mercoledì 18 maggio 2011

Candy [G.Conserva, 1997]




Ho fumato di nuovo dopo anni, e la stanza è cambiata: mentre la musica si spegneva le pareti si sono allargate e allontanate e, dal basso, un costone di montagna è venuto a collocarsi davanti ai miei occhi; ed un altro di lato, e un vento tiepido e umido soffiava, e cadeva un po’ di pioggia. Non mi sono neanche stupito se non della leggerezza che avevo dentro. E mi sono detto: Be’, è un po’ far out (era il gergo che usavo un tempo fra me e  me: come dire “è troppo”, più tardi, meglio). La verità è che non sapevo come comportarmi a quel punto. “Se chiudo gli occhi”, mi sono detto, “potrò tornare a casa”. Take me home, where I belong. E: assurdo assurdo.


il movimento si diramava e spostava da una sezione all’altra, continuamente, mentre si udiva un rombo come di grandine oltre la soglia e la porta compariva. Mi guardavo attorno un poco stupito, tutto questo macchinario steampunk alla difference engine, & pensavo a Charles Babbage e al tempo felice & un po’ inconsulto che avevo trascorso studiando Hofstadter- oscillando sempre, del resto, fra l’immanenza degli schemi ed il riporto verso l’alto, oltre Dio- come se l’infinito potesse davvero entrare in quella stanza, o quella valle, o in quello schermo, e la danza degli elettroni non fosse una metafora ma, veramente, l’espressione del fondo della realtà- più reale comunque delle notizie da Gerusalemme o delle auto che parcheggiavano, o di qualcuno che conversava passando sotto. E non mi stupivo più tanto, dunque, di quello che stava avvenendo- come se qualcosa potesse avvenire ed io fossi intitolato ad interpretarlo- ma l’aria era trasparente e chiara- con gli occhiali (magici) la foschia eterna dell’Emilia era una volta per tutte stata dispersa ed io ero felice anche se un po’ solo. Dunque mi dissi (senza ricordare Nietzsche): ho bisogno di un compagno; ho bisogno di un compagno, sesso indistinto, i particolari si possono lasciare a dopo; perché, infine, I need someone to love.

& l’avevo vista più tardi, al Chelsea Hotel, o in una via di una città vicina al mare, mentre nuvole si accumulavano attraverso il cielo; e l’avevo vista su una collina ed in una piazza. Forse non avevo bisogno di musica; la musica scaturiva dalle parole- quando se ne andò risalendo il senso unico lungo il fiume; ma più tardi mi venne in mente Leonard Cohen.

ma adesso le cose andavano meglio: quel monte- la promessa in qualche modo di una vita più piena- il ruscello intravisto in fondo, con i suoi piccoli gorghi ed i suoi esseri viventi- lo stesso incanto dell’aria attraversata da mille ali, mille voli (questo mentre una immagine mi si disegnava nella mente)- tutto faceva pensare che in qualche modo la situazione avesse preso una svolta. E, certo, era una sicurezza fragile, forse solo il sollievo di un momento. Di per sè forse l’indizio di nuove prove da affrontare, spazi da percorrere (fisici e mentali), ruoli da indossare ed abbandonare. Ma, in ogni modo, qualcosa di nuovo e lieto.

Però dovevo evitare le spiegazioni consolatorie: poteva essere l’effetto della sostanza con cui avevo ripreso contatto, sogno o follia. Come se non avessi conosciuto persone che avessero sperimentato quegli stati. Come se io stesso...
Ma, appunto, avevo bisogno di qualcuno da amare.

Nietzsche, ho pensato. Nietzsche. Tutta la assurda routine del superuomo- il ponte teso, il canto del serpente,- mentre iniziava a piovere mi sono venuti in mente i suoi antenati polacchi, le commistioni, le trasfigurazioni e le estasi, la presenza reale di Sils Maria, la dolcezza della voce- adesso distintamente avevo nella testa quella canzone- l’acqua si raccoglieva sulla terra, decorava i fili d’erba, passava oltre i vetri nella sala. Era così bello. Anch’io voglio essere bello, come i fiori.-(Se era questo il metodo- salire scale cinquecentesche a Bologna, spingere la porta dell’appartamento 52- parlare di un articolo- una partenza per Rio de Janeiro- il mondo così piccolo dopo tutto- assurdo assurdo- x anni dopo).

Si è chiusa qui la storia? Come nella canzone di Kaspar Hauser di Verlaine, è la fine o l’inizio? Priez pour le pauvre Gaspard mi sono ripetuto alla fine, mentre mi voltavo verso l’auto per tornare alla mia casa, in giugno, il mese così felice. Avevo comunque tratto qualche insegnamento provvisorio da questa serie di eventi, potevo raccontarla con orgoglio, esibirla senza ostentazione. Di notte- una notte- avrei rifatto l’I King, avrei sfidato una volta di più il venir meno del senso. Fra la Luna e Marte segnali sarebbero stati messi. Una festa avrebbe avuto luogo. Io-sono-felice, ecco; le vibrazioni elettromagnetiche si disegnano nell’aria, il cielo diventa di mille colori (alcuni difficili da descrivere). Sexcrime, dico, sexcrime (come quando piansi ascoltando per la prima volta il video di Annie Lennox, pensando che non era una menzogna, che intendeva davvero quello di cui stava parlando- mentre voci calme venivano dalla cucina e bambini giocavano- tempi andati, una vita veramente diversa) e, “a noi due Parigi”- che si stendeva adesso davanti a me con tutte le sue luci ed i suoi suoni, sexcrime- (inizierò a comporre una traccia- una storia).

1 commento:

  1. Will Miller Babelfish destroys what I'm sure is a beautiful piece of writing...
    19 maggio alle ore 21.24 · Mi piace
    Giacomo Conserva POSSIBLY beautiful... alas, I think we must plod on and pray for the best (the confusion/multiplication of languages DID take place, not everything will be translated, something or much will be lost)

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