e la modifica, se la mangia e la alimenta. Ma a differenza della politica e dell’economia, sta prima e dopo i fatti: credo, invece, che sia impossibile che stia in sincronia con i fatti. Altrimenti, cosa esisterebbe a fare? Il suo scopo è proiettare, come si proietta un’immagine su qualcosa, illuminandola, deformandola e creando un’interferenza; e come si proietta nel senso di trascinare verso l’alto. Esiste una dimensione in cui «le réel devient de la même nature que le rêves, les fantasmes et toute les images qui animent l’expérience» (sottolineerei «qui animent l’expérience»); in cui le cose giungono «à exister hors de leur lieu propre» (E. Coccia, La vie sensible, Payot et Rivage 2010, pp. 75 e 31): un luogo (riprendo Savettieri) che non è né quello materialista, che insegue tutt’al più l’ossessione del rispecchiamento e vede la supposta infedeltà come mancanza, anziché come produzione attiva, né quello postmoderno, che invece non sente più la lotta fra le cose e le immagini. L’immaginario rivela sempre qualcosa della realtà, ma qualcosa nasconde – e, per quel che so della narrativa sul terrorismo, a volte nasconde tanto da falsificare. Quello che accade spesso è che l’immaginario riattivi un’immagine mitica che pone una continuità di tempo, esalta certe costanti, riattiva certi fantasmi, nega inevitabilmente alcune particolarità. Così se, per esempio, diciamo che gli anni del terrorismo sono anni bui, o che l’omicidio Moro è stato un parricidio, o che i brigatisti erano rivoluzionari romantici in lotta contro lo Stato-Leviatano (alias SIM), rimettiamo in circolo una mitologia storiografica (nata, credo, in età umanistica contro il medioevo), un mito tragico (Edipo & C.), uno mito politico (ottocentesco, ma con una declinazione postmoderna). Questi immaginari sono compresenti, talvolta si sovrappongono, talvolta sono in palese conflitto: come l’inconscio, l’immaginario ammette proposizioni che ignorano il principio di non contraddizione, e che per questo convivono confliggendo. Ci dicono che la storia non è lineare, o univoco, e non va in un senso solo, ma è discordante e in movimento: il che, è un’idea più persuasiva, o almeno più vicina alla nostra esperienza, degli antichi accordi fra struttura e sovrastruttura.
(Tralascio la questione dello spazio specifico che l’immaginario letterario ha nel campo di battaglia di altre formazioni discorsive e di altre arti. A essere rigorosi, anzi, ci sono immaginari differenti per i diversi generi: un noir non è un romanzo psicologico; sul terrorismo, Petrolio non dice le stesse cose del Contesto, precisamente perché Pasolini e Sciascia danno forme narrative diverse a un’esperienza storica comune che è, più che il loro terreno di partenza, l’oggetto a cui mirano ciascuno a modo suo).
Le formazioni dell’immaginario possono sempre orientarsi in senso ideologico e politico: negli anni Novanta, sono molti ex terrorisi rossi a diffondere l’immagine di loro stessi come generosi utopisti presi in un giro tragico, o a insistere sulla guerra civile (a cui, dicevo, non credo) o, anche, a farsi passare come simpatici picari allegramente apolitici (Battisti per primo, con una malafede letteraria e una pochezza di spirito avvilenti). Le finalità pratiche sono anche troppo scoperte. Però, l’immaginario non è solo ideologia o politica: non lo è nelle origini, non lo è nel funzionamento, non lo è nel modo di abitare noi e la realtà. Il mio atteggiamento è dunque di credito e di sospetto: l’uno e l’altro insieme, visto che le favole hanno una morale, ma sono favole.
@ Brogi
1. Comincio dalle cose più antipatiche: «quali toni usare». L’indignazione e l’ amarezza politica del mio precedente intervento lei l’ha scambiata per autoritarismo e paternalismo. Si sbaglia. Non pretendo di sapere tutto e meglio sugli anni Settanta. Anzi. Semmai temo che ne sappiamo tutti ben poco e sicuramente non le cose decisive, che ancora stanno influenzando la sorte di questo Paese. Ho usato certi toni a lei sgraditi perché anche su LPLC vedo eluso il dialogo che cerco, anzi che cerchiamo (perché reazioni di rigetto si sono avute, per quel che ricordo, anche nei confronti di ng e ora di errebì). E se m’accorgo che i miei interlocutore sembrano un po’ sordi, bisognerà pure urlare per farmi (forse) ascoltare. Così, dalle loro reazioni, mi accerto almeno che sordi lo sono davvero o fanno finta d’esserlo. E, accertatomi che non è questione di forma o di toni, ma di sostanza (in fondo sempre politica e non solo generazionale, come si tende a pensare oggi), mi metto l’anima in pace: non si vuole discutere (discutere non = accogliere!) e cambio strada, vado a cercare, se possibile, interlocutori più disponibili o meno prevenuti. Lei farebbe diversamente? Ha trovato poco accettabili «certi toni gridati e pure aggressivi». Ma crede che le sue battutine lo siano di meno? Ricordi , comunque, che proprio le persone “sgarbate” o “aggressive” di solito mentiscono meno di quelle col tono “giusto”.
2. E, già che ci sono, collego la questione dei toni a quella della democrazia in Rete cui ha accennato Donnarumma. Fosse soltanto questione di uso del mezzo, di forma! No, è anche e soprattutto difficile questione politica: di gruppo aperto o chiuso (diceva nel ‘68 Elvio Fachinelli sui «Quaderni Piacentini»); di inclusione o esclusione di classe (diceva prima e con una visione storico-politica più ampia Gramsci). Finora su LPLC ho incontrato diversi che si impuntano come cavalli imbizzarriti sulla “forma” per non trattare della sostanza. Eppure LPLC dichiara di essere «uno spazio programmaticamente plurale» di ricerca. Se già lo fosse (spero che lo diventi), lei, Policastro, Balicco, Diano, sareste entrati nel merito dei miei “fraintendimenti”. E quello o quelli che si firmano la «redazione di LPLC» non avrebbero risposto a una mia proposta di pubblicare uno scritto intitolato «Il tarlo della Libia» sul macello ora silenziato lì in corso – tema che pur mi pare rientri nelle previste «riflessioni sul presente» – chiudendomi la porta in faccia con la poesia “La magnolia” di Fortini (sic!) e senza ulteriori spiegazioni. (E la stessa cosa, istruttiva e preoccupante, mi è capitata – sempre sulla questione della Libia già citata – con quelli di «Nazione Indiana» e di «alfabeta 2», che appaiono siti linkati a LPLC). Concludendo su questo punto, chiedo seriamente: sono sintomi questi della “nuova democrazia” della Rete o una conferma che il crescente degrado della democrazia si sia trasferito anche qui, per cui si cerca e si dialoga tra simili (gruppo chiuso) e non con i dissimili (gruppo aperto)?
3. Faccio, tuttavia, un ultimo sforzo e vediamo che succede. Smentendo me stesso, mi sono procurato dalla biblioteca di Cologno Monzese, periferia di Milano – il mio «olimpo di scienza», da cui impartisco ogni tanto anche su questo blog una «patetica lezioncina su come va male il nostro presente» (Balicco) – il DVD di «Buongiorno notte». E al mio commento precedente aggiungo quanto segue:
a. Non mi pare che Bellocchio abbia tenuto in gran conto «le molte rappresentazioni e teorie che nel corso degli anni sono state date sull’affaire Moro». Il limite di sguardo storico, che imputavo al suo testo e ai primi commenti entusiasti del medesimo, posso vederlo, ora che ho esaminato il film, anche in Bellocchio. Uno solo, infatti, mi pare lo stereotipo (più che la “teoria”) che il film convalida con l’evidenza seduttiva delle immagini: i brigatisti rossi non furono dei veri militanti politici, che perseguirono uno scopo politico (opinabile, irrealistico, sbagliato, demoniaco, secondo i loro avversari di Destra o i loro concorrenti politici: la Sinistra storica e nuova), ma dei «dementi», degli «assassini». Bellocchio con questo film accontenta il “popolo”, ingozzato per decenni, in assenza di opposizione politica e intellettuale, di «mitografia» revisionista (anche televisiva, ivi compresa «La notte della Repubblica» di Zavoli), vero supporto ideologico dei “vincitori”, ben poco convincenti di quella “falsa guerra civile” (Fortini), di cui conosciamo ancora solo la superficie. Si ricordi di Cossiga, che i brigatisti rossi li aveva conosciuti non per sentito dire e li combatté, avendo a disposizione non solo la parola o la TV, ma la potenza militare dello Stato italiano e dei servizi segreti. (Le consiglierei, tra l’altro, di leggere il nuovo libro di Aldo Giannuli, «Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro», Marco Tropea Editore). Il democristiano ex presidente della repubblica riconobbe ai brigatisti rossi (a posteriori, dopo averli sconfitti) la dignità di militanti politici. Il film di Bellocchio continua a negargliela e anzi li ridicolizza. Su questo ci sarebbe da interrogarsi. Perché Bellocchio, un “professionista dell’immaginario” (notturno), nega o non tiene conto (e siamo nel 2003, data di produzione del suo film) di quello che a livello di valutazione politica (diurna) almeno qualcuno autorevolmente riconobbe? Perché, come scrisse Raimo su «Nazione Indiana»(http://www.nazioneindiana.com/2003/09/15/nuovo-cinema-paraculo-buongiorno-nonsense/), per Bellocchio «i brigatisti sono peggio di cavalli pazzi, sono videodipendenti, sono esseri geneticamente modificati, irriducibili al loro tempo», mentre «Moro al contrario ne esce come un santo, una figura ascetica che va incontro alla morte annunciata come Socrate»?
b. Sarà bello il verso della Dickinson, ma la metafora dell’«oscurità notturna – in senso temporale, visivo, mentale, acustico», che lei assume come centrale nel suo saggio, non mi convince. Non mi sembra adatta a dar conto sia del film di Bellocchio sia delle vicende degli anni Settanta. E rischia di essere onnicomprensiva (una hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere). Impedisce, cioè, di distinguere ciò che, anche restando sul piano dell’immaginario, andrebbe distinto. Non ce l’ho con la metafora, ma con questa da lei prescelta per leggere il film di Bellocchio. Io nel film non la vedo operante. Vi vedo soprattutto l’attrito tra un ritmo esterno e un ritmo interno, tra il televisivo e il quotidiano, diciamo pure la routine, dei sequestratori (la TV che dà la notizia dell’uccisione della scorta di Moro proprio mentre la giovane signora bussa e affida imperiosamente per qualche tempo neonato e biberon alla brigatista). Alla «mitografia di quegli anni» lei sembra aderire senza riuscire a mantenere una giusta distanza. La metafora dell’oscurità, proprio perché preesistente, archetipica, ricorrente («più volte, nel ventesimo secolo, è tornata a fissare situazioni di accecamento della coscienza, della storia, della vita») andrebbe presa con le pinze, passata a contrappelo, filtrata (non cancellata) attraverso altri punti di osservazione non solo letterari. È vero che lei con questo saggio non ha inteso «dare un giudizio storico del terrorismo», ma lei maneggia l’immaginario senza un punto d’appoggio solido per uscire dalle ambivalenze che lo contraddistinguono; e, secondo me, vi resta impigliata, irritandosi con chi glielo fa notare. In più, sempre nella parte del saggio dedicata al film di Bellocchio, la metafora dell’oscurità con tutta la sua ingombrante archeologia letteraria rischia di coprire e giustificare proprio l’oscurità in cui Bellocchio, per scelta o insipienza, ha voluto mantenere le figure dei brigatisti rossi. Estremizzando, potrei dire che è Bellocchio a stare nell’oscurità, a non sentire, anzi a rimuovere quello che la storia da sempre mostra (e ha mostrato anche dal 1978 al 2003, data d’uscita del suo film): che di violenza e assassini è intessuta la politica e la storia delle nazioni civili; che l’uccisione dell’avversario politico è una prassi prevista da certe visioni del mondo (quella marxista ad esempio) e non solo un tabù (proclamato ma non praticato) da chi ha una visione del mondo cattolica. Lei lo segue su questa via (per me) acritica. E qui devo citare per forza non Pasolini, ma Fortini, sperando che non lo metta tra gli attempati. Proprio tentando un bilancio degli anni Settanta in «Quindici anni da ripensare» (ora in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985), che la inviterei a rileggere accanto al Pasolini delle lucciole, Fortini non si limitava a ricordare che «i gruppi e i fatti poi associati al terrorismo sanguinario erano innanzitutto preparazione ad una resistenza armata nel caso di un colpo di destra» e che la ripresa di «progetti e azioni che si richiamavano a taluni aspetti della lotta terzinternazionalista o a modelli resistenziali, armati, bellici» (219) poteva aver portato a una scelta politicamente «errata ma non davvero criminale» (222). Ma, nell’accettazione delle leggi d’emergenza da parte del Pci, vedeva «l’abbandono persino del ricordo di quella tradizione grande, sebbene sclerotizzata» del comunismo risalente a Lenin. Il Pci del compromesso storico, accettando ormai «un’idea di democrazia come valore assoluto», – scriveva Fortini – come «esclusione della violenza e principio di maggioranza» e arrivando alla «criminalizzazione di ogni forma di dissenso», cancellava la questione storicamente irrisolta del sempre «mutevole confine tra lecito e illecito» ; e dimenticava che «la democrazia esclude la violenza solo in tempi, aree e gruppi sociali determinati e può convivere con le peggiori sopraffazioni e violenze interne, infranazionali e coloniali», disfacendosi di tutta una tradizione che andava da Bodin a Hobbes, a Marx, a Croce a Weber. E questa scelta del Pci disarmava del tutto i militanti comunisti, poiché – egli argomentava – se il cattolico può collegare «coerentemente morale, religione e diritto» rimandando al Vangelo e alla dottrina della chiesa, lo stesso non poteva più fare il militante comunista che, con questa scelta del Pci, vedeva buttata al macero e condannata tutta la tradizione marxista e persino «tutta una parte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia» (223).
c. L’uso di filmati di repertorio e le «allusioni ad altri film» (ad es. ad «Anni di piombo» della Von Trotta con le fucilazioni di partigiani al posto delle cataste di cadaveri di ebrei) hanno poco a che fare con la verità storica; e non fanno diventare il film di Bellocchio un film storico. Il regista – ripeto – per me non ha intenzione (non è capace) di scavare nella storia degli anni 70 o dell’assassinio di Moro. Utilizza esteticamente spezzoni di filmati d’epoca come i maglioni dell’epoca che fa indossare ai suoi attori. Ha mirato ad altro. Secondo me alla negazione della storia e del suo precedente ribellismo, passato dai “pugni in tasca” a questo «buongiorno notte» (oscurantista). Si è rifugiato nel suo immaginario astorico. Quale? Sarebbe interessante definirlo.
d. Nel film ho trovato ben espressa, e in un modo che definirei dolentemente e ambiguamente cattolico, la figura Aldo Moro. Essa è presentata come una sorta di Cristo finito nelle mani di demoni “che non sanno quel che fanno” con relativa finale, ambigua “resurrezione”: Moro, liberato dalla pentita – una piccola Antigone che si contrappone alla Legge assassina dei brigatisti-Creonte – si avvia da solo per le stradine di Roma verso il Palazzo dell’Eur. Ecco un immaginario (altro che «immaginazione politica») del tutto consolatorio e profondamente antistorico, come è in genere l’immaginario. Mentre nobilissima è la figura di Moro, dei brigatisti rossi vengono rappresentati gli aspetti peggiori: l’isteria da routine della clandestinità, appena alleggerita dalla femminilità della protagonista (capace di dare anche le calze piegate al prigioniero), l’accostamento della loro azione al plebeismo più rabbioso (la scritta sul muro «Che cosa ce ne frega se muore Aldo Moro…»). Bellocchio ha, insomma, iscritto questa vicenda, depurata dalla storia, in un immaginario profondamente cattolico (manco più cattocomunista, come si diceva una volta). E ha così esorcizzato il problema storico e politico postosi con la nascita e l’evoluzione delle BR in particolare a quanti allora si dichiaravano comunisti o di sinistra in Italia. (E rimando ancora alla citazione fatta sopra di Fortini). L’immaginario angoscioso, che voglio credere persino sincero, di Bellocchio, come quello dei narratori che ha esaminato Donnarumma, svela che è già venuta meno in Italia in quegli anni tra strati intellettuali di sinistra o non c’è mai stata una visione comunista delle cose. (E, perciò, quella delle Brigate rosse appare soltanto una follia o «una parodia» di rivoluzione). In sostanza ha ridotto una questione politica a una questione psicologica e morale, impedendosi ogni altra possibile resa estetica della lotta politica degli anni Settanta (ogni possibile altro immaginario, se vogliamo meno moralistico, meno o non cattolico). Da qui quell’accostamento, che a me fa venire i brividi, dell’ultima lettera di Aldo Moro alle ultime lettere dei partigiani. Scava sotto l’immaginario e trovi una scelta politica precisa. Bellocchio ribalta l’equivalenza mitica (immaginaria anche questa), che i brigatisti stabilivano tra la loro azione e la Resistenza (più che l’Urss di Stalin), e ne costruisce una tra il democristiano e cattolico Moro e la Resistenza. Questi aspetti ideologico-politici, che nel film andrebbero meglio indagati appunto con un’attenta critica dell’immaginario di Bellocchio, vengono completamente ignorati nel suo saggio tutto incentrato sulla metafora della luce e del buio. Per questo mi sono sentito di ironizzare e dissentire. Insomma, se non si hanno altre coordinate, ”non immaginarie”, come si fa la critica dell’immaginario? Neppure Freud avrebbe potuto indagare l’inconscio solo con l’inconscio. E non si può indagare l’immaginario a colpi di immaginario (o sotto il suo fascino) .
@ Donnarumma
1. Nel mio precedente intervento speravo di aver dato spunti bruti proprio per una critica dell’immaginario, perché diffido dei discorsi che leggo sull’argomento. Mi paiono troppo “interni”, troppo elegantemente letterari e svuotati di politicità. (E allora quel vuoto di cui parla Linguaglossa nel suo commento come lo si affronta?). Ci vorrebbe una critica meno mimetica, meno accondiscendente, meno generazionale (anche nei riferimenti bibliografici, per intenderci). E temo che fra i letterati esista un pregiudizio, che ha fatto diventare un’autorevole opinione un pigro luogo comune. Mi riferisco a quella definizione della letteratura come vera storiografia dell’umanità, che era stata sostenuta – ricordo – da Enzensberger in un breve saggio intitolato «Letteratura come storiografia» ne «Il menabò» 9 (1966). Fu opinione ripetuta da Sciascia sulla scorta di Manzoni. La si ritrova in Adorno: «Le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti». Ma è davvero così? Ancora oggi? Me l’ero chiesto tempo fa a proposito di Fenoglio e della «letteratura della Resistenza» e avevo scritto:
«E poi, sulla Resistenza chi ha lavorato di più e meglio? Chiedo provocatoriamente: opere come quella di Pavone o lavori degli storici che ho nominato non permettono di capire quel che di irrisolto e vivo è rimasto sotto il crollo della «grande utopia della Resistenza», la potenza e l’impotenza di quelle speranze e passioni storiche, quell’intreccio tra «gioia di fondo» e «ombre dense fino al dolore» (Pavone) meglio delle opere di Pavese, di Vittorini, di Calvino o dello stesso Fenoglio? Risponderei senza troppi tentennamenti di sì. Soprattutto se penso al blocco della riflessione sulla «letteratura della Resistenza» e, per contrasto, alla ricchezza e originalità della storiografia sulla Resistenza. Ma evitando di estremizzare, ritengo che sarebbe urgente e utile tornare a fare seriamente la spola tra certi risultati della recente storiografia sulla Resistenza e gli scrittori che ne diedero resoconti o narrazioni passionali (Fenoglio), meditati (Fortini; e non mi riferisco solo a Sere in Valdossola) o ambigui. E per quest’ultimo caso, penso soprattutto a Calvino: cosa si perde, infatti, della Resistenza nella proiezione fiabesca, se non già quasi «gioco», con cui è resa ne Il sentiero dei nidi di ragno? E anche su Fenoglio, un autore ai suoi esordi censurato e oggi troppo sacralizzato dal nuovo clima “revisionista”, richiederei una riflessione critica più rigorosa e che non si limiti a censurare le domande mettendo sotto il naso l’eccellenza del risultato artistico dello scrittore di Alba. Come non vedere che nella sua opera, la Resistenza è soprattutto «guerra civile», trascurando il paradosso, messo a suo tempo in luce da Fortini e Luperini, che l’opera più intensa scritta sulla Resistenza si voglia o sia presentata come a-ideologica, punti assolutisticamente su dati esistenziali e vitalistici (l’amore, la morte, il caso, la violenza), dia tutto il campo a un eroe individualista, una reincarnazione di Robin Hood, ricacciando sullo sfondo la dimensione collettiva e politica della lotta partigiana e, per finire, abbia dei debiti indiretti «con la letteratura del tragicismo eroico europeo che è di destra, di destra fino al nazismo. Hamsun, per esempio, Jűnger» (Fortini)? Fenoglio taglia fuori aspetti ideali, politici, materiali della storia di quegli anni e della lotta partigiana, che la storiografia fin qui esaminata ha trovato rilevanti. Questo non significa pretendere che un narratore sia preliminarmente uno storico, ma significa non cancellare noi quello che egli ha creduto giusto cancellare (o non ha potuto fare a meno di rimuovere). E chiedersi ad esempio: Una questione privata è davvero quel libro che, secondo il giudizio – ora quasi dogma – di Calvino, quella generazione di resistenti voleva fare? Se ho presenti le riflessioni storiche di Cortesi, esito a rispondere di sì. E se, con in mente gli stimoli della ricerca storiografica sulla Resistenza, tornassi al libro di Gabriele Pedullà e in particolare alla sua prefazione, devo dire che questo studio, che pur ha ripreso coraggiosamente la negletta categoria di «letteratura della Resistenza», non sfugge a limiti imputabili soprattutto alla presente scollatura fra ricerca letteraria e ricerca storiografica. Accetta, infatti, il luogo comune oggi dominante della Resistenza soprattutto come «guerra civile» e accoglie un’immagine della Resistenza quasi fenogliana sostanzialmente depoliticizzata: una scelta esistenziale che «ha a che fare con l’esperienza dell’essere gettati nel mondo». E, pur riconoscendo il non casuale legame tra neorealismo e Resistenza, liquida sbrigativamente il neorealismo come «ingenuo» – altro dogma dei letterati post-resistenziali – senza nemmeno più distinguere tra engagement e zdanovismo, o riprendere gli interrogativi non puramente letterari che allora si posero malgrado i limiti di quella poetica e le angustie ideologiche che ebbe alle spalle».
Provo a riproporre il problema.
@ Averroè.
Che tempi questi, in cui le obiezioni di un Abate appaiono comprensibili solo a un Averroè!
Grazie comunque per i suoi densi interventi.
Forse, per i commenti al di là di un certo numero di parole (Cinquecento? Mille?) occorrerebbe in epigrafe un abstract, insomma un riassunto che riassuma gli aspetti e le tesi fondamentali del commento stesso. Penso che aiuterebbe molto i lettori interessati al thread (letteralmente trama, filo). Dico davvero.
Un saluto
Abate, il tuo intervento è lungo, per me difficile da dominare. Ma una cosa la dice chiaramente: non ti piace la lettura degli anni del terrorismo di Bellocchio o chi altro, la ritieni pura propaganda. Ora, che il cinema, impegnato o no, sia pura propaganda di Stato, è vero quasi sempre; direi che è stato così fin dalle origini (se ti va leggiti il bel saggio di Paul Virilio, Guerra e Cinema): per questo si viene premiati dallo Stato per le proprie o perine, ché è lo Stato, quasi sempre, a metterci i soldi per produrle… Ma uscendo dalla propaganda, dalla RAPPRESENTAZIONE DI STATO, sei sicuro si possa tentare di leggere il terrorismo in maniera critica senza scivolare in una sorta di nostalgia per le armi che fa ulteriormente scadere ogni forma di legittimità della critica e del pensiero libero? Sei sicuro che usare il come minimo ambiguo Cossiga a sostegno delle proprie tesi sia ” onesto “? Sei sicuro che la democrazia sia un sistema così aperto e saldo da potersi permettere di dare spazio a qualsiasi forma di pensiero e di dissenso, anche quello di chi ritiene legittimo uccidere l’avversario politico?
In ogni caso, io penso che il terrorismo fu delirio, perché privo di qualunque, QUALUNQUE, consenso sociale. Bene fece il PCI (che fu colpevole di tante altre cose) a leggerlo come espressione di follia. La politica è espressione di sentimenti e ragioni di gruppi estesi di cittadini. Il resto è espressione di forza criminale. Punto.
PS: lasciami dire che se Fortini ha scritto certe cose, ciò non va certo a suo favore.
Una intera giornata di silenzio!
Silenzio degli innocenti?
Beh, aggiungo ancora l’opinione di un amico. Appartiene anche lui alla categoria degli “sgarbati”:
Caro Ennio,
ma che cosa ti ho fatto di male? Ho letto l’articolo di Daniela Brogi e l’unica cosa sensata che potrei fare sarebbe di rimandarla a scuola, ammesso che ne abbia voglia. Ho passato quattro anni in università circondato da docenti e ricercatori che vivevano la loro pericolosissima ribellione a papà “Pensiero” e mamma “Realtà” dileggiando la ragione e sputando su Hegel, per poter poi nuotare finalmente felici nel mare oscuro della psicoanalisi, dello strutturalismo bachelardiano, dei puri significanti, e del postmoderno in genere, vuoi che non ne abbia abbastanza? Come diceva Adorno la prima cosa da fare se sei un professore che ritira il suo stipendio dagli uffici del Reich è inondare i propri studi di retorica sui “rischi estremi” del pensiero, sulle “scelte cruciali” e sul “coraggio”, che ci vogliono per scovare l’etimologia di una qualsiasi parola greca.
Dovessi intervenire sul dibattito che segue il saggio della Brogi sarei sicuramente poco gentile e non vedo in che modo la questione filosofica che mi verrebbe in mente: “Ma che cazzo stai dicendo?” potrebbe aiutare chicchessia. Mi farei dei nemici e io proprio non ho bisogno di fare sforzi per moltiplicare le persone che preferiscono non sapere nulla di me. In fondo si dovrebbe liquidare tutto dicendo che “Le parole e le cose” è un buon titolo, solo che è saltata per un refuso la seconda parte dell’intestazione: “non hanno nulla a che fare le une con le altre”.
Ma se proprio vuoi che ti faccia sapere la mia opinione, ti dico che pasticciare con la psicoanalisi e lo strutturalismo richiederebbe comunque un poco di scienza, altrimenti si rischia di essere le prime vittime di tanto acuta disamina. La Brogi, per esempio, recensisce un film di Bellocchio parlando di Pasolini, come se dopo aver scritto che il film è un capolavoro non trovasse il tempo e il modo di spiegarci perché, e allora vien da chiedere: Ti è piaciuto tanto che per parlare di un film sulla lotta armata devi andare a prendere un testo precedente alla storia armata delle Br? Ma forse a lei piacciono le lucciole, “corpuscoli luminosi che producono vertigine dello sguardo nel medesimo istante in cui sconvolgono la direzione del tempo”. Peccato che ogni anno la mai casa in [...] sia invasa da lucciole, e di sconvolgente c’è solo quanto brutte siano una volta prese in mano
e guardate con attenzione. Ma naturalmente scrivere che sconvolgono la direzione del tempo è poetico, rivoluzionario il giusto e non costa nulla, anche se Pasolini si rivolterebbe nella tomba a sentire come un segno dello scorrere delle ere capitalistiche sia diventato proprio il suo contrario in mano ai suoi critici.
L’unica spiegazione che la Brogi ci offre sul perché il film di Bellocchio sia così bello è che cita “La notte della Repubblica” di Zavoli, che è stato un programma dove chi non sapeva nulla della lotta
armata in Italia ne ha appreso ancora meno. Perché naturalmente il problema, come hai ben capito tu, è tutto qui: trasformare una lotta di classe in un romanzo di introspezione psicologica, una volta Dostoevskij lo sapeva fare con la penna intinta nella tradizione del romanzo realista, oggi si usa il postmoderno e le interviste a mezza lacrima, ma è la stessa operazione (con il che, tra parentesi, forse capisci il mio rifiuto a scrivere anche una sola riga di romanzo familiare, di introspezione e di commozione…).
Ma l’inconscio è cattivo, e la Brogi non trova di meglio che periodizzare la lotta armata, pardòn, il “tettorismo”, come lo chiama lei, con due stragi fasciste: Piazza Fontana e Bologna, così che racchiude una fenomeno politico (sul quale, naturalmente, sarebbe liberissima di esprimere il suo giudizio, se ne avesse uno) dentro un altro che non c’entra nulla. La tesi principale del suo saggio, postmoderno alla mano (diciamo Derrida per esempio o anche Althusser) è dunque semplicemente questa: chiunque usi la forza in politica è un terrorista, a meno che non sia un poliziotto, un imprenditore o un prete naturalmente. Che cosa le vuoi dire? Chiaro che dopo vede oscurità da per tutto (la citazione della “fortissima ascendenza biblica” è esilarante, ma lasciamo perdere), e che la rivolta le sembri niente altro che un “blackout mentale, morale ed esperienziale, della vita come della storia), visto che ha ridotto la vita e la storia alla dimensione privata e individuale, l’orribile “società civile” dello Hegel della Fenomenologia, per intenderci.
Innamorata della notte la Brogi (che suppongo sia una bravissima critica cinematografica) nasconde la tesi che le sta a cuore, la banale volontà di conservare l’ordine delle cose presenti, dentro scatoline colorate che vorrebbe al sicuro da qualsiasi buio. Ma non erano loro a criticare la ragione come dominio, maschilismo e imperio? E adesso il suo contrario sarebbe un delirio di notte e esperienza? Diventa difficile, è infatti anche nelle citazione la povera critica cinematografica cade spesso e volentieri. “Nacht und Nebel”, per esempio, non è una “frase tedesca”, bensì il nome di una circolare di Hoffmann, e non sta a indicare “la realtà dei campi concentrazionari e
delle camere a gas” (per altro: “concentrazionari” non esiste in italiano…), bensì ordinava di avvolgere nel mistero più assoluto (“notte e nebbia” appunto) la sorte dei prigionieri politici del Reich, persino alle loro famiglie, affinché nessuno potesse dubitare o
criticare. Che vuoi di più?
Verrebbe voglia di concludere ricordando alla Brogi che a Hiroshima c’era il sole, e che c’è stata ancora più luce di prima quando è scoppiata la bomba. Ma forse lei non considera quello un atto di terrorismo, e io comunque ho troppo rispetto per i morti della bomba atomica per tirarli in ballo a così poco prezzo.
Uno sconsolato abbraccio,
XY
Sono letteralmente indignato. Addirittura si usa una lettera privata resa anonima per offendere le altrui argomentazioni. Una lettera per giunta di un tale XY che “preferisce non farsi ulteriori nemici” – “non ha bisogno di fare sforzi per moltiplicare le persone che preferiscono non sapere nulla di lui” –. E che miseria? E chi è mai costui che appena lo volesse sarebbe in grado di “moltiplicare” “le persone che preferiscono non sapere nulla di lui?” E che miseria, sembra di stare in Centesimo Potere di Welles. Un tale che giudica “brutte” le lucciole. Come si fa a dire di una lucciola che è brutta? Non perché sia bella, o meravigliosa, ma perché non c’entra niente la bruttezza o la bellezza. Le lucciole non sono né belle né meravigliose né brutte. Sono lucciole. Un tale che si rifiuta di scrivere una sola riga “di romanzo familiare, di introspezione e di commozione”.
Sì, “l’incoscio è cattivo”.
Ha perfettamente ragione signor XY provvisto di portavoce. Ma solo in alcuni casi.
In moltissimi altri non lo è. Ne sia certo.
Un cordiale saluto
Adelelmo Ruggieri
Sì, l’inconscio è cattivo. soprattutto quando è turbato, sconvolto, devastato dalla scoperta che una donna, invece di limitarsi a preparare zuppe o a fare l’angelo del ciclostile, come ai gloriosi tempi, ha spazio di pensiero e di parola – e ci sono pure altri uomini che la prendono sul serio: roba da non dormirci su.
Abate, ma il suo amico (!) è messo così male da non saper postare da sé le sue porcherie? E lei come fa a dar credito a questo cumulo ringhioso di scemenze? Che imbarazzo! Che pena!
P.S. Xy il resto del corredo cromosomico se l’è giocato alle slot machines?
Gentile Daniela Brogi e caro Adelelmo,
finalmente ci si risente. Se, però, è solo per dire che siete indignati, serve a poco e conferma il mio timore che non vogliate entrare nel merito né delle tante cose che ho scritto nel mio ultimo intervento né delle “porcherie” (davvero?) del mio amico. Indignatevi, ma poi, sbollita la rabbia, sottoponete alla lama della vostra critica entrambi gli interventi. ( L’inconscio – mio, vostro, del mio amico – non è ne buono né cattivo: va indagato).
Un caro saluto ad entrambi
Gentile Abate, sì, ha molta ragione: l’inconscio va indagato. ma, mi creda, non è questo il luogo.
Chiedo alla Redazione di “Le parole e le cose” di intervenire. Non è possibile che il signore Ennio Abate e i suo alter ego/sodali tromboni infestino, come la gramigna, questo spazio pubblico di discussione, aggredendo con argomentazioni ignobili e offensive l’autrice dell’articolo.
Gli interventi di Abate, nonché dei suoi lugubri alter ego, fanno ridere e piangere allo stesso tempo: ridere per le cazzate che scrive, piangere perché esistono ancora tromboni del genere in circolazione. Massima solidarietà alla compagna Brogi. Abate, come Laika, in orbita introno alla terra sullo Sputnik.
Leggo su LPLC:
«La responsabilità dei commenti agli articoli è degli autori degli stessi commenti» [Qui, invece, si riportano le parole di un ignoto]. La pubblicazione di un commento, anche in seguito a operazioni di moderazione, non implica in alcun modo adesione ai suoi contenuti da parte di Le parole e le cose. [E vorrei vedere!] Commenti offensivi, lesivi della persona o facenti uso di argomenti ad hominem verranno automaticamente cancellati» [Ad mulierem no? Ma comunque, che aspettate? va bene che in tutte le case nessuno vuol mai andare a buttare l'immondizia, però…]
@ Abate
Ma lei riportando queste castronerie crede davvero di offrirsi alla discussione? Sarebbe come dover rispondere alle scritte sui muri nei cessi dell’autogrill. Il guaio è che lei scredita pure se stesso e smette di essere un interlocutore credibile. Mi creda: è un vero peccato.
Gentile Brogi,
non chiedevo di indagare in questo luogo l’inconscio, ma di rispondere quantomeno alle mie obiezioni.
Gentile dottor Balicco,
perché chiedere alla redazione d’intervenire? Faccia come l’altra volta nel suo post, cancelli direttamente lei i miei commenti. Fortini, che lei ha studiato tanto bene, non c’è più e nessuno la disapproverà se si sta specializzando in censure da questurino.
@ kosmodromo
ma perché lei sa ridere e piangere?
Ha ragione. Lei fa solo ridere; ma comunque meglio, come Laika, se in orbita intorno alla terra. Ribadisco massima solidarietà alla compagna Brogi.
Gentile dottor Abate,
esiste un limite oltre cui la discussione diventa non solo inutile, ma dannosa per tutti. come in questo caso. Io non credo sia sbagliato – per principio – censurare interventi deliranti; sicuramente avrei censurato, ma questa redazione da “ceto democratico” non lo consente, l’articolo offensivo del suo alter ego che lei ha avuto il buon gusto di pubblicare. Perché fa male a tutti, non solo a lei che lo pubblica. Io non ho, a differenza sua, il mito dell’immediatezza. E non credo nella libertà come totale assenza di vincoli. Mi spiace essere arrivati a questo livello degradante per tutti. Ma credo che lei abbia torto e che dovrebbe chiedere quanto meno scusa a Daniela Brogi per l’articolo pieno di insulti che si è permesso di pubblicare.
Caro Ennio Abate, la invitiamo ancora una volta a moderare i toni e soprattutto a rispettare gli interlocutori. Le obiezioni che lei ha tanto a cuore si sollevano producendo un’argomentazione, non riportando giudizi sprezzanti (e per giunta anonimi) che consigliano alla sua interlocutrice di tornare a scuola o ne commentano le affermazioni con frasi del tipo: “Ma che cazzo stai dicendo?”. La discussione può benissimo essere aspra, ma interventi come il suo la squalificano e la rendono di fatto impossibile. LPLC non intende ricorrere alla censura, che per noi tutti rimane una soluzione estrema da adottare in casi eccezionali e circostanziati; e tuttavia chiede a chi interviene su questo sito, compresi i collaboratori, di comportarsi civilmente. Dato che la sua lettera ha fatto degenerare la discussione, i commenti a questo articolo, con il consenso dell’autrice, restano chiusi.

1 commento:

  1. mi è venuto in mente un detto di Mao; che cento fiori fioriscano, che mille scuole di pensiero si confrontino...

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