lunedì 25 novembre 2013

link: BEPPE SEBASTE/ Adelphi, cinquant’anni di libri “pastello” [ l'Unità, Acchiappafantasmi 24-11-2013]







     In un suo “pensiero” Giacomo Leopardi ironizza, molto cortesemente, sulla “bella e amabile illusione” delle ricorrenze, secondo cui “i dì anniversari di un avvenimento, che per verità non ha a fare con essi più che con qualunque altro dì dell’anno, paiono avere con quello un’attinenza particolare, e che quasi un’ombra del passato risorga e ritorni sempre in quei giorni, e ci sia davanti”. Non ci imbarazza quindi celebrare forse per ultimi il cinquantesimo anniversario della casa editrice Adelphi, dedicandole un ammirata testimonianza di lettori e i nostri auguri. D’altronde, le parole leopardiane citate sopra a memoria le ritrovo al paragrafo XIII deiPensieri di Leopardi editi nella Piccola Biblioteca Adelphi, con una tipica copertina rosa corallo o rosa pesca, non saprei decidere.
  Ecco, già nei colori delle iconoclaste copertine Adelphi riconosciamo una nota inconfondibile dei nostri scaffali, libri che perfino i più esigenti e problematici ordinatori di biblioteche, di solito più competenti e saggi dei critici di prpfessione (l’arte di disporre i libri non ha soluzioni definitive, solo la pazienza di sistemazioni provvisorie e approssimative) cedono a volte alla tentazione di sistemare i libri Adelphi senz’altro metodo che la comune appartenenza, come i venditori di mobili e i non lettori che sistemano i libri secondo il colore delle copertine. Ma anche questa soluzione, un tempo irrisa dai colti, viene dialetticamente redenta nell’idea adelphiana del catalogo editoriale come forma, libro dei libri, di libri che stiano bene insieme tra loro anche nelle diversità, secondo la teoria del buon vicino evocata spesso da Roberto Calasso.
   Tornando ai colori delle copertine Adelphi, è importante notare che non si tratta mai di colori assoluti, o saturi, e che siano invece tutti interpretabili, “pastello”, colori al limite marginali, minoritari, identità non rigide ma flessibili –  ceruleo, lilla, violaceo, lavanda, sabbia, malva, verde pastello, salmone chiaro, etc. Non sono un esperto, ma nella gamma dei colori adelphiani trovo la promessa mantenuta di quella libertà e rottura degli steccati ideologici che ispirò il fondatore Luciano Foà (consigliato da Roberto Bazlen), in polemica con una certa “monotonia editoriale di sinistra”. Quando, per capirci, il non fare esternazioni manifestamente di sinistra e il pensare pensieri inattuali equivaleva a essere considerati di destra. Il colore, si sa, connette con tutti gli altri sensi, connette sfera cognitiva e sfera emotiva, promuovendo quella generale interconnessione di tutto con tutto che è la letteratura, oltre che il metodo di Gregory Bateson, una delle grandi menti del XX secolo a cui tutti dovrebbero guardare (soprattutto i politici), il cui Verso un’ecologia della menteAdelphi pubblicò già nel 1977.
   Di questa connessione universale che coincide con la letteratura la rete, nel senso del web, è invece spesso un’ambigua e ostile parodia. Roberto Calasso ha scritto un articolo appassionato sul New York Times in polemica risposta a Kevin Kelly di Wired, che preconizzava con malcelata soddisfazione la sparizione del libro di carta a favore dell’e-book, e proprio a partire dalla sparizione delle copertine. Le copertine sono la pelle del libro, ha detto Calasso, e quindi la prima cosa ad essere scorticata da nemici e detrattori. Il testo è raccolto nel bel libro recente di Calasso, L’impronta dell’editore (Adelphi). L’odio verso l’oggetto libro che viene da un certo mondo del web è in fondo “una profonda e giustificata avversione, perché il libro corrisponde a una modalità della conoscenza incompatibile con quello propugnato dalla rete, che è la conoscenza come protesi, l’occupazione della mente con uno sciame di bit digitali, esattamente l’opposto di ciò che è la conoscenza in senso metamorfico, che trasforma cioè il soggetto che conosce”.
  E’ buffo, finora abbiamo parlato solo o quasi di copertine. La casa editrice Adelphi nacque nel 1962 per iniziativa, come abbiamo detto, di Luciano Foa (uscito dall’Einaudi col pretesto di un litigio sulla pubblicazione delle opere integrali di Nietzsche a cura di Giorgio Colli) e Bobi Bazlen, ma i primi quattro libri uscirono l’anno dopo, cinquant’anni fa: il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, le opere teatrali di Georg Büchner, il primo volume di tutte le Novelle di Gottfried Keller, Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo: si noti, fin dall’inizio dunque, l’insieme di libertà, imprendibilità e qualità inattuali delle scelte che caratterizzeranno il catalogo editoriale Adelphi. Roberto Calasso vi collaborò dal 1967, per diventarne poi direttore editoriale e autore della casa. Dagli anni ’70 il marchio Adelphi era ormai noto: Hermann Hesse e Joseph Roth (in nessuna stanza di studente mancavano Siddharta e La leggenda del santo bevitore), letteratura mitteleuropea (Il manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki uscì nel 1965) e Indiani d’America (Alce Nero parla di John G. Neihardt, 1968), Robert Walser e Antonin Artaud, Il libro dell’Es di Georg Groddeck (1966) e Lezioni e conversazioni di Ludwig Wittgenstein (1967), i Quaderni di Valery e La sapienza greca di Giorgio Colli, Elias Canetti e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig (1981) e così via, fino alle opere di Nabokov e a quelle di Simenon, i romanzi (postumi) di Guido Morselli e quelli di Giorgio Manganelli, e dal 1981, con Perturbamento, le opere del grande Thomas Bernhard, che ai miei occhi, o meglio alle mie orecchie, incarna al meglio lo spirito Adelphi: una scrittura complessa e irriducibile, irriverente e a suo modo consacrata, capace di rifondare in modo assolutamente non-ideologico il concetto stesso di avanguardia, con una totale dedizione alla sintassi e alla verità – scomodissima, appunto – della letteratura. Senza trascurare la mitologia classica e la spiritualità orientale, soprattutto quella indiana (in coincidenza con l’interesse personale dello scrittore Calasso). Ognuno può sfogliare la propria memoria del tempo scorrendo le pagine di Adelphiana, un volume-catalogo pubblicato in occasione del cinquantenario.
   Se i libri Einaudi li riconoscevi dall’odore, ed era un’aroma eccitante di impegno e di costruzione di sé, attualizzata dalla politica, tutt’uno col sentimento di appartenenza al fronte frastagliato dei ribelli, i libri Adelphi erano un’esperienza diversa e complementare, innanzitutto tattile e visiva (la pelle delle copertine, ancora una volta), poi un invito destrutturante al sogno e all’immaginazione, come la siepe dell’Infinito; un altro indirizzo dell’intelligenza, non superiore ma più esoterico. Ma non sentivamo all’epoca nessun conflitto (parlo degli anni Settanta e Ottanta).
   Un ricordo intimo: ore trascorse in luoghi diversi, col mio amico Giorgio Messori, a leggerci e rileggerci a voce alta i nostri adelphini preferiti, che tenevamo sempre nella tasca del giaccone, I temi di Fritz Kocher di Walser e soprattutto L’imitatore di voci di Bernhard, ,e non riuscire a smettere di ridere. Il libro più commovente della collana? Uomini tedeschi di Walter Benjamin, monumento stoico all’antiretorica, all’inerme luminosa verità, ancora una volta, della letteratura.



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