domenica 10 aprile 2011

Sul concetto di identità e su Carla Lonzi [Antonio Chiari]


Antonio Chiari

A proposito d’identità Massimo Recalcati - citando Lacan - scrive che l’identità viene dall’ ”altro”, (che siamo noi allo specchio - la fase dello specchio), un altro “tutt’uno” che non coincide con quell’esser frammentati che in realtà siamo. L’Io in sostanza è già un altro che compensa quale immagine riflessa, unitaria, compatta, la frammentazione che in quella fase dello sviluppo (12/18 mesi) e non solo - ci appartiene. Poi sarà o un predominare dell’ Io con relative proiezioni e paranoie di frammentazione, dunque aggressività a difesa dell’altro che siamo noi o un predominare della frammentazione che ci espone al pericolo della schizofrenia, quando l’altro, il limite non esiste. In mezzo ai due estremi tutta una varianza di stati d’essere, di oscillazioni, di equilibri raggiunti e poi persi nel divenire della vita. Insomma ciò che sta tra il si e il no, il bianco e il nero, quel grigio che è l’ambivalenza. Nei testi di autori junghiani spesso si trova, accanto all’ "aut aut” della scelta obbligata e della fissità, l’ “et et” che tende a significare la stessa ambivalenza di cui parlano Freud e Lacan. Nell’inconscio starebbe questa ambivalenza e quando l’inconscio scompare come nella società attuale pure questa ambivalenza scompare.

Leggendo Carla Lonzi ho provato a pensare cosa sia l’esser donna o l’esser uomo, ho cercato di immaginare e quindi di dar parola a questa differenza, che lei chiama la prima differenza. Carla Lonzi mi appare anch'ella in una sorta di dolorosa ambivalenza. Uscendo reattivamente dallo stato di sottoposte senza voler vincere sull’uomo le donne escono dalla dialettica servo padrone.
L ’uomo avrebbe cercato di sottomettere la donna e in origine della civiltà sarebbe questa sottomissione, per di più giocata prima in famiglia ove sono padre, madre e i figli, poi nella società tutta e nella chiesa, gli uomini alla guerra o alla trascendenza e le donne sottomesse, sottoposte, dominate. Il primo sfruttamento, quello dell’uomo sulla donna. Così è indubbiamente stato per quanto si riesca a ricordare. Potrebbero esserci solo alcuni esiti differenti che l’antropologia riesce a scovare in qualche piccolo gruppo di popolazioni in Africa o in Asia, luoghi in cui le donne dominano, piccole isole di società matriarcale.

Questo ci porta a pensare una sorta di essenzialismo femminista, che sostiene la differenza (oltre che il suo contrario, cioè il predominio dell’uomo sulla donna). L’essenzialismo prevede che l’uomo vada alla guerra e al potere e alla trascendenza e la donna sia cura e figli. Qualcosa non torna. Potremmo pensare che l’uomo primitivo sia andato alla guerra per proteggere moglie e figli. Zoja sostiene - nel suo libro “Il gesto di Ettore” che nel cammino evolutivo della specie umana, forse al suo inizio, appena assunta la posizione eretta, finita la dura lotta di supremazia tra maschi, ci sarebbe stato come il formarsi di un primo nucleo famigliare, la donna con il suo più generativo di vita e l’uomo, fisicamente più forte a caccia e a presidiare il territorio e che nel momento in cui pensava il ritorno, proprio nell’attimo in cui ricordava i luoghi precedentemente attraversati, costruiva pensiero e linguaggio. La differenza che si costituisce nell’evoluzione e nella storia umana. Una differenziazione di compiti. Ma così siamo sempre all’interno di un “aut aut”.

Proviamo invece ad assumere i toni del “grigio”, dell’”et et“: consideriamo sempre l’identità dell’essere donne e uomini, maschi e femmine, la differenza di genere. In fondo il mio essere uomo e maschio o donna e femmina si forma sull’identità del mio Io appena formatosi a cui aggiungo la negazione del non essere l’altro, l’opposto da me, il femminile per l’uomo e il maschile per la donna, che in realtà delimitano, nascondendosi nell’inconscio sottoforma di Animus e Anima direbbe Jung.[1]
Come è poco scientifico il nostro Jung ad immaginarsi archetipi, funzioni psichiche, predomini dell’uno o dell’altro archetipo che squilibrano la danza della vita. Ma se l’inconscio è la struttura sottostante e se non è una legge edipica a vantaggio maschile che muove il mondo, ci sarà qualche altra spiegazione, che vorrei pensare.

Incontrovertibile la follia del dominio dell’uomo sulla donna. Pure incontrovertibile la follia della guerra a cui siamo sottoposti e ricattati e quella del potere aggiungo senex ad appannaggio maschile. Jung parlava di opposti e di ambivalenze . Potere e amore. Carla Lonzi ci dice di questo.
Io vorrei almeno parlare di poteri al plurale e di amori incarnati, detti con parole che partano da se. Vorrei partire da ciò che non è certo, quale l’inconscio o l’impensato che dall’inconscio muove. Dal mio cercare femminilità e virilità insieme, cura ed affetti e possibilità paterna. Nella continua descrizione a me stesso di ciò che mi è avvenuto, che è la mia autocoscienza, il riapparire del rimosso alla coscienza e dunque di parti inconsce, di parti Anima come direbbe il provocatore poco scientifico Jung, riemerge la partecipazione a quegli anni sessanta e poi settanta, gli anni della mia adolescenza e gioventù, in cui mi sono formato Io e pensiero e consapevolezza della frammentazione mia e degli altri: la consapevolezza dello strutturalismo che segue l’esistenzialismo sartriano. Questo caratterizza anche Carla Lonzi. Dunque una vita, la mia, oltre le strutture che opprimono, sicuramente oltre la famiglia, oltre il patriarcato, oltre la borghesia come stile di vita, certamente oltre la società dei consumi, anche comunista. Non mi sono mai sposato, ho amato innamorandomi, ho accettato in prima persona che la vita scavasse solchi sulla mia pelle e sulla pelle di altre e altri. Dolore ed estasi insieme. La sessualità nella strada dell’amore “non possessivo”. Tutto così “romantico”. Se potessi tornare indietro qualche “baratro” cercherei di evitarlo, all’altro soprattutto ma anche a me stesso. Di questo “più tragico” farei volentieri a meno .

I non stupidi vagano diceva Lacan, “les non dupes errent”. Sto invece di-vagando. Prendo tempo anche su me stesso. Vorrei che le ambivalenze uscissero allo scoperto, come quando Carla Lonzi sputa su Hegel, sul suo “aut aut” tra servo e padrone parlando di come donne e uomini non possano più permettersi di negarsi l’un l’altro, non possano diffamarsi, dominarsi anche se questo è ciò che avviene. Per evitare fraintendimenti bisogna ripetere che negazioni e domini son sempre stati da parte dell’uomo sulla donna. Carla Lonzi insiste e dice me ne vado in altri luoghi con le donne, senza entrare nella logica servo padrone, che non può darsi dialettica. Questo è quello che s’intendeva per “autonomia”. Nel mio cammino (autonomo) mi sono accorto di ambivalenze all’opera, dell’odio amore in famiglia. Mi sono accorto dell’archetipo e che la funzione paterna esisteva, che non so se erano archetipi ma sicuramente affetti potenti, e responsabilità e consapevolezze dolorose, non eliminabili con un tratto di penna, ne con un concetto unilaterale, sicuro, certo.

Questo che ho raccontato di me, il pensare virilità e femminilità o il pensare la paternità a fronte della crisi della famiglia, si inserisce in un’ evoluzione differente del pensiero descritto qui sopra. Dice Ida Dominijanni che un’altra pensatrice può ben inserirsi nel discorso a partire da quello “Sputiamo su Hegel”, dall’andare a costituire la differenza, rifiutando la logica hegeliana servo padrone, che è il pensiero aurorale e sorgivo della differenza. Scrive Judit Butler infatti, rileggendo e ripensando Hegel, che la dialettica servo padrone non finisce nella sintesi altra, nel dominio dell’ uno sull’altro, eventualmente il servo della lotta di classe che vince e costruisce una società nuova. La dinamica sarebbe diversa, costituita della lotta per il proprio riconoscimento da parte dell’altro e viceversa, senza identità fisse ma bensì alterazioni reciproche che questa dinamica comporta. In una dialettica infinita e continuamente produttiva di alterazioni reciproche. E questo potremmo pensare che avvenga anche nella differenza prima uomo donna. E nelle altre differenze. Delineando il nuovo registro in cui pensare la differenza, inserendoci in esso e lavorando. Ci sei tu e ci sono io in primis e io non sono un soggetto forte ma un soggetto delimitabile dall’altro a sua volta delimitato da me. Non c’è “io” senza relazione con l’altro, ma un processo di alterazione reciproca, senza superamento e sintesi. Una dialettica senza sintesi fra differenze insuperabili ma alterabili in una continua messa in discussione delle identità fisse.


[1] L’immagine del femminile – gli iunghiani dicono l’archetipo dell’anima – si costituisce a partire dallo opposto da me. É l’immagine dell’altro e il desiderio che definiscono il mio io. Il femminile per un uomo è il non io, il completamente altro (e viceversa il maschile per una donna). Io provo a definire il mio io e dunque la mia identità e dunque la mia persona a partire da questa immagine del femminile. Io sono perchè l’altro da me, la differenza - essendo altro - costituisce la mia identità. Io non vengo delimitato dal simile ma dall'altro.

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