domenica 17 aprile 2011

M.Foucault "LA FOLLIA, L’ASSENZA DI OPERA"/ "Madness, the Absence of Work" ['Table Ronde', 1964]






LA FOLLIA, L’ASSENZA DI OPERA.
Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. La sua figura si sarà racchiusa su se stessa non permettendo più di decifrare le tracce che avrà lasciato. Queste stesse tracce non appariranno, a uno sguardo ignorante, se non come semplici macchie nere. Tutt’al più faranno parte di configurazioni che a noi ora sarebbe impossibile disegnare, ma che saranno nel futuro le indispensabili griglie attraverso le quali render leggibili noi, e la nostra cultura, a noi stessi. Artaud apparterrà alla base del nostro linguaggio, e non alla sua rottura; le nevrosi, alle forme costitutive (e non alle deviazioni) della nostra società. Tutto quel che noi oggi proviamo relativamente alla modalità del limite, o della estraneità, o del non sopportabile, avrà raggiunto la serenità del positivo. E quel che per noi designa attualmente questo Esterno rischia veramente un giorno di designarci, noi proprio noi.
Resterà soltanto l’enigma di questa Esteriorità. Quale era dunque, ci si domanderà, questa strana delimitazione che è stata alla ribalta dal profondo Medioevo sino al ventesimo secolo e forse oltre?
Perchè la cultura occidentale ha respinto dalla parte dei confini proprio ciò in cui avrebbe potuto benissimo riconoscersi, in cui di fatto si è essa stessa riconosciuta in modo obliquo? Perchè ha affermato con chiarezza a partire dal diciannovesimo secolo, ma anche già dall’età classica, che la
follia era la verità denudata dell’uomo, e tuttavia l’ha posta in uno spazio neutralizzato e pallido ove era come annullata? Perchè aver raccolto le parole di Nerval o di Artaud, perchè essersi ritrovata in esse, e non nei loro autori?
Così avvizzirà la viva immagine della ragione in fiamme. Il gioco così familiare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che siamo; quel gioco, con le sue regole, le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e per sempre, se non un rituale i cui significati saranno stati ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche. Qualcosa come l’attenzione ambigua che la ragione greca aveva per i propri oracoli. O come l’istituzione parallela, dal sedicesimo secolo, delle pratiche e dei processi di stregoneria. Tra le mani delle culture storiche non resterà nient’altro che le misure codificate
dell’internamento, le tecniche della medicina, e dall’altra parte l’inclusione improvvisa, irruente, della parola degli esclusi nel nostro linguaggio.
Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento? La possibilità per la medicina di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica? Il controllo farmacologico preciso di tutti i sintomi psichici? O una definizione delle deviazioni del comportamento
abbastanza rigorosa da permettere alla società di prevedere agevolmente per ciascuna di esse il conveniente modo di neutralizzazione? O altre modificazioni ancora, nessuna delle quali forse sopprimerà realmente la
malattia mentale, ma che avranno tutte il significato di cancellare dalla nostra cultura l’immagine della follia?
So bene che avanzando quest’ultima ipotesi io contesto ciò che è comunemente ammesso: che i progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravvivrà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte; che, una volta messo fuori circuito ciò che è patologico, l’oscura appartenenza dell’uomo alla follia sarà la
memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattia, ma irriducibile come dolore. A dire il vero, questa idea presuppone come inalterabile ciò che, senza dubbio, è la cosa più precaria, molto più precaria delle costanti del patologico: il rapporto di una cultura proprio con ciò che essa esclude, e più precisamente il rapporto della nostra cultura con quella verità di se stessa, lontana e contraria, che nella follia essa scopre e ricopre.
Ciò che è prossimo a morire, ciò che muore già in noi (e la cui morte appunto sottende il nostro linguaggio attuale) è l’”homo dialecticus”: l’essere della partenza, del ritorno e del tempo, l’animale che perde la sua verità e la ritrova illuminata, l’estraneo a se stesso che ridiventa familiare. Questo uomo fu il soggetto signore e il servo oggetto di tutti i discorsi sull’uomo che sono stati tenuti da moltissimo tempo, e in particolare sull’uomo alienato. E, fortunatamente, muore sotto i loro sproloqui.
Se dunque non sapremo più come l’uomo abbia potuto distanziare questa figura di se medesimo, in qual modo ha potuto far passare dall’altra parte del limite proprio ciò che dipendeva da lui e nel quale era tenuto. Nessun pensiero potrà più pensare questo movimento in cui l’uomo occidentale
ancora ieri si collocava. A essere perduto, e per sempre, è questo rapporto con la follia (e non un determinato sapere sulla malattia mentale o quel certo atteggiamento rispetto all’uomo alienato). 
Questo soltanto si saprà, che noi altri, occidentali vecchi di cinque secoli, siamo stati sulla faccia della terra quei tali che, tra molti altri aspetti fondamentali, abbiamo avuto questo, strano quant’altri mai: abbiamo mantenuto con la malattia mentale un rapporto profondo, patetico, forse per noi stessi difficile da descrivere, ma impenetrabile a tutto il resto, e nel quale abbiamo provato il più vivo dei nostri pericoli, e la nostra verità, forse la più vicina. Si dirà non già che noi siamo stati “a distanza” dalla follia, ma “dentro la distanza” dalla follia. Allo stesso modo i greci non erano lontani dalla “ybris” in quanto la condannavano, piuttosto erano nella lontananza da questa dismisura, nel cuore di quella distanza in cui avevano rapporti con essa.
Per coloro che non saranno più noi, resterà da meditare su questo enigma (un po’ come facciamo noi quando cerchiamo oggi di renderci conto di come Atene abbia potuto invaghirsi della sragione di Alcibiade e disamorarsene): come abbiano potuto degli uomini cercare la loro verità, la loro parola essenziale e i loro segni nel rischio che li faceva tremare, e dal quale non potevano fare a meno di distogliere gli occhi nel momento stesso in cui l’avevano scorto! E questo parrà loro ancor più strano del domandare alla morte la verità dell’uomo: poichè questa dice ciò che tutti saremo. La follia viceversa è il raro pericolo, una possibilità che ha scarso peso rispetto alle ossessioni che fa nascere e agli interrogativi a essa posti. Come mai, in una cultura, una così lieve eventualità può esercitare un simile potere di spavento rivelatore.
Per rispondere a questa domanda, coloro che ci guarderanno volgendosi indietro non avranno indubbiamente molti elementi a loro disposizione. Solo alcuni segni carbonizzati: la paura ribadita per interi secoli di vedere le basse acque della follia salire e sommergere il mondo; i rituali di esclusione e di inclusione del folle; l’ascolto teso, dopo il diciannovesimo secolo, a sorprendere nella follia qualcosa che possa dire che cos’è la verità dell’uomo; la stessa impazienza con cui sono respinte e accolte le parole della follia, l’esitazione a riconoscere la loro inanità o la loro risolutezza. 
Tutto il resto: quel movimento singolare con il quale noi andiamo incontro alla follia nello stesso momento in cui ce ne stacchiamo, questo riconoscimento temuto, quella volontà di fissare un limite e di colmarlo subito con la trama di un senso unitario, tutto ciò sarà ridotto al silenzio, come è muta per noi, oggi, la trilogia greca mania, ybris, aloghia, o muto l’atteggiamento della deviazione sciamanica in una società primitiva.
Noi siamo in quel punto, in quell’ansa del tempo, in cui un certo controllo tecnico della malattia copre più di quanto non indichi il movimento che racchiude su se stessa l’esperienza della follia. Ma è proprio questa piega che ci permette di rendere esplicito ciò che per secoli è restato implicito: la malattia mentale e la follia: due configurazioni differenti, che si sono incontrate e confuse a partire dal diciassettesimo secolo, e il cui nodo ora si scioglie sotto i nostri occhi o piuttosto nel nostro linguaggio.
Dire che la follia è oggi scomparsa, significa dire che scompare quella implicazione che la racchiudeva insieme nel sapere psichiatrico e in una riflessione di tipo antropologico. Ma non significa dire che con ciò scompaia la forma generale di trasgressione il cui volto visibile era stato
per secoli la follia. Nè che questa trasgressione non sia sul punto, nel momento stesso in cui noi chiediamo che cos’è la follia, di dar luogo a un’esperienza nuova. 
Non esiste una sola cultura al mondo in cui sia permesso di fare tutto. E da molto tempo si sa bene che l’uomo non comincia con la libertà ma con il limite e con la linea dell’invalicabile. Si conoscono i sistemi ai quali obbediscono le azioni interdette; è stato possibile distinguere per ogni cultura il regime delle proibizioni dell’incesto. Ma è ancora mal nota l’organizzazione delle interdizioni del linguaggio. Il fatto è che i due sistemi di restrizione non si sovrappongono, come se l’uno fosse la
versione verbale dell’altro: ciò che non deve apparire a livello di parola non è necessariamente proscritto nella sfera del gesto. Gli zuñi, che lo proibiscono, narrano l’incesto del fratello e della sorella; e i greci la leggenda di Edipo. Inversamente, il Codice del 1808 ha abolito le vecchie leggi penali contro la sodomia; ma il linguaggio del diciannovesimo secolo è stato molto più intollerante nei confronti dell’omosessualità (quanto meno nella sua forma maschile) di quanto non lo siano state le età precedenti. Ed è probabile che i concetti psicologici di compensazione, di espressione simbolica, non possano in alcun modo spiegare un simile fenomeno. 
Sarà necessario un giorno studiare questo ambito delle interdizioni di linguaggio nella sua autonomia. E’ senz’altro troppo presto per sapere esattamente come farne l’analisi. Si potranno utilizzare le divisioni attualmente ammesse del linguaggio. E riconoscere innanzitutto, al limite
dell’interdizione e dell’impossibilità, le leggi che concernono il codice linguistico (ciò che, così chiaramente, si chiama errore di lingua, “faute de langue”); poi, all’interno del codice e fra le parole o espressioni esistenti, quelle che sono colpite da un interdetto di articolazione (tutta la serie religiosa, sessuale, magica delle “parole blasfeme”); quindi gli enunciati che sarebbero autorizzati dal codice, permessi nell’atto della parola, ma il cui significato è intollerabile, per una determinata cultura a un certo momento: qui la deviazione metaforica non è più possibile, perchè è il senso stesso che è oggetto di “censura”. Infine, esiste pure una quarta forma di linguaggio escluso: consiste nel sottomettere una parola, apparentemente conforme al codice riconosciuto, a un altro codice la cui chiave è data da questa stessa parola: dimodochè questa è sdoppiata al proprio interno: dice ciò che dice, ma aggiunge un “surplus” muto che enuncia silenziosamente ciò che dice e il
codice in base al quale lo dice. Non si tratta in questo caso di un linguaggio cifrato, ma di un linguaggio strutturalmente esoterico. In altri termini non comunica, nascondendolo, un significato interdetto; si istalla sin dal primo istante in una piega essenziale della parola. Piega che scava la parola dall’interno, forse sino all’infinito. Poco importa allora ciò che si dice in un simile linguaggio e i significati che ne vengono liberati. E’ questa liberazione oscura e centrale della parola nel cuore di se stessa, la sua fuga incontrollabile verso una dimora sempre senza luce, che nessuna cultura può accettare immediatamente. Una tale parola è trasgressiva non nel suo senso, non nella sua materia verbale, ma nel suo gioco.
E’ assai probabile che ogni cultura, qualunque sia, conosca, pratichi e tolleri (entro certi limiti), ma al tempo stesso reprima ed escluda, queste quattro forme di parole interdette. 
Nella storia occidentale l’esperienza della follia si è disposta lungo questa scala. In verità essa ha per lungo tempo occupato una regione incerta, per noi difficile da precisare, tra l’interdizione dell’azione e quella del linguaggio: da qui l’importanza esemplare della coppia “furor - inanitas” che ha praticamente organizzato, secondo i registri del gesto e della parola, il mondo della follia sino al termine del Rinascimento. L’epoca della Reclusione (gli Hôpitaux généraux, Charenton, Saint-Lazare, istituiti nel diciassettesimo secolo) segna una migrazione della follia verso la regione dell’insensato: la follia non conserva con gli atti interdetti che una parentela morale (resta essenzialmente legata alle interdizioni sessuali), ma è inclusa nell’universo delle interdizioni di linguaggio; la reclusione classica racchiude, con la follia, il libertinaggio di pensiero e di parola,
l’ostinazione nell’empietà o nell’eterodossia, la bestemmia, la stregoneria, l’alchimia: in breve tutto ciò che caratterizza il mondo “parlato” e interdetto della sragione; la follia è il linguaggio escluso: quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli insensati, gli imbecilli, i dementi), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i violenti, i furiosi), o quello ancora che fa passare significati interdetti (i libertini, i testardi). Di questa repressione della follia come parola interdetta, la riforma di Pinel è molto più un compimento visibile che una modificazione.
La modificazione non si produsse realmente se non con Freud, quando l’esperienza della follia si èspostata verso l’ultima forma di interdizione del linguaggio citata poc’anzi. La follia ha cessato allora di essere errore di linguaggio, bestemmia proferita, o significato intollerabile (e in questo
senso la psicanalisi è veramente la grande rimozione delle interdizioni, come diceva lo stesso Freud); è apparsa come una parola che si avvolge su se stessa, dicendo al di sotto di ciò che dice altre cose, delle quali è al tempo stesso il solo codice possibile: linguaggio esoterico, se si vuole,
poichè trattiene la sua lingua all’interno di una parola che alla fin fine non dice altre cose che questa implicazione.
Occorre dunque prendere l’opera di Freud per quel che è; essa non scopre il fatto che la follia è presa in una rete di significati comuni con il linguaggio di tutti i giorni, autorizzando così a parlarne nella piattezza quotidiana del vocabolario psicologico. Essa disloca l’esperienza europea della follia per situarla in quella regione pericolosa, trasgressiva sempre (dunque ancora interdetta, ma in una modalità particolare), che è quella dei linguaggi che si implicano essi stessi, enunciando cioè nel loro enunciato la lingua nella quale lo enunciano. Freud non ha scoperto l’identità perduta di un senso; ha delimitato la figura irrompente di un significante che “non è assolutamente” come gli altri. 
La qual cosa avrebbe dovuto essere sufficiente a proteggere la sua opera da tutte le interpretazioni psicologicizzanti con cui questi nostri cinquant’anni l’hanno ricoperta, nel nome (derisorio) delle scienze umane e della loro unità asessuata.
E con ciò stesso, la follia è apparsa, non come l’astuzia di un significato nascosto, ma come la prodigiosa “riserva” di senso. Occorre inoltre capire nel modo giusto questo termine di riserva: è non tanto una scorta quanto piuttosto una figura che trattiene e sospende il senso, gestisce un vuoto in cui non si propone se non la possibilità, ancora inattuata, che vi si istalli un certo senso, o un altro, o un terzo ancora, e così via forse sino all’infinito. La follia apre una riserva lacunosa che designa e fa vedere quella cavità in cui lingua e parola si implicano, si formano l’una a partire
dall’altra e non dicono nient’altro se non il loro rapporto ancora muto. Dopo Freud la follia occidentale è divenuta un non-linguaggio perchè è diventata un linguaggio doppio (lingua che non esiste se non in questa parola, parola che non dice altro che la sua lingua), ossia una matrice del
linguaggio che, in senso stretto, non dice nulla. Piega del parlato che è un’assenza di opera.  Bisognerà un giorno rendere giustizia a Freud per non aver fatto “parlare” una follia che da molti secoli era precisamente un linguaggio (linguaggio escluso, inanità ciarliera, parola che corre
indefinitamente al di fuori del silenzio riflesso dalla ragione); ne ha invece inaridito il Logos sragionevole; lo ha disseccato; ne ha fatto risalire le parole sino alla loro sorgente: sino a quella regione bianca dell’autoimplicazione dove niente è detto.
Ciò che avviene attualmente è ancora in una luce per noi incerta; nel frattempo è possibile veder disegnarsi, nel nostro linguaggio, uno strano movimento. La letteratura (e questo senza dubbio a partire da Mallarmé) si sta lentamente trasformando a sua volta in un linguaggio la cui parola
enuncia, nello stesso tempo in cui dice e nello stesso movimento, la lingua che la rende decifrabile come parola. Prima di Mallarmé, scrivere consisteva nello stabilire la propria parola all’interno di una data lingua, dimodochè l’opera del linguaggio fosse della stessa natura di tutti gli altri linguaggi, a parte i segni della Retorica, del Soggetto e delle Immagini (che certo erano maestosi). Alla fine del diciannovesimo secolo (nell’epoca della scoperta della psicanalisi, o giù di lì) essa era diventata
una parola che iscriveva in se stessa il proprio principio di decifrazione; oppure, in ogni caso, essa supponeva, al di sotto di ciascuna delle sue frasi, di ciascuna delle sue parole, il potere di modificare sovranamente i valori e i significati della lingua alla quale nonostante tutto (e di fatto) apparteneva; essa sospendeva il regno della lingua in un gesto attuale di scrittura. 
Da qui la necessità di quei linguaggi secondi (che in breve vengono chiamati la critica): essi non funzionano più ora come aggiunte esterne alla letteratura (giudizi, mediazioni, contatti che sembrava proficuo stabilire tra un’opera rinviata all’enigma psicologico della sua creazione e l’atto di consumo del lettore); oramai, fanno parte, nel cuore della letteratura, del vuoto che questa instaura nel suo proprio linguaggio; sono il movimento necessario, ma necessariamente incompiuto, mediante il quale la parola è riportata alla sua lingua, e la lingua si stabilisce sulla parola. 
Da qui anche la strana vicinanza tra follia e letteratura, alla quale non bisogna assegnare il senso di un’affinità psicologica finalmente messa a nudo. Scoperta come un linguaggio che tace nella sovrapposizione a se stesso, la follia non manifesta nè narra la nascita di un’opera (o di qualcosa che, con un po’ di genio o un po’ di fortuna, avrebbe potuto diventare un’opera); essa designa la forma vuota da cui proviene quest’opera, ossia il luogo da cui essa non cessa di essere assente, dove
non la si troverà mai perchè non vi si è mai trovata. Qui in questa regione pallida, sotto questo nascondiglio essenziale, si svela l’incompatibilità gemellare dell’opera e della follia; è il punto cieco della propria possibilità e della loro mutua esclusione.
Ma dopo Raymond Roussel, dopo Artaud, è anche il luogo verso il quale il linguaggio della letteratura si accosta. Ma non vi si accosta come a qualcosa che avrebbe il compito di enunciare. E’ tempo di accorgersi che il linguaggio della letteratura non si definisce per ciò che dice, nè tantomeno per le strutture che lo rendono significante. Ma che egli ha un essere e che è su questo essere che occorre interrogarlo. Questo essere, qual è attualmente. Senza dubbio qualcosa che ha a che vedere con l’autoimplicazione, nel doppio e nel vuoto che si scava in lui. In questo senso l’essere della letteratura, così come si produce dopo Mallarmè e sino ai nostri giorni, conquista la regione dove, da Freud in poi, avviene l’esperienza della follia. 
Agli occhi di non so quale cultura a venire - che forse è già molto vicina - noi saremo coloro che si sono maggiormente avvicinati a quelle due frasi mai realmente pronunciate, quelle due frasi, tanto contraddittorie e impossibili come il famoso io mento, e che designano entrambe lo stesso
autoriferimento vuoto io scrivo e io deliro. Noi rappresenteremo questo, accanto a mille altre culture che hanno avvicinato l’io sono folle all’io sono uno stupido o all’io sono un dio o all’io sono un segno o ancora all’io sono una verità, come accadde per tutto il diciannovesimo secolo, sino a Freud. E se questa cultura ha il gusto della storia, essa si ricorderà in effetti che Nietzsche, diventando folle, ha proclamato (si era nel 1887) che egli era la verità (giacchè sono così saggio, perchè ne so così di più, perchè scrivo dei così bei libri, perchè sono segnato dal destino); e si
ricorderà che meno di cinquant’anni dopo Roussel, poco prima del suicidio, scrisse, nel Comment j’ai écrit certains de mes livres, il racconto, sistematicamente intrecciato, della sua follia e dei procedimenti del suo scrivere. E senza dubbio ci si stupirà che noi abbiamo potuto riconoscere una così strana parentela tra ciò che per lungo tempo fu temuto come grido, e ciò che, per lungo tempo, fu atteso come canto.
Ma può darsi appunto che questo cambiamento non appaia tale da meritare alcuno stupore. Siamo noi oggi che ci stupiamo di veder comunicare due linguaggi (quello della follia e quello della letteratura) la cui incompatibilità è stata costruita dalla nostra storia. Dal diciassettesimo secolo follia e malattia mentale hanno occupato lo stesso spazio nel campo dei linguaggi esclusi (all’incirca, quello dell’insensato). Entrando in un altro settore del linguaggio escluso (in quello delimitato, consacrato, temuto, verticalmente innalzato su se stesso, riferentesi a sè in una Piega inutile e trasgressiva, che chiamiamo letteratura), la follia svela la sua parentela, antica o recente secondo la scala che scegliamo, con la malattia mentale.
Quest’ultima, senza dubbio alcuno, sta per entrare in uno spazio tecnico sempre meglio controllato: negli ospedali la farmacologia ha già trasformato le camerate degli agitati in grandi acquari tiepidi. 
Ma, al di sotto di queste trasformazioni e per ragioni a esse estranee (almeno ai nostri sguardi attuali), è imminente un “epilogo”: follia e malattia mentale disfano la loro appartenenza alla stessa unità antropologica. Questa unità sparisce essa stessa, con l’uomo, postulato passeggero. La follia, alone lirico della malattia, non cessa di spegnersi. E lontano dal patologico, dalla parte del linguaggio, proprio dove esso si ripiega senza ancora dire nulla, sta per nascere una esperienza nella
quale si decide del nostro pensiero; la sua imminenza, già visibile ma assolutamente vuota, non può ancora essere nominata.
  
Madness, the Absence of Work.  Michel Foucault, Translated by Peter Stastny and Deniz Sengel 
Perhaps some day we will no longer really know what madness was. Its face will have closed upon itself, no longer allowing us to decipher the traces it may have left behind. Will these traces themselves have become anything to the unknowing gaze but simple black marks? Or will they at the most have become part of the configurations that we others now can- not sketch but that in the future would constitute the indispensable grids through which we and our culture become legible? Artaud will belong to the foundation of our language, not to its rupture; the neuroses will belong among the constitutive forms (and not the deviations) of our soci- ety. Everything we experience today in the mode of a limit, or as foreign, or as intolerable will have returned to the serenity of the positive. And whatever currently designates this exteriority to us may well one day des- ignate us. Only the enigma of this exteriority will remain. What was, then, this strange demarcation, one will ask, that was at work from the heart of the Middle Ages until the twentieth century and possibly beyond? Why did Western culture cast from its field that in which it might just as well have recognized itself, where in fact it had recognized itself obliquely? Why has it formulated so clearly since the nineteenth century, but in a way already since the classical age, that madness was the truth of the human laid bare while nevertheless placing it in a space, neutralized and pale, where it was as it were canceled? What was the point of collecting the texts of Nerval or Artaud? Why discover oneself in their utterances and not in themselves? So the sharp image of reason will wither in flames. The familiar game of mirroring the other side of ourselves in madness and of eavesdropping from our listening posts on voices that, coming from very far, tell us more nearly what we are-this game with its rules, its strategies, its contriv- ances, its tricks, its tolerated illegalities will once and for all have become nothing but a complex ritual whose significations will have been reduced to ashes. Something like the great ceremonies of barter and combat in archaic societies. Something like the ambiguous attention Greek reason paid to its oracles. Or like the latter's twin institution, starting with the fourteenth century A.D., of the practices and trials of witchcraft. Nothing will remain in the hands of cultural historians except the codified meth- ods of confinement, the techniques of medicine, and, on the other hand, the sudden, irruptive inclusion in our language of the speech of the ex- cluded. What will the technical support for this radical change be? The possi- bility that medicine may master mental illness just like other organic ail- ments? Precise pharmacological control of all mental symptoms? Or a more or less rigorous definition of behavioral deviations for each of which society might be at leisure to anticipate the most convenient method of neutralization? Or still other modes of intervention, perhaps none of which will in fact suppress mental illness but which will all have the pur- pose of eliminating the very face of madness from our culture? I know well that by proposing this latter hypothesis I am contesting something that is ordinarily accepted: that the advances of medicine could indeed succeed in eradicating mental illness just as they have done away with leprosy and tuberculosis but that the one thing to remain is the relationship of humankind to its ghosts, to its impossible, to its bodi- less pain, to its carcass of the night; that once pathology is removed from circulation, the dark link of the human to madness will become the age- less memory of an evil that has been effaced as a form of illness but per- sists as misfortune. To tell the truth, this idea assumes as inalterable what is undoubtedly most precarious, even more precarious than the constants of pathology: the relationship of a culture to the very thing it excludes or, more precisely, the relationship of our culture to this truth about itself, far away and inverted, which it discovers over and over in madness. That which will not take long to die, that which is already dying in us (and whose very death bears our current language) is homo dialecticus- the being of departure, of return, and of time; the animal that loses its truth only in order to find it again, illuminated; the self-estranged who once again recovers the unity of the self-same. This figure has been the master subject and the object slave of all the discourses concerning the human, in particular human alienation, which have persisted for quite some time. And fortunately it is dying beneath the babble of these dis- courses. So that it will no longer be known how humanity had been able to place this figure of itself at a distance; how it could have let pass from the other side of the limit even that which belonged to it and which it resem- bled? No thought will be able to contemplate this movement from which until all too recently the West took its liberties. It is this relationship to madness (and not some knowledge about mental illness or some position taken on human alienation) that will be lost forever. The only thing that will be known is that we others, five-century-old Westerners, had been those people upon the face of the earth who, among many other funda- mental traits, had borne the strangest trait of them all: we maintained a profound, passionate relationship to mental illness, perhaps difficult to formulate for ourselves but impenetrable to anyone else, in which we confronted dangers most vivid to us as well as what was perhaps the truth closest to us. It will not be said that we were at a distance from madness but within distance of it. The Greeks, similarly, were not distanced from uppt [hubris] because they condemned it; they were rather within reach of this excess located at the heart of the distance where they kept it. Those who will no longer be what we are will face the task of con- templating this enigma (somewhat as we do today when we try to grasp how Athena could have fallen in love with and detached herself from the irrationality of Alcibiades). How could humans search for their truth, their essential speech, and their signs in the face of a peril that made them tremble and from which they were compelled to avert their eyes once they had caught sight of it? And this will appear even more strange to them than asking death the truth of humanity, for death says what will happen to everyone. Madness, in turn, is the rarer danger, a chance that weighs little compared to the obsessions it has engendered and the ques- tions it has been asked. How could it be, in a culture, that such a slight contingency held such great power of revelation and terror? Those who will be looking at us over their shoulder will certainly not have many clues at their disposal to answer this question. Only a few charred signs: the endlessly examined, centuries-old fear of seeing the level of madness rise and submerge the world; the rituals of excluding and including the mad; and, since the nineteenth century, the alert ear bent on overhearing something in madness that could tell the truth about the human; the same impatience with which the utterances of madness are rejected and collected, the hesitation in recognizing their emptiness or their meaningfulness. And all the rest-this unique movement by which we come to meet madness while distancing ourselves from it; this terrifying recognition; this desire to establish the limit yet at once to compensate for it through the framework of a unitary meaning-all this will be reduced to silence, just as the Greek trilogy gcavia, Uippto, akoyfa [mania, hubris, alogia] or the posture of shamanic deviation in some primitive societies are mute to us today. We are now at that point in time, in that fold of time, where a certain technical control of illness conceals rather than points to the movement that closes the experience of madness upon itself. But it is precisely this fold, too, that allows us to disentangle two different configurations that remained bound up with one another for centuries. Mental illness and madness, merged with and mistaken for each other from the seventeenth century on, are now becoming separated under our very eyes or, rather, in our language. To say that madness is disappearing today means that its implication both in psychiatric knowledge and thought of an anthropological kind is coming undone. But this is not to say that the general form of transgres- sion, whose visible face madness has been for centuries, is also disap- pearing. Nor does it mean that this transgression is not giving rise to a new experience even as we are asking ourselves what madness is. There is not a single culture in the world where everything is permit- ted. And we have known for a long time that humanity does not start out from freedom but from limitation and the line not to be crossed. We know the systems of rules with which forbidden acts are to comply; we have been able to discern the rules of the incest taboo in every culture. But we still do not know much about the organization of the prohibitions in language. It seems that these two systems of restriction do not overlap as if one were nothing but the verbal version of the other; what is not allowed to appear at the level of the word is not necessarily what is forbid- den in the realm of deed. The Zuni narrate incest between brother and sister, which they outlaw, and the Greeks tell the legend of Oedipus. On the other hand, the Code of 1808 abolished extant criminal laws against sodomy, but the language of the nineteenth century was much more in- tolerant of homosexuality, at least of its male manifestation, than had been that of preceding eras. And it is likely that the psychological con- cepts of compensation and symbolic expression cannot in the least ex- plain such phenomena. The domain of the prohibitions in language should in itself be studied some day. It is today undoubtedly too early to know just how to carry out such an analysis. Should we employ the categories that are presently admitted into language? Should we first identify, regarding the limits of the forbidden and the impossible, the laws that are relevant to the linguis- tic code (what we so clearly refer to as linguistic errors); and then, within this code and among extant words or expressions, locate those that are affected by the rule forbidding the utterance of certain words or expres- sions (the entire religious, sexual, magical series of blasphemous words); and then, among those words and expressions that may be uttered, identify which ones are permitted by the code, permitted in the act of speech, but whose meaning is not tolerated by the culture in question at a given time. At this point, the metaphoric detour would no longer be possible, since it is the meaning itself that is the object of censorship. Finally, there is a fourth form of language that is excluded; it consists of subjecting an ut- terance, which appears to conform to the accepted code, to another code whose key is contained within that same utterance so that this utterance becomes divided within itself. It says what it says, but it adds a silent sur- plus that quietly enunciates what it says and according to which code it says what it says. This is not the case of an encoded language but of one that is structurally esoteric. That is to say, it does not communicate a for- bidden meaning by concealing its meaning; it positions itself from the start in an essential fold of the utterance. A fold that hollows it out from within and perhaps to infinity. Therefore it matters little what is said in such a language and what meaning is being delivered there. It is this obscure and central liberation at the very heart of the utterance, its un- controllable flight toward a source that is always without light, that no culture can readily accept. Such utterance is transgressive not in its mean- ing, not in its verbal property, but in its play. It is quite likely that any culture, whatever it may be, knows, prac- tices, and tolerates (to a certain extent) but equally represses and ex- cludes these four types of forbidden language. In Western history, the experience of madness has been displaced along this vector. In fact, it has long occupied an indeterminate area, difficult for us to specify, between the prohibition directed at action and that directed at language. Hence the exemplary importance of the pair furor-inanitas, which had practically organized the world of madness along the registers of deed and word up to the end of the Renaissance. The period of confinement (the general hospitals, Charenton, Saint-Lazare, established in the seventeenth century) marks a displacement of madness toward the realm of the insane; with forbidden acts, madness now main- tains hardly more than a moral kinship (primarily, it stays attached to sexual prohibitions), but it is included in the universe of the prohibitions of language. Classical confinement envelopes, along with madness, the libertinism of thought and of speech, the obstinacy within impiety or het- erodoxy, blasphemy, sorcery, alchemy-in short, everything that characterizes the spoken and forbidden world of unreason; madness is language that is excluded-those who, against the code of language, pronounce words without meaning (the "insane," the "imbeciles," the "demented"), or those who utter sanctified words (the "violent ones," the "furious"), or yet still, those who bring forth forbidden meanings (the "libertines," the "headstrong"). Pinel's reform is a conspicuous completion rather than a modification of this repression of madness as forbidden language. The latter does not actually occur until Freud, when the experience of madness becomes displaced toward the last type of language prohibi- tion of which we spoke earlier. Madness, then, ceases to be a linguistic error, a spoken blasphemy, or an intolerable meaning (and in that sense psychoanalysis actually constitutes the great catalogue of prohibitions as defined by Freud himself). Madness appears as an utterance wrapped up in itself, articulating something else beneath what it says, of which it is at the same time the only possible code-an esoteric language, if you will, since it confines its linguistic code within an utterance that ultimately does not articulate anything other than this implication. Therefore Freud's work ought to be taken for what it is; it does not discover that madness is apprehended in a web of significations it shares with everyday language, thereby granting the license to speak of it in the common platitudes of a psychological vocabulary. It dislodges the Euro- pean experience of madness in order to situate it in this perilous region, still transgressive (therefore still forbidden but in a rather peculiar fash- ion), which is the region of languages that implicate themselves; that is to say, they enunciate in their utterances the linguistic code in which they enunciate those utterances. Freud did not discover the lost identity of a meaning; he carved out the disruptive image of a signifier that is absolutely not like the others. This should have sufficed to shield his work from all psychologizing interpretations wherein our half of the century has buried it in the (derisive) name of the "human sciences" and their asexual union. And, for the same reason, madness has appeared not like the ruse of a hidden signification but like a prodigious reserve of meaning. We still have to grasp how fitting this word reserve is. Much more than a mere supply, it is a figure that retains and suspends meaning, laying out an emptiness where nothing is proposed but the yet-incomplete possibility that some meaning or another may come to lodge there, or still a third, and this may perhaps continue to infinity. Madness opens up a lacunar reserve that designates and exposes that chasm where linguistic code and utterance become entangled, shaping each other and speaking of noth- ing but their still silent rapport. Since Freud, Western madness has be- come a nonlanguage as it turned into a double language (a linguistic code that does not exist except in this utterance, an utterance that does not say anything other than its linguistic code)-that is to say, a matrix of a language that, in a strict sense, does not say anything. A fold of the spo- ken that is an absence of work. One day we ought to do the justice to Freud of acknowledging that he did not make a madness speak that had been for centuries precisely a language (excluded language, babbling inanity, speech circulating inde- terminately outside of the pondered silence of reason); to the contrary, he exhausted its meaningless logos; he dried it out; he returned its words to their source-to that blank region of self-implication where nothing is said. What is occurring today still appears to us in an uncertain light, yet we are able to take note of a strange movement in our language. Litera- ture itself (undoubtedly since Mallarm6) is in the midst of becoming in its turn, step by step, a language of which the utterance enunciates-at the same time and in the same movement that it says whatever it says-the linguistic code that renders it intelligible as utterance. Before Mallarm6, writing consisted of establishing one's utterance within a given linguistic code, as if the work of that language were of the same nature as that of the rest of language, close to the familiar signs (and they were certainly majestic) of rhetoric, of the subject, or of images. By the end of the nine- teenth century (around the time of the discovery of psychoanalysis, when there was certainly no dearth of discoveries), literature had become utter- ance that inscribed in itself its own principle of decipherment. Or, in any case, it implied, in every sentence and in every word, the power to modify in sovereign fashion the values and significations of the linguistic code to which in spite of everything (and in fact) it belonged; it suspended the reign of that code in one actual gesture of writing. Hence the necessity of secondary languages (what is called, in brief, criticism). Today, they no longer function as external supplements to lit- erature (judgments, mediations, stepping-stones that were deemed use- ful links between a work indexed to the psychological enigma of its creation and the act of its consumption in reading). At the heart of litera- ture, they now partake of the void that literature installs within its own language; they constitute the necessary movement-albeit one that by necessity will remain incomplete-by which the utterance is returned to its linguistic code, and by which the code is founded upon the utterance. Hence, too, that strange proximity between madness and literature, which ought not be taken in the sense of a relation of common psycholog- ical parentage now finally exposed. Once uncovered as a language si- lenced by its superposition upon itself, madness neither manifests nor narrates the birth of a work (or of something which, by genius or by chance, could have become a work); it outlines an empty form from where this work comes, in other words, the place from where it never ceases to be absent, where it will never be found because it had never been located there to begin with. There, in that pale region, in that essen- tial hiding place, the twinlike incompatibility of the work and of madness  becomes unveiled; this is the blind spot of the possibility of each to be- come the other and of their mutual exclusion. But since Raymond Roussel, since Artaud, it is also the place from where the language of literature comes. But it does not come from there as if from something that might have borne the task of enunciating. It is time to recognize that the language of literature is not defined by what it says, nor by the structures that render it significant. Rather, it has a being, and it is about this being that it ought to be questioned. What, in fact, is this being? Undoubtedly something connected to self-implication, to the double and the void that expands within it. In this sense, the being of literature, as it has been produced from Mallarm6 to today, obtains the region where, since Freud, the experience of madness figures. In the eyes of some unknown future culture-one possibly already quite near-we shall be those that have come closest to those two senten- ces never really pronounced, those two sentences equally contradictory and impossible as the famous "I am lying" and both pointing to the same empty self-reference: "I am writing" and "I am delirious." We shall thus figure next to countless other cultures that placed the "I am mad" near an "I am an animal," or "I am a god," or "I am a sign," or yet near an "I am a truth" as was the case in the entire nineteenth century up to Freud. And if that culture should have a feeling for history, it will in effect re- member that Nietzsche, becoming mad, had proclaimed (in 1887) that he was the truth (why I am so wise, why I have known of it so long, why I write such great books, why I am fate); and that less than fifty years later, on the eve of his suicide, Roussel would write in Comment j'ai &crit certains de mes livres, the systematically divided account of his madness and his procedures of writing. And they will be astonished, no doubt, that we were capable of identifying such a strange kinship between what, for a long time, was dreaded like a scream and what, for a long time, was con- sidered a song. But it is quite possible that precisely this transformation will not seem to merit any astonishment. It is we today who are astonished to see two languages communicate with each other (that of madness and that of lit- erature) whose incompatibility has been established by our history. Since the seventeenth century, madness and mental illness have occupied the same space in the realm of forbidden languages (in general, the realm of the insane). Entering another domain of excluded language (a language that is circumscribed, consecrated, dreaded, erected, and elevated far above itself, whose reference is but a self-reference within that useless and transgressive fold we call literature), madness dissolves its kinship, an- cient or recent according to the chosen scale, to mental illness. The latter will no doubt enter into a technical space of ever increas- ing control. In the hospitals, pharmacology has already transformed the wards of the agitated into vast, tepid aquariums. But underneath these transformations and for reasons that will seem strange to them (at least according to our current views), a denouement is already in process: mad- ness and mental illness are undoing their affiliation to the same anthro- pological unit. This unity itself is disappearing along with the human as a transitory postulate. Madness, the lyrical halo of illness, continues to extinguish itself. And at a distance from pathology, from the vicinity where language folds in upon itself still saying nothing, an experience is about to be born where our thought is headed. This imminence, already visible but absolutely empty, remains to be named.

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