domenica 10 aprile 2011

Marco Baldino "Deleuze: un metodo per spingersi fuori"





[Marco Baldino nelle sue note facebook, 25 agosto 2010
http://www.facebook.com/note.php?note_id=150036248348027-
ringraziamo l'autore per averci autorizzato a riprodurre questo testo]



Deleuze discute il libro di Louis Wolfson, Le schizo et les langues (1970). Wolfson stesso è schizofrenico. Tema del saggio: il “procedimento” messo in atto da Wolfson per governare la propria esperienza o, per essere più espliciti, la propri follia. Il saggio è utile occasione per ricordare analoghi tentativi: Roussel, Brisset, Artaud.

Deleuze critica la psicanalisi, ma non si tratta di una critica di prammatica. La psicanalisi - dice - ha un solo torto, quello di ricondurre le avventure della psicosi al circolo familiare, all’eterno ritornello mamma-papà, cioè alla questione edipica. In realtà lo schizofrenico, in quanto tale, pensa e agisce non all’interno di categorie familiari, ma all’interno di categorie mondiali o addirittura cosmiche. Secondo Deleuze, il giovane Wolfson potrebbe per esempio accettare benissimo i suoi padre-e-madre così come sono, modificando solo alcune delle sue conclusioni negative nei loro confronti e magari ritornare alla lingua materna (che egli, con l’invenzione del procedimento, vuole in verità sopprimere), quello che la psicanalisi non vede è il fatto che Wolfson è malato non nel suo padre-e-madre, ma del mondo.

Ora, tutta la questione del “procedimento” sembra, a prima vista, girare proprio intorno alla figura della madre e del padre, alla resistenza nei confronti di tutto ciò che è metaforicamente riconducibile alla madre: la lingua madre, il cibo, la malattia e all’esaltazione di tutto ciò che rinvia metaforicamente al padre: il sapere, le catene di atomi, le lingue straniere ... È questo che la psicanalisi insegna a vedere; è con queste categorie che insegna ad affrontare la psicosi. Ma non funziona.

Ciò che lo studente di lingue schizofrenico chiama “madre” è in realtà un’organizzazione di parole che gli è stata messa nelle orecchie:

1) «non è la mia lingua ad essere materna: è la madre che è una lingua»;
2) «non è il mio organismo che deriva dalla madre: è la madre che è una collezione di organi, la collezione dei miei organi».

Ciò che Wolfson chiama “Madre” è in realtà la “Vita” e ciò che chiama “Padre” è in realtà l“estraneità, ossia tutte le parole che non conosce, tutti gli atomi che continuano a entrare e uscire dal corpo: «non è il padre che parla le lingue straniere e conosce gli atomi, sono le lingue straniere e le combinazioni atomiche a essere mio padre»; il padre è il popolo dei suoi atomi e l’insieme delle sue glossolalie - insomma il sapere.

Tra il sapere e la vita vi è una lotta irriducibile. Il problema dello studente di lingue schizofrenico non è quindi un problema legato a questioni familiari (come liberarsi della madre malata, come assomigliare al padre assente), ma un problema metafisico: come giustificare la vita così com’è, cioè sofferenza, a volte grido, sempre «cattiva materia malata».

In un primo momento Wolfosn sembra optare per la seguente soluzione: la sola giustificazione della vita è il sapere, il quale è di per sé il Bello e il Vero. Ma un giorno incontra la vera “rivelazione”: la vita è assolutamente ingiustificabile, e allora la vita e il sapere non si contrappongono più, anzi, non si distinguono neanche più. Ecco allora il senso del procedimento: tutte la parole raccontano una storia di vita e di sapere; questa storia è ciò che c’è di impossibile nel linguaggio, il suo fuori. Questa storia è resa possibile solo da un procedimento che testimonia la follia.

Il limite del procedimento di Wolfson è però che esso spinge sì il linguaggio al limite, ma non lo oltrepassa. Il problema, secondo Deleuze, è invece attraversare da vincitore le regioni della “sragione”, «affrontare dall’altro lato del limite [del linguaggio] le figure di una vita sconosciuta e di un sapere esoterico». Secondo Deleuze questa navigazione pericolosa è riuscita a Roussel, a Brisset, a Artaud, ma non a Wolfson, anche se Wolfson ha messo a nudo la trama del procedimento. Il libro di Wolfson - scrive Deleuze - non è un’opera scientifica. Un metodo scientifico implica sempre la determinazione di una totalità formalmente legittima, mentre è del tutto evidente che la totalità di riferimento di Wolfson (l’insieme indefinito di tutto quanto non è la “lingua madre”) è una totalità illegittima (mancano del tutto le regole sintattiche che facciano corrispondere i sensi a suoni e ordini le trasformazioni dell’insieme di partenza). Wolfson vive perciò il proprio pensiero come il duplice simulacro di un sistema poetico-artistico e di un metodo logico-scientifico.

Riassumendo:
Le caratteristiche fondamentali di tale “procedimento” sono quoindi le seguenti:
1) ad esso non corrisponde alcun metodo scientifico - tale procedimento manca infatti del necessario riferimento ad una totalità formalmente legittima data;
2) esso non possiede regole in base alle quali ordinare le trasformazioni dell’insieme di partenza;
3) simula nello stesso tempo l’andamento di un sisitema poetico-artistico e, contraddittoriamente, quello di un metodo logico-scientifico.

Il procedimento di Wolfson è tuttavia un modo per governare un’esperienza che si presenta a tutta prima ingovernabile e, quindi, in un certo senso, esso è proprio una sorta di Perí Physeos, una sorta di ontologia sorgiva. Il procedimento di Wolfson non consente di esplorare le regioni del fuori per tornarne dentro vittoriosi (Wolfson non è Roussel, Brisset, Artaud), il suo procedimento è piuttosto la registrazione strumentale del travaso delle forze del fuori nella regione del dentro, o anche del venir meno della stessa frontiera dentro/fuori. Quello di Wolfosn non è quindi un problema di trasgressione, quanto un problema di implosione. Questa “implosione” produce una sospensione confusiva del pensiero e del non-pensiero, tanto da modificare, irreversibilmente, lo statuto stesso del filosofico. Si tratta della desintetizzazione dell’Occidente: la "desintetitazzione" è ciò che consuma tutte le totalità legittime e, insieme, i procedimenti eroici di esplorazione del fuori: non c’è più un vero e proprio fuori, o ce n'è sempre meno, e quindi non c’è più nemmeno un vero e proprio dentro.

(mb)

Gilles Deleuze,«Louis Wolfson o il procedimento», in Critica e clinica, tr. di A. Panaro, Cortina, Milano 1996.

[v.http://gconse.blogspot.com/2011/04/le-schizo-et-les-langues-louis-wolfson.html]

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