sabato 16 aprile 2011

da "Storia della follia nell'età classica'' di M. Foucault [1961]: 'Il cerchio antropologico'/ 'Conclusion' (English)


6. 
IL CERCHIO ANTROPOLOGICO.
Non si tratta di concludere. L’opera di Pinel e di Tuke non è un punto d’arrivo. In essa si manifesta solo un aspetto nuovo e improvviso, una nuova struttura la cui origine si nascondeva in uno squilibrio dell’esperienza classica della follia.
La libertà del folle, quella che Pinel e Tuke pensavano di avergli dato, apparteneva da molto tempo al dominio della sua esistenza. Essa non era data, certamente, n’ offerta in nessun gesto positivo.  Ma circolava sordamente intorno alle pratiche e ai concetti, verità intravista, esigenza indecisa, ai confini di ciò che era detto, pensato e fatto a proposito del folle, presenza testarda che non si lasciava mai del tutto afferrare. E tuttavia non è essa forse solidamente implicata nella nozione stessa di follia, se si volesse spingerla al limiteì Non era forse legata necessariamente a quella grande struttura che andava dagli abusi di una passione sempre complice di se stessa all’esatta logica del delirioì In questa affermazione che, trasformando l’immagine del sogno nel non-essere dell’errore, faceva la follia, come rifiutare il fatto che ci sia qualcosa che appartiene alla libertà. La follia in fondo era possibile soltanto nella misura in cui intorno a essa c’era questo spazio che consentiva al soggetto di parlare il linguaggio della propria follia e di costituirsi come folle. Questa fondamentale libertà del folle era chiamata da Sauvages, nell’ingenuità di una tautologia meravigliosamente feconda, quel tanto di cura che noi abbiamo di ricercare la verità e di coltivare il nostro giudizio (1).I medici stessi hanno fatto esperienza di questa libertà quando, comunicando per la prima volta con gli insensati nel mondo misto delle immagini corporee e dei miti organici, hanno scoperto la sorda presenza della colpa, impegnata in tanti meccanismi: passione, sregolatezza, ozio, vita compiacente delle città, letture avide, complicità dell’immaginazione, sensibilità troppo curiosa di eccitazioni e troppo inquieta di se stessa: tutti giochi pericolosi della libertà in cui la ragione si arrischia nella follia.
E’ una libertà in pari tempo ostinata e precaria. Rimane sempre sull’orizzonte della follia, ma sparisce non appena si tenti di delimitarla. E’ presente e possibile solo nella forma di un’abolizione imminente. Intravista nelle regioni estreme in cui la follia potrebbe parlare da sola, essa in seguito, a partire dal momento in cui lo sguardo si fissa su di lei, si manifesta soltanto impegnata, coartata e domata. La libertà del folle esiste solamente in questo istante, in questa impercettibile distanza che lo rende libero di abbandonare la propria libertà e d’incatenarsi alla propria follia; esiste solamente in quel momento virtuale della scelta nel quale noi ci risolviamo a porci nell’incapacità di usare della nostra libertà e di correggere i nostri errori (2). In seguito essa non è che meccanismo del corpo, incatenamento dei fantasmi, necessità del delirio. San Vincenzo de’ Paoli, che supponeva oscuramente questa libertà nel gesto stesso dell’internamento, non mancava tuttavia di sottolineare la differenza tra i libertini responsabili, obbrobrio e rovina della loro casa, e i folli,  grandemente degni di compassione ... che non sono padroni della propria volontà, non avendo nè giudizio nè libertà (3). La libertà a partire dalla quale la follia classica è possibile si soffoca in questa stessa follia e cade nella più crudele contraddizione.
Questo è il paradosso della libertà costitutiva: ciò che rende folle il folle, vale a dire ciò che può metterlo in comunicazione con la non-follia quando la follia non è ancora data. Fin dall’origine egli sfugge a se stesso e alla sua verità di folle, raggiungendo il rischio della colpa, del delitto o della commedia in una regione che non è nè verità nè innocenza. Questa libertà, che lo ha fatto rinunciare alla “verità” nel momento - molto originario, molto oscuro, e assai difficilmente determinabile - della partenza e della separazione, impedisce ch’egli sia prigioniero della propria libertà. Egli è folle nella misura in cui la sua follia non si esaurisce nella sua verità di folle. Per questo, nell’esperienza classica, la sua follia può essere nello stesso tempo “un po’” criminale, “un po’” simulata, “un po’” immorale e, anche, “un po’” ragionevole. Non si tratta di una confusione nel pensiero o di un grado minore di elaborazione; non è che l’effetto logico di una struttura assai coerente: la follia è possibile solo a partire da un momento lontanissimo ma necessario in cui si strappa a se stessa nello spazio libero della sua non-verità costituendosi con ciò stesso come verità.  Proprio a questo punto l’operazione di Pinel e di Tuke s’inserisce nell’esperienza classica. Questa libertà, orizzonte costante dei concetti e delle pratiche, esigenza che si nascondeva e si aboliva col suo stesso movimento, la libertà ambigua dell’esistenza del folle, è ora reclamata nei fatti come quadro della sua vita reale e come elemento necessario all’apparizione della sua verità di folle. Si tenta di catturarla in una struttura oggettiva. Ma nel momento in cui si crede di afferrarla, di affermarla e di farla valere, si raccoglie solo l’ironia delle contraddizioni:
a) si lascia al folle la libertà, ma in uno spazio più chiuso, più rigido, meno libero di quello, sempre un po’ indeciso, dell’internamento;
b) lo si libera dalla sua parentela col delitto e col male, ma per rinchiuderlo nei meccanismi rigorosi di un determinismo: egli è completamente innocente soltanto nell’assoluto di una non-libertà;
c) si sciolgono le catene che impedivano l’uso della sua libera volontà, ma per spogliarlo di questa stessa volontà, trasferita e alienata nel volere del medico.
Il folle è ormai completamente libero e completamente escluso dalla libertà. Un tempo era libero nel momento breve in cui cominciava a perdere la propria libertà; ora è libero nel largo spazio dove già l’ha perduta.
Alla fine del diciottesimo secolo non si assiste a una “liberazione” dei folli, ma a una “oggettivazione del concetto della loro libertà”. Oggettivazione che ha una triplice conseguenza.  Anzitutto, ora sarà posta in discussione proprio la libertà, a proposito della follia. Non una libertà sull’orizzonte del possibile, ma una libertà che si cercherà di catturare nelle cose e nei loro meccanismi. Nella riflessione sulla follia, e perfino nella sua analisi medica, sarà posta in discussione la libertà nelle proprie determinazioni reali: il desiderio e la volontà, il determinismo e la responsabilità, l’automatico e lo spontaneo. Da Esquirol a Janet, come da Reil a Freud o da Tuke a Jackson, la follia del diciannovesimo secolo racconterà infaticabilmente le peripezie della libertà.  La notte del folle moderno non è più là notte onirica dove sale e fiammeggia la falsa verità delle immagini; è quella che porta seco gli impossibili desideri e la barbarie di una volontà che è la meno libera nella natura. Essendo oggettiva, questa libertà si trova, sul piano dei fatti e delle osservazioni, esattamente ripartita tra un determinismo che la nega interamente e una colpevolezza che l’esalta.  L’ambiguità del pensiero classico sui rapporti tra colpa e follia si dissocerà; e il pensiero psichiatrico del diciannovesimo secolo cercherà la totalità del determinismo e tenterà di definire il punto di inserimento di una colpevolezza; le discussioni sulle follie criminali, i prestigi della paralisi generale, il grande tema delle degenerazioni, la critica dei fenomeni isterici, tutto ciò che anima la ricerca medica da Esquirol a Freud, appartiene a questo duplice sforzo. Il folle del diciannovesimo secolo sarà “determinato” e “colpevole”; la sua non-libertà è più intrisa di colpa della libertà con cui il folle classico sfuggiva a se stesso.
Una volta liberato, il folle non può più sottrarsi alla propria verità; egli è gettato in essa ed essa lo confisca interamente. La libertà classica situava il folle in rapporto alla sua follia, rapporto ambiguo, instabile, sempre compromesso, ma che impediva al folle stesso di identificarsi totalmente con la propria follia. La libertà imposta al folle da Pinel e da Tuke lo rinchiude in una certa verità della follia alla quale non può sfuggire che passivamente, se è liberato della propria follia. A partire da questo istante la follia non indica più un certo rapporto dell’uomo con “la” verità - rapporto che, almeno silenziosamente, implica sempre la sua libertà -: essa indica solo un rapporto dell’uomo con “la sua” verità. Nella follia l’uomo cade nella propria verità; il che è un modo di viverla interamente, ma anche di perderla. La follia non parlerà più del non-essere, ma dell’essere dell’uomo, nel contenuto di ciò che egli è, e nell’oblio di questo contenuto. E mentre un tempo era Straniero nei rapporti con l’Essere - uomo del nulla, dell’illusione, “Fatuus” (vuoto del non-essere e manifestazione paradossale di questo vuoto) -, eccolo ora trattenuto nella propria verità e al tempo stesso allontanato da essa. Straniero per se stesso, “alienato”.  La follia parla ora un linguaggio antropologico, cercando insieme, e in un equivoco che le dà i suoi poteri di inquietudine per il mondo moderno, la verità dell’uomo e la perdita di questa verità, e quindi “la verità di questa verità”.
Duro, linguaggio: ricco nelle sue promesse e ironico nella sua realizzazione. Linguaggio della follia ritrovato per la prima volta a partire dalla “Renaissance”.
Ascoltiamone le prime parole.
La follia classica apparteneva alle regioni del silenzio. Da lungo tempo taceva quel linguaggio che cantava il suo elogio. Sono certamente numerosi i testi del diciassettesimo e del diciottesimo secolo in cui si tratta della follia: ma essa vi è citata come esempio, come specie medica o in quanto illustra la sorda verità dell’errore; la si considera di scorcio, nella sua dimensione negativa, perchè essa è una prova “a contrario” di ciò che è la ragione, nella sua natura positiva. Il suo significato può apparire soltanto al medico e al filosofo, cioè a coloro che sono capaci di conoscerne la profonda natura, di dominarla nel suo non-essere e di sorpassarla verso la verità. In se stessa, essa è cosa muta; nell’età classica non esiste letteratura della follia, nel senso che per la follia non esiste linguaggio autonomo. Si riconosceva il linguaggio segreto del delirio; si tenevano su di essa dei discorsi veri. Essa però non aveva il potere di operare da sola, per un diritto originario e per sua propria virtù, la sintesi del suo linguaggio e della verità. La sua verità non poteva che essere racchiusa in un discorso che le restasse esteriore. Ma, insomma, sono dei pazzi... Descartes, nel movimento con cui va alla verità, rende impossibile il lirismo della sragione.  Ora, il “Neveu de Rameau” e dopo di lui tutta una moda letteraria indicavano la riapparizione della follia nel dominio del linguaggio, un linguaggio in cui le era concesso di parlare in prima persona e di enunciare, fra tanti vani discorsi e nella grammatica insensata dei suoi paradossi, qualcosa che aveva un rapporto essenziale con la verità. Questo rapporto comincia ora a chiarirsi e a svilupparsi discorsivamente. Ciò che la follia dice di se stessa è, per il pensiero e la poesia dell’inizio dell’Ottocento, ciò che dice ugualmente il sogno nel disordine delle proprie immagini: una verità dell’uomo, molto arcaica e molto recente, molto silenziosa e molto minacciosa: una verità al disotto di ogni verità, più vicina al sorgere della soggettività e la più estesa sul piano delle cose; una verità che è il profondo ritiro dell’individualità dell’uomo e la forma incoativa del cosmo: Quello che sogna, è lo Spirito che discende nella Materia, e la Materia che si eleva fino allo Spirito ... Il sogno è la rivelazione dell’essenza stessa dell’uomo, il processo intimo, e il più individuale, della vita (4).  Così, nel discorso comune al delirio e al sogno, si trovano congiunte la possibilità di un lirismo del desiderio e quella di una poesia del mondo; poich’ follia e sogno sono a un tempo il momento dell’estrema soggettività e quello dell’ironica oggettività, non esiste contraddizione: la poesia del cuore, nella solitudine finale, esasperata, del suo lirismo, si trova a essere, con un immediato rivolgimento, il canto originario delle cose; e il mondo, a lungo silenzioso davanti al tumulto del cuore, vi ritrova la propria voce: Io interrogo le stelle ed esse tacciono; interrogo il giorno e la notte, ma non rispondono. Dal fondo di me stesso, quando mi interrogo, vengono ... sogni inspiegabili (5).  Caratteristica del linguaggio della follia nella poesia romantica è di essere il linguaggio della fine estrema, e quello dell’assoluto ricominciamento: fine dell’uomo che sprofonda nella notte, e scoperta, in fondo a questa notte, di una luce che è quella delle cose al loro primo inizio; è un sotterraneo deserto che s’illumina a poco a poco e dove si staccano dall’ombra e dalla notte le pallide figure che abitano i limbi. Poi il quadro prende forma, una luce nuova illumina (6).... La follia parla il linguaggio del grande ritorno; non il ritorno epico delle lunghe odissee, nel percorso infinito delle mille vie del reale; ma il ritorno lirico con una folgorazione istantanea che, maturando d’un colpo la tempesta del compimento, la illumina e la calma nell’origine ritrovata. Questo è il potere della follia: enunciare tale insensato segreto dell’uomo, secondo cui il punto estremo della sua caduta è il suo primo mattino, la sua sera termina sulla più giovane luce, e in lui la fine è ricominciamento.
Al di là del lungo silenzio classico, la follia ritrova dunque il suo linguaggio. Ma un linguaggio che porta tutt’altri significati; esso ha dimenticato i vecchi discorsi della “Renaissance”, dove si parlava della lacerazione del mondo, della fine dei tempi, dell’uomo divorato dall’animalità. Questo linguaggio della follia rinasce, ma come scoppio lirico: scoperta che nell’uomo l’interno è anche l’esterno, che l’estremo della soggettività s’identifica col fascino immediato dell’oggetto, che ogni fine è destinata all’ostinazione del ritorno. Linguaggio nel quale non traspaiono più le figure invisibili del mondo, ma le verità segrete dell’uomo (7).
Ciò che è detto dal lirismo è insegnato dall’ostinazione del pensiero discorsivo; e ciò che si sa del folle (indipendentemente da tutte le acquisizioni possibili nel contenuto oggettivo delle conoscenze scientifiche) assume un significato tutto nuovo. Lo sguardo che si dirige sul folle - e che è l’esperienza concreta a partire dalla quale si elaborerà l’esperienza medica o filosofica - non può più essere lo stesso. All’epoca delle visite a Bicˆtre o a Bedlam, guardando il folle si misurava dall’esterno tutta la distanza che separa la verità dell’uomo dalla sua animalità. Ora lo si guarda con maggiore neutralità e con maggior passione. Con maggiore neutralità, perch’ si scopriranno in lui le verità profonde dell’uomo, le forme assopite in cui nasce ciò che egli è. E anche con maggior passione, perch’ non si potrà riconoscerlo senza riconoscersi, senza sentire in s’ le stesse voci e le stesse forze, le stesse strane luci. Questo sguardo, che può consentirsi lo spettacolo di una verità finalmente nuda dell’uomo, non può più evitare ora di contemplare un’impudicizia che è la sua stessa. Esso non vede senza vedersi. E il folle, così, raddoppia il suo potere di attrazione e di fascino; egli porta più verità delle sue proprie. Io credo, dice Cipriano, l’eroe di Hoffmann, io credo che proprio coi fenomeni anormali la Natura ci consente di gettare uno sguardo nei suoi più temibili abissi; e in realtà nel cuore stesso dello spavento che spesso mi ha preso in questi strani rapporti coi folli, sorsero molte volte al mio spirito delle intuizioni e delle immagini, che gli dettero una vita, un vigore e uno slancio singolari (8). Con un semplice movimento, il folle si dà come oggetto di conoscenza offerto nelle sue determinazioni più esteriori, e come tema di riconoscimento, investendo in compenso colui che lo comprende di tutte le familiarità insidiose della loro comune verità.
Ma la riflessione, diversamente dall’esperienza lirica, non vuole affatto accogliere questo riconoscimento. Essa se ne protegge, affermando con insistenza crescente che il folle è soltanto una cosa, e una cosa medica. E il contenuto immediato di questo riconoscimento, ripartito così alla superficie dell’oggettività, si disperde in una moltitudine di antinomie. Ma non inganniamoci; sotto la loro serietà speculativa si tratta proprio del rapporto dell’uomo col folle, e dello strano volto che assume ora le qualità dello specchio.
1. Il folle rivela la verità elementare dell’uomo: essa lo riduce ai suoi desideri primitivi, ai suoi meccanismi più semplici, alle determinazioni più impellenti del suo corpo. La follia è una specie d’infanzia cronologica e sociale, psicologica e organica, dell’uomo. Quante analogie tra l’arte di dirigere gli alienati e quella di educare i giovani!, notava Pinel (9).
a) Ma il folle rivela la verità terminale dell’uomo: egli mostra fino a dove possono spingerlo le passioni, la vita di società, tutto ciò che lo allontana da una natura primitiva che non conosce la follia. Quest’ultima è sempre legata a una civiltà e al suo malessere. Secondo le testimonianze dei viaggiatori, i selvaggi non sono soggetti ai disordini delle funzioni intellettuali (10). La follia comincia con la vecchiaia del mondo; e ogni volto assunto dalla follia nel corso del tempo rivela la forma e la verità di questa corruzione.
2. La follia pratica nell’uomo una specie di taglio intemporale; essa non seziona il tempo, ma lo spazio; non risale nè discende lungo il corso della libertà umana; essa ne mostra l’interruzione; lo sprofondarsi nel determinismo del corpo. In essa trionfa l’organico, la sola verità dell’uomo che possa essere oggettivata e percepita scientificamente. La follia è il turbamento delle funzioni cerebrali ... Le parti cerebrali sono la sede della follia, come i polmoni lo sono della dispnea e lo stomaco della dispepsia (11).
b) Ma la follia si distingue dalle malattie del corpo inquantochè manifesta una verità che in quelle non appare; essa fa sorgere un mondo interiore di cattivi istinti, di perversità, di sofferenze e di violenza, fino allora rimasto in dormiveglia. Essa lascia scorgere una profondità che dà alla libertà dell’uomo tutto il suo significato; tale profondità rivelantesi nella follia è la cattiveria allo stato selvaggio. Il male esiste in sè nel cuore, che, come immediato, è naturale ed egoista. E’ il cattivo genio dell’uomo che domina nella follia (12). E Heinroth diceva nello stesso senso che la follia è “das Böse überhaupt”.
3. L’innocenza del folle è garantita dall’intensità e dalla potenza di questo contenuto psicologico.
Incatenato dalla forza delle passioni, trascinato dalla vivacità dei desideri e delle immagini, il folle diventa irresponsabile; e la sua irresponsabilità appartiene al giudizio medico, nella misura in cui risulta da un determinismo oggettivo. La follia di un atto si misura dal numero di ragioni che l’hanno determinata.
c) Ma la follia di un atto si giudica proprio dal fatto che nessuna ragione può mai esaurirla. La verità della follia consiste in un automatismo senza concatenazione; e più un atto sarà privo di ragione, più risiederà nel determinismo della sola follia, essendo la verità della follia nell’uomo la verità di ciò che è senza ragione, di ciò che avviene, come diceva Pinel, irriflessivamente, senza interesse e senza motivo.
4. Poichè nella follia l’uomo scopre la sua verità, la guarigione è possibile a partire dalla sua verità e dal fondo stesso della sua follia. Nella non-ragione della follia esiste la ragione del ritorno, e se nell’oggettività infelice, in cui si perde il folle, resta ancora un segreto, è quello che rende possibile la guarigione. Proprio come la malattia non è la perdita completa della salute, così la follia non è perdita assoluta della ragione, ma contraddizione nella ragione che esiste ancora, e quindi la cura umana, cioŠ benevola e ragionevole, della follia ... presuppone il malato ragionevole e trova un punto solido per prenderlo da questo lato (13).
d) Ma la verità umana scoperta dalla follia è l’immediata contraddizione della verità morale e sociale dell’uomo. Il momento iniziale di ogni cura sarà dunque la repressione di questa inammissibile verità, l’abolizione del male che vi regna, l’oblio di queste violenze e di questi desideri. La guarigione del folle è nella ragione dell’altro, la sua ragione non essendo che la verità della follia: Che la vostra ragione sia la loro regola di condotta. Una sola corda vibra ancora in essi, quella del dolore; abbiate abbastanza coraggio da toccarla (14). L’uomo si dirà dunque la verità della sua verità soltanto nella guarigione che lo condurrà dalla sua verità alienata alla verità dell’uomo; L’alienato più violento e più temibile è diventato, con mezzi dolci e persuasivi, l’uomo più docile e più degno di interesse a causa di una sensibilità commovente (15).  Instancabilmente riprese, queste antinomie accompagneranno, lungo il diciannovesimo secolo, la riflessione sulla follia. Nell’immediata totalità dell’esperienza poetica, e nel riconoscimento lirico della follia, esse erano già presenti sotto la forma indivisa di un dualismo riconciliato con se stesso; esse erano ancora designate, ma nella breve felicità di un linguaggio non ancora diviso, come il nodo del mondo e del desiderio, del senso e del non-senso, della notte della conclusione e della primitiva aurora. Per la riflessione, invece, queste antinomie esisteranno solo nell’estrema dissociazione; esse prenderanno allora misure e distanze e saranno sentite nella lentezza del linguaggio delle contraddizioni. Quello che era l’equivoco di un’”esperienza fondamentale” e “costitutiva” della follia si perderà presto nel reticolato dei “conflitti teorici” sull’”interpretazione” da dare dei fenomeni della follia.
Conflitto tra una concezione storica, sociologica, relativistica della follia (Esquirol, Michea) e un’analisi di tipo strutturale della malattia mentale come istituzione, degenerazione e scivolamento progressivo verso il punto zero della natura umana (Morel); conflitto tra una teoria spiritualista che definisce la follia come un’alterazione del rapporto dello spirito con se stesso (Langerman, Heinroth) e uno sforzo materialista per situare la follia in uno spazio organico differenziato (Spurzheim, Broussais); conflitto tra l’esigenza di un giudizio medico che giudichi l’irresponsabilità del folle secondo i meccanismi che hanno funzionato in lui, e l’apprezzamento immediato del carattere insensato della sua condotta (polemica tra ìlias R’gnault e Marc); conflitto tra una concezione umanitaria della terapeutica, come in Esquirol, e l’uso delle famose cure morali che fanno dell’internamento lo strumento più importante della sottomissione e della repressione (Guislain e Leuret).
Rimandiamo a un altro studio l’esplorazione dettagliata di queste antinomie; esso si potrebbe fare soltanto nell’inventario meticoloso di ciò che è stata l’esperienza della follia nell’insieme delle sue forme scientificamente esplicate e dei suoi aspetti silenziosi. Indubbiamente una simile analisi mostrerebbe senza difficoltà che questo sistema di contraddizioni si riferisce a una coerenza nascosta; che questa coerenza è quella di un pensiero antropologico che si conserva sotto la diversità delle formulazioni scientifiche; che essa è il fondo costitutivo, ma storicamente mobile, che ha reso possibile lo sviluppo dei concetti da Esquirol e Broussais fino a Janet, Bleuler e Freud; e che questa struttura antropologica a tre termini - l’uomo, la sua follia e la sua verità - si è sostituita alla struttura binaria della sragione classica (verità ed errore, mondo e fantasma, essere e nonessere, Giorno e Notte).
Ma altri, tuttavia, perdendo la loro strada, desiderano perderla per sempre. Questa fine della sragione è allora trasfigurazione. Il Goya che dipingeva il “Cortile dei Folli” sentiva senza dubbio, davanti a quel brulichio di carne nel vuoto, a quelle nudità lungo le mura nude, qualcosa che rassomigliava a un patetico contemporaneo: gli orpelli simbolici che ornavano il capo dei re insensati lasciavano scorgere dei corpi supplichevoli, offerti alle catene e alle fruste, che contraddicevano il delirio dei volti, non tanto per la miseria di quella nudità, quanto per la verità umana che scoppiava in tutta quella carne intatta. L’uomo dal tricorno non è folle per aver messo quel copricapo sulla più completa nudità; ma in questo folle dal cappello sorge, dalla virtù muta del suo corpo muscoloso, della sua giovinezza selvaggia e meravigliosamente agile, una presenza umana già affrancata e come libera, fin dall’inizio dei tempi, per un diritto di nascita. Il “Cortile dei Folli” non parla tanto delle follie e delle strane figure che si trovano nei Capricci, quanto della grande monotonia di questi corpi nuovi, illuminati nel loro vigore, e i cui gesti, se richiamano i loro sogni, cantano soprattutto la loro oscura libertà: il suo linguaggio è vicino al mondo di Pinel.  Il Goya della “Casa del Sordo” s’indirizza a un’altra follia. Non a quella dei folli gettati in prigione, ma a quella dell’uomo gettato nella sua notte. Non si ricollega forse, oltre la memoria, coi vecchi mondi degli incantamenti, delle cavalcate fantastiche, delle streghe appollaiate sui rami di alberi mortiì Il mostro che soffia i suoi segreti nell’orecchio del “Monaco” non è forse parente dello gnomo che affascinava il “Sant’Antonio” di Boschì In un certo senso Goya riscopre queste grandi immagini dimenticate della follia. Ma esse sono diverse per lui, e il loro prestigio, ricuperato da tutta la sua ultima opera, deriva da un’altra forza. In Bosch o in Brueghel, queste forme nascevano dal mondo stesso; attraverso le fessure di una strana poesia, esse salivano dalle pietre e dalle piante, 255 sorgevano da uno sbadiglio animale; tutta la complicità della natura concorreva a formare la loro ronda. Le forme di Goya nascono dal nulla: esse sono senza fondo, sia perch’ si distaccano sulla più monotona delle notti, sia perch’ nulla può definire la loro origine, il loro termine e la loro natura.  Quale albero sostiene il ramo su cui stridono le stregheì Volaì E verso quale sabba e quale raduraì In tutto ciò non c’è niente che parli di un mondo, n’ di questo n’ di un altro. Si tratta proprio di quel “Sonno della Ragione”, di cui Goya, già nel 1797, faceva la prima figura dell’idioma universale; si tratta di una notte che è quella, senza dubbio, della sragione classica, la triplice notte in cui si rinchiudeva Oreste. Ma in questa notte l’uomo comunica con ciò che vi è di più profondo in lui, e di più solitario. Il deserto del “Sant’Antonio” di Bosch era infinitamente popolato; e, anche se era uscito dalla sua immaginazione, il paesaggio attraversato da “Margot la Pazza” era solcato da tutto un linguaggio umano. Il “Monaco” di Goya, con quella bestia calda sulla schiena, le zampe sulle sue spalle, e quel muso che alita al suo orecchio, resta solo: nessun segreto viene rivelato. E’ presente soltanto la più interiore e nello stesso tempo la più selvaggiamente libera delle forze: quella che si scatena e acceca nella “Follia furiosa”. A partire da questo istante, i volti stessi si decompongono: non è più la follia dei “Capricci”, che creavano maschere più vere della verità dei volti; è una follia sotto la maschera, una follia che morde i volti, rode i tratti del viso; non ci sono più occhi n’ bocche, ma sguardi che vengono dal nulla e si fissano sul nulla (come nell’”Assemblea delle streghe”); o grida che escono da buchi neri (come nel “Pellegrinaggio di sant’Isidoro”). La follia è diventata la possibilità di abolire, nell’uomo, l’uomo e il mondo; e perfino queste immagini che rifiutano il mondo e deformano l’uomo. Ben al disotto del sogno, ben al disotto dell’incubo della bestialità, la follia è diventata l’ultimo scampo: la fine e l’inizio di tutto. Non perchè essa sia promessa, come nel lirismo tedesco, ma perché è l’equivoco del caos e dell’apocalisse: l’Idiota che grida e torce la spalla per sfuggire al nulla che lo imprigiona, è la nascita del primo uomo e il suo primo movimento verso la libertà, o l’ultimo soprassalto dell’ultimo morente.  Questa follia che unisce e separa il tempo, che curva il mondo nel cerchio di una notte, questa follia così estranea all’esperienza che le è contemporanea, non trasmette forse, per coloro che sono capaci di accoglierla - Nietzsche e Artaud -, le parole, appena udibili, della sragione classica in cui si trattava del nulla e della notte, ma amplificandole fino al grido e al furoreì ma dando loro, per la prima volta, un’espressione, un diritto di cittadinanza e una presa sulla cultura occidentale a partire dalla quale diventavano possibili tutte le contestazioni, e la contestazione totaleì rendendo loro la primitiva barbarie.
La calma, il paziente linguaggio di Sade raccolgono anch’essi le ultime parole della sragione e danno loro un senso più lontano, per l’avvenire. Tra il disegno spezzato di Goya e questa linea ininterrotta delle parole, linea retta che si prolunga dal primo volume di “Justine” fino al decimo di “Juliette”, non v’è certamente niente di comune, salvo un movimento che, risalendo il corso del lirismo contemporaneo e disseccando le sue sorgenti, scopre di nuovo il segreto del nulla della sragione.
Nel castello in cui si rinchiude l’eroe di Sade, nei conventi, nelle foreste e nei sotterranei in cui si prosegue indefinitamente l’agonia delle sue vittime, sembra a prima vista che la natura possa dispiegarsi in piena libertà. L’uomo vi ritrova una verità dimenticata, bench’ manifesta: quale desiderio potrebbe essere contro natura, se è stato messo nell’uomo dalla natura stessa, e se gli è insegnato da essa nella grande lezione di vita e di morte che il mondo non cessa di ripetereì La follia del desiderio, le uccisioni insensate, le passioni più sragionevoli, sono saggezza e ragione, poich’ appartengono alla natura. Tutto ciò che la morale e la religione, tutto ciò che una società malfatta hanno potuto soffocare nell’uomo, riprende vita nel castello dei delitti. L’uomo è infine accordato con la sua natura; o piuttosto, per un’etica caratteristica di questo strano internamento, l’uomo deve vegliare a conservare, senza cedimenti, la sua fedeltà alla natura: compito stretto e inesauribile della totalità: Tu non conoscerai niente se non hai tutto conosciuto; e se sei abbastanza timido da fermarti alla natura, essa ti sfuggirà per sempre (16). Inversamente, quando l’uomo avrà ferito o alterato la natura, tocca a lui riparare il male col calcolo di una sovrana vendetta: La natura ci ha fatto nascere tutti uguali; se la sorte si diverte a sconvolgere questo piano delle leggi generali, tocca a noi correggerne i capricci e porre rimedio con la nostra abilità alle usurpazioni del più forte (17). La lentezza della rivincita e l’insolenza del desiderio appartengono alla natura. Non c’è niente di ciò che inventa la follia degli uomini che non sia natura manifesta o natura restaurata.  Ma nel pensiero di Sade questo non è che il primissimo momento: l’ironica giustificazione razionale e lirica, il gigantesco “pastiche” di Rousseau. A partire da questa dimostrazione per assurdo dell’inanità della filosofia contemporanea e di tutto il suo cianciare sull’uomo e la natura, saranno prese le vere decisioni: decisioni che sono tante rotture in cui si abolisce il legame dell’uomo col suo essere naturale (18). La famosa “Società degli Amici del delitto”, il programma di costituzione per la Svezia, quando siano spogliati dei loro sferzanti riferimenti al “Contratto sociale” e alle costituzioni progettate per la Polonia e per la Corsica, non stabiliscono mai se non il rigore sovrano della soggettività nel rifiuto di ogni libertà e di ogni uguaglianza naturale: esercizio smisurato della violenza, applicazione illimitata del diritto di morte; tutta questa società, il cui solo legame è il rifiuto stesso del legame, appare come il congedo dato alla natura, e agli individui del gruppo si domanda una coesione non per proteggere un’esistenza naturale, ma il libero esercizio della sovranità sulla e contro la natura (19). Il rapporto stabilito da Rousseau è esattamente rovesciato; la sovranità non traspone più l’esistenza naturale; quest’ultima non è che un oggetto per il sovrano, ciò che gli consente di prendere le misure della sua totale libertà. Seguito fino all’estremo della sua logica, il desiderio non conduce apparentemente che alla scoperta della natura. In realtà, non c’è in Sade ritorno alla terra natale, n’ speranza che il primo rifiuto della socialità ridiventi furtivamente l’ordine prestabilito della felicità, con una dialettica della natura che rinuncia a se stessa e così si conferma. La follia solitaria del desiderio che, ancora per Hegel, come per i filosofi del diciottesimo secolo, immerge infine l’uomo in un mondo naturale subito ripreso in un mondo sociale, per Sade, non fa che gettarlo in un vuoto che domina da lontano la natura, in un’assenza totale di proporzioni e di comunità, nell’inesistenza sempre ricominciata dell’appagamento. La notte della follia è a questo punto senza limiti; quello che si poteva scambiare per la violenta natura dell’uomo non era che l’infinito della non-natura.
Qui prende origine la grande monotonia di Sade: a mano a mano che egli procede, gli scenari scompaiono; spariscono le sorprese, gli incidenti, i legami patetici o drammatici delle scene. Quello che in “Justine” era ancora peripezia (avvenimento subito, quindi nuovo) diventa in “Juliette” gioco sovrano sempre trionfante, senza negatività, la cui perfezione è tale che la sua novità non può essere che somiglianza con se stessa. E tuttavia in questa assenza di scenario, che può essere tanto notte totale quanto giorno assoluto (non c’è ombra in Sade), si avanza lentamente verso un termine: la morte di Justine. La sua innocenza aveva tanto stancato fino a desiderare di schernirla. Non si può dire che il delitto avesse trionfato della sua virtù; bisogna dire invece che la sua virtù naturale l’aveva condotta al punto di esaurire tutti i modi possibili di essere oggetto per il delitto. A questo punto, e quando il delitto non può far altro che scacciarla dal dominio della sua sovranità (Juliette scaccia sua sorella dal castello di Noirceuil), la natura, così a lungo dominata, schernita, profanata (20), si sottomette a sua volta interamente a ciò che la contraddiceva: a sua volta entra in follia e, per un istante soltanto, restaura la propria onnipotenza. La tempesta che si scatena, la folgore che colpisce e distrugge Justine, è la natura diventata soggettività criminale. Questa morte, che sembra sfuggire al regno insensato di Juliette, gli appartiene più profondamente di ogni altra; la notte della tempesta, il lampo e la folgore indicano a sufficienza che la natura è straziata, che giunge all’estremo del suo conflitto, e che lascia scorgere una sovranità che è se stessa e qualcosa di molto diverso: la sovranità di un cuore in follia che ha raggiunto nella sua solitudine i confini del mondo, che lo lacera, lo rivolta contro se stesso, e l’abolisce nel momento in cui potrebbe identificarsi con esso dopo averlo così ben dominato. Questo lampo istantaneo che la natura ha estratto da se stessa per colpire Justine è una cosa sola con la lunga esistenza di Juliette, che sparirà pure da sola, senza lasciare traccia n’ cadavere n’ niente su cui la natura possa riprendere i suoi diritti. Il nulla della sragione in cui aveva taciuto per sempre il linguaggio della natura è diventato violenza della natura e contro la natura, fino all’abolizione sovrana di se stessa (21).  In Sade come in Goya la sragione continua a vegliare nella sua notte; ma con questa veglia essa prende contatto con nuovi poteri. Il suo non-essere diventa potenza annientatrice. Attraverso Sade e Goya il mondo occidentale ha raccolto la possibilità di oltrepassare la sua ragione nella violenza e di ritrovare l’esperienza tragica al di là delle promesse della dialettica.  Dopo Sade e Goya, e a partire da essi, la sragione appartiene a ciò che c’è di decisivo in ogni opera, per il mondo moderno; vale a dire, a ciò che ogni opera comporta di micidiale e di vincolante.  La follia di Tasso, la malinconia di Swift, il delirio di Rousseau appartengono alle loro opere, come le loro opere appartenevano a essi. Nei testi come nella loro vita di uomini parlava la stessa violenza o la stessa amarezza; certo alcune visioni si scambiavano; linguaggio e delirio s’intrecciavano. Ma c’è di più: l’opera e la follia erano, nell’esperienza classica, legate più profondamente e su un altro piano; paradossalmente, là dove si limitavano l’un l’altra. Poich’ esisteva una regione in cui la follia contestava l’opera, la domava ironicamente, faceva del suo paesaggio immaginario un mondo patologico di fantasmi; quel linguaggio non era affatto un’opera che fosse delirio. E inversamente, il delirio si strappava alla sua magra verità di follia, se era attestato come opera. Ma in quella stessa contestazione, non c’era riduzione dell’una per mezzo dell’altra, ma piuttosto (ricordiamo Montaigne) scoperta dell’incertezza centrale in cui nasce l’opera, nel momento in cui cessa di nascere, per essere veramente opera. In questo conflitto, del quale Tasso o Swift erano i testimoni dopo Lucrezio - e che si cercava invano di ripartire in intervalli lucidi e in crisi -, si scopriva una distanza in cui la verità stessa dell’opera pone un problema: è essa follia od operaì Ispirazione o fantasmaì Insieme spontaneo di parole od origine pura di un linguaggioì La sua verità deve essere prelevata ancor prima della sua nascita dalla povera verità umana, o scoperta, molto al di là della sua origine, nell’essere che essa presumeì La follia dello scrittore era per gli altri la possibilità di veder nascere e rinascere incessantemente, negli scoraggiamenti della ripetizione e della malattia, la verità dell’opera.
La follia di Nietzsche, la follia di Van Gogh o quella di Artaud, appartengono alla loro opera, non più nè meno profondamente forse, ma in tutt’altro modo. Nel mondo moderno la frequenza di queste opere che scoppiano nella follia non prova nulla indubbiamente sulla ragione di questo mondo, sul senso di queste opere, e neppure sui rapporti tra il mondo reale e gli artisti che le hanno prodotte. Questa frequenza bisogna tuttavia prenderla sul serio, come l’insistenza di una domanda; a partire da Hölderlin e da Nerval, il numero degli scrittori, pittori, musicisti che sono sprofondati nella follia si è moltiplicato; ma non inganniamoci; tra la follia e l’opera non c’è stato accomodamento, nè scambio più costante, nè comunicazione di linguaggio; il loro scontro è molto più pericoloso di un tempo, la loro contestazione non perdona; si tratta di vita o di morte. La follia di Artaud non s’insinua negli interstizi dell’opera; essa è appunto l’”assenza d’opera”, la presenza ripetuta di questa assenza, il suo vuoto centrale sentito e misurato in tutte le sue dimensioni che non hanno confini. L’ultimo grido di Nietzsche, che si proclamava a un tempo Cristo e Diòniso, non è, ai confini della ragione e della sragione, il loro sogno comune, alfine raggiunto e subito sparito, di una riconciliazione tra i pastori d’Arcadia e i pescatori di Tiberiade; ma è l’annientamento stesso dell’opera che diventa impossibile da questo momento e deve tacere; il martello cade dalle mani del filosofo. E Van Gogh sapeva bene che la sua opera e la sua follia erano incompatibili, lui che non voleva domandare il permesso di fare dei quadri a dei medici.  La follia è assoluta rottura dell’opera; essa rappresenta il momento costitutivo di un’abolizione che fonda nel tempo la verità dell’opera; essa ne delinea il confine esterno, il punto di sprofondamento, il profilo contro il vuoto. L’opera di Artaud mette alla prova nella follia la propria assenza; ma questa prova, il coraggio ripetuto di questa prova, tutte queste parole gettate contro un’assenza fondamentale di linguaggio, tutto questo spazio di sofferenza fisica e di terrore che circonda il vuoto o piuttosto coincide con esso, ecco l’opera stessa: la scarpata sul gorgo dell’assenza d’opera. La follia non è più lo spazio d’indecisione in cui rischiava di trasparire la verità originaria dell’opera, ma la decisione a partire da cui essa cessa irrevocabilmente e sovrasta per sempre la storia. Poco importa il giorno esatto dell’autunno 1888 in cui Nietzsche è diventato completamente pazzo e a partire dal quale i suoi testi appartengono non più alla filosofia ma alla psichiatria; tutti, compresa la cartolina postale a Strindberg, appartengono a Nietzsche e sono imparentati con l’”Origine della tragedia”. Ma non bisogna pensare tale continuità sul piano di un sistema, di una tematicità e neppure di un’esistenza: la follia di Nietzsche, cioè lo sprofondarsi del suo pensiero, permette a questo pensiero di aprirsi sul mondo moderno. Ciò che la rendeva impossibile ce la rende presente; ciò che la strappava a Nietzsche la offre a noi. Questo non vuol dire che la follia sia il solo linguaggio comune all’opera e al mondo moderno (pericoli del patetico delle maledizioni, pericolo inverso e simmetrico delle psicanalisi); significa invece che, con la follia, un’opera che sembra sprofondare nel mondo, rivelargli il suo non-senso e trasfigurarsi nei soli tratti del patologico, in fondo coinvolge il tempo del mondo, lo domina e lo conduce; a causa della follia che la interrompe, un’opera apre un vuoto, un tempo di silenzio, una domanda senza risposta, provoca una lacerazione senza rimedio in cui il mondo è obbligato a interrogarsi. Ormai, e con la mediazione della follia, è il mondo che diventa colpevole (per la prima volta in Occidente) nei riguardi dell’opera; eccolo reclamato da essa, obbligato a conformarsi al suo linguaggio, costretto al riconoscimento e alla riparazione, a render ragione “di” questa sragione e “a” questa sragione. La follia in cui sprofonda l’opera è lo spazio del nostro lavoro, è l’infinita strada per venirne a capo, è la nostra vocazione sia di apostoli che di esegeti. Per questo non è importante sapere quando si sia insinuata nell’orgoglio di Nietzsche e nell’umiltà di Van Gogh la prima voce della follia. Non c’è follia se non come istante supremo dell’opera, e quest’ultima la respinge indefinitamente ai suoi confini; “dove c’è opera non c’è follia”; e tuttavia la follia è contemporanea dell’opera, poich’ inaugura il tempo della sua verità.  L’istante in cui nascono e si compiono insieme l’opera e la follia è l’inizio del tempo in cui il mondo si trova citato in giudizio da quest’opera e responsabile di ciò che è davanti a essa.  Astuzia e nuovo trionfo della follia: questo mondo che crede di misurarla e di giustificarla con la psicologia deve giustificarsi davanti a essa, poichè, nel suo sforzo e nei suoi conflitti, si misura alla smisuratezza di opere come quella di Nietzsche, di Van Gogh, di Artaud. E niente in esso, e meno che mai ciò che può conoscere della follia, lo rende sicuro che queste opere di follia lo giustifichino.




CONCLUSION
The Goya who painted The Madhouse must have experienced before that grovel of flesh
in the void, that nakedness among bare walls, something related to a contemporary
pathos: the symbolic tinsel that crowned the insane kings left in full view suppliant
bodies, bodies vulnerable to chains and whips, which contradicted the delirium of the
faces, less by the poverty of these trappings than by the human truth which radiated
from all that unprofaned flesh. The man in the tricorne is not mad because he has stuck
an old hat upon his nakedness; but within this madman in a hat rises-by the inarticulate
power of his muscular body, of his savage and marvelously unconstricted youth-a human
presence already liberated and somehow free since the be-ginning of time, by his
birthright. The Madhouse is less concerned with madness and those strange faces one
finds elsewhere in the Caprichos, moreover, than with the vast monotony of these new
bodies, shown in all their vigor, and whose gestures, if they invoke their dreams,
celebrate especially their dark freedom: its language is close to the world of Pinel.
The Goya of the Disparates and the Quinta del Sordo addresses himself to another

madness. Not that of madmen cast into prison, but that of man cast into darkness. Does
Goya not link us, by memory, with the old world of en-chantments, of fantastic rides, of
witches perched on the branches of dead trees? Is not the monster whispering its secrets
into the ears of the Monk related to the gnome who fascinated Bosch's Saint Anthony?
But they are different for Goya, and their prestige, which overshadows all his later work,
derives from another power. For Bosch or Brueghel, these forms are generated by the
world itself; 
through the fissures of a strange poetry, they rise from stones and plants, they well out

of an animal howl; the whole complicity of nature is not too much for their dance. Goya's
forms are born out of nothing: they have no back-ground, in the double sense that they
are silhouetted against only the most monotonous darkness, and that nothing can assign
them their origin, their limit, and their nature. The Disparates are without landscape,
without walls, without setting-and this is still a further difference from the Caprichos;
there is not a star in the night sky of the great human bats we see in the Way of Flying.
The branch on which these witches jabber-out of what tree does it grow? Does it fly?
Toward what sabbath, and what clearing? Nothing in all this deals with a world, neither
this one nor any other. It is indeed a question of that Sleep of Reason which Goya, in
1797, had already made the first image of the "universal idiom"; it is a question of a
night which is doubtless that of classical unreason, that triple night into which Orestes
sank. But in that night, man communicates with what is deepest in himself, and with
what is most solitary. The desert of Bosch's Saint Anthony was infinitely populous; and
even if it was a product of her imagination, the landscape that Dulle Griet moved
through was marked by a whole human language. Goya's Monk,
with that hot beast against his back, its paws on his shoul-ders and its mouth panting at

his ear, remains alone: no secret is revealed. All that is present is the most internal, and
at the same time the most savagely free, of forces: the power which hacks apart the
bodies in the Gran Disparate, which breaks free and assaults our eyes in the Raging
Madness. Beyond that point, the faces themselves decompose; this is no longer the
madness of the Caprichos, which tied on masks truer than the truth of faces; this is a
madness beneath the mask, a madness that eats away faces, corrodes features; there
are no longer eyes or mouths, but glances shot from nowhere and staring at nothing (as
in the Witches' Sabbath); or screams from black holes (as in the Pilgrimage of Saint
Isidore). Madness has become man's possibility of abolishing both man and the worldand
even those images that challenge the world and deform man. It is, far beyond
dreams, beyond the nightmare of bestiality, the last recourse: the end and the beginning
of everything. Not because it is a promise, as in German lyricism, but because it is the
ambiguity of chaos and apocalypse: Goya's Idiot who shrieks and twists his shoulder to
escape from the nothingness that imprisons him-is this the birth of the first man and his
first movement toward liberty, or the last convulsion of the last dying man?
And this madness that links and divides time, that twists the world into the ring of a
single night, this madness so foreign to the experience of its contemporaries, does it not
transmit-to those able to receive it, to Nietzsche and to Artaud-those barely audible
voices of classical unreason, in which it was always a question of nothingness and night,
but amplifying them now to shrieks and frenzy? But giving them for the first time an
expression, a droit de cite, and a hold on Western culture which makes possible all
contesta-tions, as well as total contestation? But restoring their prim-itive savagery?
Sade's calm, patient language also gathers up the final words of unreason and also gives

them, for the future, a remoter meaning. Between Goya's broken drawings and that
uninterrupted stream of words continuing from the first volume of Justine to the tenth of
Juliette, there is doubtless nothing in common except a certain movement that retraces
the course of contemporary lyricism, drying up its sources, rediscovering the secret of
unreason's noth-ingness.
Within the chateau where Sade's hero confines himself, within the convents, the forests,
the dungeons where he endlessly pursues the agony of his victims, it seems at first
glance that nature can act with utter freedom. There man rediscovers a truth he had
forgotten, though it was mani-fest: what desire can be contrary to nature, since it was
given to man by nature itself? And since it was taught by nature in the great lesson of
life and death which never stops repeating itself in the world? The madness of desire,
insane murders, the most unreasonable passions-all are wisdom and reason, since they
are a part of the order of nature. Everything that morality and religion, everything that a
clumsy society has stifled in man, revives in the castle of murders. There man is finally
attuned to his own nature; or rather, by an ethic peculiar to this strange confinement,
man must scrupulously maintain, without deviation, his fidelity to nature: a strict task, a
total enterprise: "You will know nothing unless you have known everything; if you are
timid enough to stop with Nature, she will escape you forever."1 Conversely, if man has
wounded or changed nature, it is man's task to repair the damage through the
mathematics of a sovereign vengeance: "Nature caused us all to be born equal; if fate is
pleased to disturb this plan of the general law, it is our responsibility to correct its
caprice, and to repair by our attention the usurpations of the stronger."2 The slowness
of revenge, like the insolence of
desire, belongs to nature. There is nothing that the madness of men invents which is not

either nature made manifest or nature restored.
But this is only the first phase of Sade's thought: the ironic justification, both rational
and lyrical, the gigantic pastiche, of Rousseau. Beyond this demonstration-by-absurdity
of the inanity of contemporary philosophy, beyond all its verbiage about man and
nature, the real decisions are still to be made: decisions that are also breaks, in which
the links between man and his natural being disappear.3 The famous Society of the
Friends of Crime, the project of a Swedish Constitution, once we remove their stinging
references to the Social Contract and to the proposed constitu-tions for Poland or
Corsica, establish nothing but the sov-ereign rigor of subjectivity in the rejection of all
natural liberty and all natural equality: uncontrolled disposal of one member by the
other, the unconditional exercise of violence, the limitless application of the right of
death-this entire society, whose only link is the very rejection of a link, appears to be a
dismissal of nature-the only cohesion asked of individuals is intended to protect, not a
natural existence, but the free exercise of sovereignty over and against nature.4 The
relation established by Rousseau is precisely reversed; sovereignty no longer transposes
the natural existence; the latter is only an object for the sover-eign, which permits him
to measure his total liberty. Fol-lowed to its logical conclusion, desire leads only in
appear-ance to the rediscovery of nature. Actually, for Sade there is no return to the
natal terrain, no hope that the first re-jection of social order may surreptitiously become
the re-established order of happiness, through a dialectic of nature renouncing and thus
confirming itself. The solitary mad-ness of desire that still for Hegel, as for the
eighteenth-century philosophers, plunges man into a natural world that is immediately
resumed in a social world, for Sade merely
(283)
casts man into a void that dominates nature in a total ab-sence of proportion and
community, into the endlessly re-peated nonexistence of gratification. The night of
madness is thus limitless; what might have been supposed to be man's violent nature
was only the infinity of non-nature.
Here is the source of Sade's great monotony: as he ad-vances, the settings dissolve; the
surprises, the incidents, the pathetic or dramatic links of the scenes vanish. What was
still vicissitude in Justine - an event experienced, hence new-becomes in Juliette a
sovereign game, always triumphant, without negativity, and whose perfection is such
that its novelty can only be its similarity to itself. As with Goya, there are no longer any
backgrounds for these metic-ulous Disparates. And yet in this absence of decor, which
can as easily be total night as absolute day (there are no shadows in Sade), we advance
slowly toward a goal: the death of Justine. Her innocence had exhausted even the desire
to torment it. We cannot say that crime had not overcome her virtue; we must say
inversely that her natural virtue had brought her to the point of having exhausted all the
possible means of being an object for crime. And at this point, when crime can do
nothing more than drive her from the domain of its sovereignty (Juliette expels her from
the Chateau de Noirceuil), Nature in her turn, so long dominated, scorned, profaned,5
submits entirely to that which contradicted her: Nature in turn enters madness, and
there, in an instant, but for an instant only, restores her omnipotence. The storm that is
unleashed, the lightning that strikes and consumes Justine, is Nature become crim-inal
subjectivity. This death that seems to escape from the insane domain of Juliette belongs
to Nature more pro-foundly than any other; the night of storm, of thunder and lightning,
is a sufficient sign that Nature is lacerating herself, that she has reached the extreme
point of her dissension, and that she is revealing in this golden flash a sovereignty
which is both herself and something quite outside herself: the sovereignty of a mad

heart that has attained, in its soli-tude, the limits of the world that wounds it, that turns
it against itself and abolishes it at the moment when to have mastered it so well gives it
the right to identify itself with that world. That lightning-flash which Nature drew from
herself in order to strike Justine was identical with the long existence of Juliette, who
would also disappear in solitude, leaving no trace or corpse or anything upon which
Nature could claim her due. The nothingness of unreason, in which the language of
Nature had died forever, has be-come a violence of Nature and against Nature, to the
point of the savage abolition of itself.6
For Sade as for Goya, unreason continues to watch by night; but in this vigil it joins with
fresh powers. The non-being it once was now becomes the power to annihilate. Through
Sade and Goya, the Western world received the possibility of transcending its reason in
violence, and of recovering tragic experience beyond the promises of dialec-tic.
After Sade and Goya, and since them, unreason has be-longed to whatever is decisive,
for the modern world, in any work of art: that is, whatever any work of art contains that
is both murderous and constraining.
The madness of Tasso, the melancholia of Swift, the de-lirium of Rousseau belong to
their works, just as these works belong to their authors. Here in the texts, there in the
lives of the men, the same violence spoke, or the same bitterness; visions certainly were
exchanged; language and delirium interlaced. But further, the work of art and mad-ness,
in classical experience, were more profoundly united at another level: paradoxically, at
the point where they lim-ited one another. For there existed a region where madness
challenged the work of art, reduced it ironically, made of
its iconographic landscape a pathological world of hallu-cinations; that language which

was delirium was not a work of art. And conversely, delirium was robbed of its meager
truth as madness if it was called a work of art. But by admitting this very fact, there was
no reduction of one by the other, but rather (remembering Montaigne) a dis-covery of
the central incertitude where the work of art is born, at the moment when it stops being
born and is truly a work of art. In this opposition, to which Tasso and Swift bore witness
after Lucretius-and which it was vain to at-tempt to separate into lucid intervals and
crises-was dis-closed a distance where the very truth of a work of art raised a problem:
was it madness, or a work of art? Inspira-tion, or hallucination? A spontaneous babble of
words, or the pure origins of language? Must its truth, even before its birth, be taken
from the wretched truth of men, or discov-ered far beyond its origin, in the being that it
presumes? The madness of the writer was, for other men, the chance to see being born,
over and over again, in the discourage-ment of repetition and disease, the truth of the
work of art.
The madness of Nietzsche, the madness of Van Gogh or of Artaud, belongs to their work
perhaps neither more nor less profoundly, but in quite another way. The frequency in the
modem world of works of art that explode out of madness no doubt proves nothing
about the reason of that world, about the meaning of such works, or even about the
relations formed and broken between the real world and the artists who produced such
works. And yet this fre-quency must be taken seriously, as if it were the insistence of a
question: from the time of Holderlin and Nerval, the number of writers, painters, and
musicians who have "suc-cumbed" to madness has increased; but let us make no
mistake here; between madness and the work of art, there has been no
accommodation, no more constant exchange, no
communication of languages; their opposition is much more dangerous than formerly;

and their competition now allows no quarter; theirs is a game of life and death. Artaud's
madness does not slip through the fissures of the work of art; his madness is precisely
the absence of the work of art, the reiterated presence of that absence, its central void
experienced and measured in all its endless di-mensions. Nietzsche's last cry,
proclaiming himself both Christ and Dionysos, is not on the border of reason and
unreason, in the perspective of the work of art, their com-mon dream, finally realized
and immediately vanishing, of a reconciliation of the "shepherds of Arcady and the
fishermen of Tiberias"; it is the very annihilation of the work of art, the point where it
becomes impossible and where it must fall silent; the hammer has just fallen from the
phi-losopher's hands. And Van Gogh, who did not want to ask "permission from doctors
to paint pictures," knew quite well that his work and his madness were incompatible.
Madness is the absolute break with the work of art; it forms the constitutive moment of
abolition, which dissolves in time the truth of the work of art; it draws the exterior edge,
the line of dissolution, the contour against the void. Artaud's oeuvre experiences its own
absence in madness, but that experience, the fresh courage of that ordeal, all those
words hurled against a fundamental absence of language, all that space/of physical
suffering and terror which surrounds or rather coincides with the void-that is the work
of art itself: the sheer cliff over the abyss of the work's absence. Madness is no longer
the space of indecision through which it was possible to glimpse the original truth of the
work of art, but the decision beyond which this truth ceases irrevocably, and hangs
forever over history. It is of little importance on exactly which day in the autumn of 1888
Nietzsche went mad for good, and after which his texts no longer afford philosophy but
psychiatry: all of
them, including the postcard to Strindberg, belong to Nietzsche, and all are related to

The Birth of Tragedy. But we must not think of this continuity in terms of a system, of a
thematics, or even of an existence: Nietzsche's mad-ness-that is, the dissolution of his
thought-is that by which his thought opens out onto the modem world. What made it
impossible makes it immediate for us; what took it from Nietzsche offers it to us. This
does not mean that madness is the only language common to the work of art and the
modern world (dangers of the pathos of maledic-tion, inverse and symmetrical danger of
psychoanalyses);
but it means that, through madness, a work that seems to drown in the world, to reveal
there its non-sense, and to transfigure itself with the features of pathology alone,
actu-ally engages within itself the world's time, masters it, and leads it; by the madness
which interrupts it, a work of art opens a void, a moment of silence, a question without
an-swer, provokes a breach without reconciliation where the world is forced to question
itself. What is necessarily a profanation in the work of art returns to that point, and, in
the time of that work swamped in madness, the world is made aware of its guilt.
Henceforth, and through the me-diation of madness, it is the world that becomes
culpable (for the first time in the Western world) in relation to the work of art; it is now
arraigned by the work of art, obliged to order itself by its language, compelled by it to a
task of recognition, of reparation, to the task of restoring reason from that unreason and
to that unreason. The madness in which the work of art is engulfed is the space of our
enter-prise, it is the endless path to fulfillment, it is our mixed vo-cation of apostle and
exegete. This is why it makes little difference when the first voice of madness insinuated
itself into Nietzsche's pride, into Van Gogh's humility. There is no madness except as the
final instant of the work of art- the work endlessly drives madness to its limits; inhere
there
is a work of art, there is no madness; and yet madness is contemporary with the work of

art, since it inaugurates the time of its truth. The moment when, together, the work of
art and madness are born and fulfilled is the beginning of the time when the world finds
itself arraigned by that work of art and responsible before it for what it is.
Ruse and new triumph of madness: the world that thought to measure and justify
madness through psychology must justify itself before madness, since in its struggles
and agonies it measures itself by the excess of works like those of Nietzsche, of Van
Gogh, of Artaud. And nothing in itself, especially not what it can know of madness,
assures the world that it is justified by such works of madness.


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