giovedì 28 novembre 2013

DOMANDE A MAGDA GUIA CERVESATO SULLA SCRITTURA DI TSO da Mariella G.– Venezia – 24 novembre 2013 [pubblicato su fb]




1) In TSO, p. 50, il ritrovamento di fogli bianchi e di una penna ti consentono di annotare “un nome per ogni anima che mi scorre davanti”. E’ da apprezzare l’efficacia del soprannome di fantasia al posto del nome reale, a significare la peculiare risonanza interiore di ogni persona, l’accoglierle in te per compassione o per rabbia impotente, siano esse degenti od operatori.
A p. 51 aggiungi: “Non voglio dimenticare nulla di nessuno. Non voglio dimenticare nulla di me”.
Nel gruppo di lettura su Etty Hillesum abbiamo riflettuto sulla funzione di “resistenza esistenziale” (l’espressione è di Frediano Sessi) svolta anche dalla scrittura, non solo dalla presa di posizione etica della giovane ebrea di fronte alla persecuzione nazista. D’altra parte Roberto Saviano afferma che “scrivere è fare resistenza”.

Domanda:
Assodato che il ricorso alla scrittura è stato “istintivo” perché c’era già una dimestichezza con questo mezzo, quale sollievo pensi ti abbia dato il poter buttare giù delle note in quella situazione? Era semplicemente una funzione mnestica per non dimenticare dettagli, visi, episodi, pensando già ad un uso futuro degli appunti? O il poter annotare consentiva un sollievo d’altro genere, ad esempio una forma di trasgressione per “resistere”, una possibilità di riattivare un contatto con te stessa, un’isola di riappartenenza là dove subivi una radicale disappartenenza?

Risposta:
I nomignoli di fantasia sono utilizzati per universalizzare la condizione di sofferenza (mentale nello specifico), causa del mio ricovero.
L'espressione 'resistenza esistenziale' la trovo appropriata, ma non in relazione alla scrittura come strumento di sopravvivenza. O meglio all'inizio, sul momento 'vivo' mi ha letteralmente salvato dalla noia in modo diverso da altri tipi di distrazioni (quale il fumo, la tv, le chiacchiere, il trucco, il sole in giardino etc...; tutte cose che ho pure fatto): un modo che a livello intuitivo combinava la prospettiva di superare la noia e quella di ricordare ciò che sapevo avrei nei dettagli dimenticato. Quindi un'unione di mezzo e fine, che a mio giudizio è la via naturale del conseguimento e realizzazione degli intenti. Non mi sentirei però di affermare che il prendere appunti abbia rappresentato un 'resistere' dal punto di vista 'clinico-esistenziale'. La pura trascrizione emozionale di ciò che vivevo e osservavo in me e negli altri non mi ha aiutata a 'sentirmi meglio', a superare l'emergenza, o, dopo le dimissioni, a comprendere i problemi che mi avevano condotto in quel luogo. Tutto questo, il 'curarmi', se c'è stato e continuerà ad esserci, è scaturito per gradi, in parallelo con le varie stesure del diario (che hanno abbracciato un'epoca temporale di tre anni successivi ai fatti): mi sento pertanto di poter affermare che un percorso di cura, e di scarto rispetto all'episodio critico ma anche rispetto alla mia struttura 'nevrotica' dalle più lontane radici, si è avviato con il ragionamento (fatto di ricerca, spiegazioni alternative, conoscenza della materia etc.) costruito sopra, o accanto, alla memoria emotiva. Non credo che 'scrivere è far resistenza', detta à la Saviano. Scrivere un diario può rappresentare una 'momentanea sopravvivenza', al limite; nulla dagli effetti a lunga durata necessari in un caso come il mio, 'un caso psichiatrico'. Diverso (certo con alcune similitudini) è il caso di un internamento coatto da cui non sia abbia possibilità di uscita, come il caso del campo di concentramento, per cui la sopravvivenza nell'immediato è tutto ciò cui si possa contribuire. Ma, laddove un percorso di liberazione, emancipazione, evoluzione, sia 'praticamnete' possibile, la pura gittata emotiva non credo aiuti oltre l'attimo della scrittura intesa come atto fisico. Per quell''oltre' ritengo sia necessario un lavoro cognitivo distaccato quale, rimanendo nel settore, quello necessario alla scrittura romanzesca, in cui l'esperienza personale è filtrata dalla voce narrante e mediata dall'esigenza di struttura in atti, capitoli, trama, personaggi, etc. Insomma bisogna staccarsi dall'io prima o poi, per raccontarsi e raccontare. E' solo quando quel racconto diventa possibile, che è secondo me possibile parlare di scrittura come strumento terapeutico, o meglio: come incipit di una storia 'conclusa' cui si è apposto il finale (quella personale) e che come tale può lasciare spazio alla nuova che si apre (quella letteraria).
Trovo necessario precisare che il mezzo 'scrittura', in me, era tutt'altro che ampiamente assodato: avevo sì scritto qualcosa in un passato più recente del Liceo, prosa e versi, ma nulla più di quello che io chiamo 'scrittura da cameretta'. Il ricorso agli appunti su quei fogli bianchi è stato quindi atto certamente spontaneo ma incosciente di tecniche e potenzialità.


2) Pier Vincenzo Mengaldo ha intitolato un libro sulle testimonianze della Shoah La vendetta è il racconto: si scrivono testimonianze perché l’esperienza vissuta non sia cancellata, perché non possa essere negata o smentita da chi avrebbe interesse a negarla o smentirla.
In TSO, p. 51, scrivi: “Non sono una testimone esterna con un Moleskine in mano. Io sono loro”. Legittimazione forte a dire, perché il vissuto comporta un prezzo pagato in proprio. Infatti il tono è a misura: rimanda determinazione, coraggio, fierezza, che traspare oltre il contenuto di sofferenza il cui racconto non scade mai nel vittimismo, ma esige da chi legge una presa di coscienza.
Etty Hillesum scrive anche perché vuole essere testimone del proprio tempo. E afferma che soltanto un poeta sarebbe in grado di raccontare ciò che accade nel campo di concentramento di Westerbork. Scriverà due lettere efficacissime dal campo, che la resistenza olandese pubblicherà clandestinamente.

Domanda:
Quanto e come ha contato l’esigenza della testimonianza, la “vendetta” di far sapere, tra le motivazioni che ti hanno indotta all’impresa di scrivere un libro su un’esperienza tanto intima e drammatica? In che modo, per quali vie, hai scelto di dirlo in forma autobiografica e testimoniale e non in altre forme narrative e finzionali?

Risposta:
Mi fa piacere che si trovi il mio racconto confessionale per lo più privo di quello statuto vittimario caratterizzante molta diaristica. Questo lo devo certo al fatto che in quella situazione non mi sentissi diversa; che sapessi cioè di non essere (giacché realmente non lo ero) in una posizione differente rispetto ai miei compagni di manicomio: 'le mie paure sono le loro; io sono loro', scrivo a un certo punto. Ma questo riconoscimento di un comune dolore, e del timore di una possibile comune tristissima sorte, non sarebbe bastata a gettare le basi per una memoria attiva; una memoria che non si fermi sulla soglia del destino crudele, o del caso umano, ma la oltrepassi con diverso spirito: lo spirito raziocinante della scoperta del mio potere di unire riflessione al ricordo . Una riflessione che andasse ben oltre le storture della mentalità e pratica concentrazionaria del luogo che mi ha tecnicamente rinchiuso, e che era da vedersi come luogo non più solo esterno a me. Un luogo brutto che non si augurerebbe a nessuno visitare, certo, ma che rispecchiava la mia bruttezza. Un luogo non solo internante, ma interno. Per superare il mio sdegno per quell'ingiustizia ho insomma dovuto prima ammettere che parte di quella ingiustizia non era affatto ingiusta. E' stato, questo, un processo iniziato con la stesura del libro e che prosegue tutt'oggi, a un anno e mezzo dalla sua pubblicazione. Per questo in 'TSO', pur essendoci presa di coscienza, come scrivi tu, ci sono passaggi, atmosfere, umori che riletti oggi mi appaiono sin troppo ingenui. E in cui non mi ci ritrovo più perfettamente. Ben sapendo che, all'epoca, quello era il massimo livello di coscienza che mi era possibile esprimere: ciò non toglie che oggi non mi senta in grazioso dovere di raddrizzare ciò che ora vi vedo di storto.
Per rispondere direttamente alla tua domanda: non credo di essere mai stata mossa da desiderio di vendetta (beh, a parte i primissimi giorni); e forse neppure dal desiderio di far sapere all'esterno qualcosa che mi era accaduto, o qualcosa che può accadere all'interno di un repartino. C'è stata, inizialmente, una potente esigenza di scomporre per comprendere quello che avevo vissuto; per tentare di comprendere la causa di quell'esperienza. Per salvarmi, prima che per curiosità intellettuale. Cosa che per iscritto mi è parsa venire meglio che in altre forme. In seguito il desiderio di pubblicare il risultato del mio cercare, credo sia stato lo stesso di tutti gli 'esseri scriventi': venire letti perché si crede di aver detto qualcosa. Poi ovviamente solo il tempo e i riscontri diranno se quel qualcosa ha davvero carattere di bellezza formale e contenutistica; se meritasse o meno lo sforzo, in soldoni. Io credo sia un po' come per i figli: capita di accoglierli nel mondo per incoscienza, circostanze o bisogno tanto quanto per certezza d' amore. In entrambi i casi solo i modi e i tempi che verranno testimonieranno come e se quell'incoscienza originaria sia stata trasformata in 'opera d'arte', bene umano e universale, o meno.
Per quanto concerne la forma testimoniale scelta, la risposta è molto semplice: non avevo idea di come scrivere in altra forma; non avevo nessuna competenza formale narrativa, e quindi è stata una non-scelta. Volendo andare più a fondo nella questione oggi, dopo averla un pò studiata, mi rendo conto che la 'confessione autobiografica' è quella più facile, e non solo tecnicamente: non ha come presupposto quel distacco dalla propria esperienza necessaria alla forma romanzo. Rappresenta forse un primo passo sulla strada della scrittura, un passo ancora incerto perchè intriso di sé, in qualche modo assimilabile a un percorso terapeutico di psicoanalisi, e con analoghe prospettive d'esito. Le forme finzionali, credo, possono venire alla luce solo quando la fase di analisi sia giunta a, sempre relativa e parziale, conclusione.


3) La narrazione in prima persona unita all’uso del tempo presente producono un forte coinvolgimento da parte di chi legge: come se gli avvenimenti, le esperienze, le riflessioni fossero “in presa diretta”; come se quel passato non potesse passare mai, e ad ogni rilettura ridiventa attuale, impone interrogativi di nuovo attivi che non possono essere chiusi con risposte di comodo.
Vita Cosentino in Tam tam sceglie il tempo presente, ma decide di usare la terza persona “lei” per raccontare la malattia invalidante che l’ha colpita. Lo spiega dicendo che la prima persona l’avrebbe coinvolta troppo, le avrebbe impedito la distanza per ottenere il tono più consono.

Domanda:
Avendo scelto di raccontare dicendo “io” e al presente, che cosa ti ha “protetta” durante le varie fasi della scrittura dal rivivere emotivamente gli eventi narrati? C’è stato un costo da pagare? O al contrario questo ti ha aiutato a rielaborare il vissuto? Se c’è stato “distacco” emotivo tra l’autrice e la narratrice, è possibile dire come ha funzionato per te questo gioco nella composizione del testo?

Risposta:
In parte ho già risposto a questo interrogativo. La prima persona certamente produce un forte coinvolgimento in chi scrive e chi legge, è un passo intermedio rilevante ai fini terapeutici proprio in virtù del fatto che costringe a rivivere emotivamente. Come dici, non 'protegge' l'io ferito: ma  questo non lo considero 'prezzo da pagare'. Al contrario, è forse l'unico modo utile non tanto a rielaborare il vissuto (cosa c'è da elaborare, se non si è prima sofferto per la colpa di ciò che si è visto e riconosciuto come tale?), ma per non vederlo più attraverso schermi zigrinati e scudi di protezione intergalattici. Il distacco emotivo, quello che c'è stato, si è innescato durante il lavoro cognitivo necessario a dare una forma il più possibile compiuta al testo. Il distacco dagli alibi della totale casualità dell'accidente occorsomi è avvenuto invece molto più lentamente, e prosegue tutt'oggi.
Oggi posso tranquillamente dire che il determinismo in cui ero portata a credere, la mera successione di casi, e dei mille fattori che lo reggono (biologici, ambientali, sociali, imprevisti etc. etc.) non mi rendeva un grande favore: anzi mi toglieva ogni possibilità di 'manutenzionare' me stessa. Mi toglieva anche quella parte di libertà cui ho sempre avuto accesso, ma che tendevo a escludere a priori.
Oggi mi chiedo seriamente dove si voglia arrivare continuando su questa strada di indifferenziazione del tutto. Se tutto è caso e caos predeterminato, se guardiamo sempre solo ai diritti nostri, perchè mai dovremmo lamentarci del carattere inumano dei luoghi della salute mentale, degli ospizi, o persino dei campi di concentramento? Se abbiamo deciso che il nostro spazio di manovra nel parcheggio dell'arbitrio è nullo, perché mai dovremmo sorprenderci che anche quello altrui lo è? Come conseguenza logica direi che è impossibile non finire tutti quanti affastellati su di un unico posto macchina.


4) A p. 55 di TSO scrivi: “Solo grazie all’impulso della mia mano di annotare ciò che sta accadendo mi disipnotizzo da quel tragico torpore”. Poco dopo: “Scrivere è rivivere, si dice. Banalità per un verso, vero per altri: solo dopo aver fissato una cosa su un foglio a volte ne divengo consapevole. Mentre la abito, ne sono tanto distratta che ne perdo il significato”. Nella pagina seguente concludi: “Oppure questa è una semplice scusa per la mia impotenza. Perdona anche me, Cantante Frank”.
Etty Hillesum dice: “Una cosa è certa: non potrò mai scrivere le cose come la vita le ha scritte per me, in caratteri viventi”. Altrove invece constata: “’Vivere’ tutto quanto non è più sufficiente, ci vuole qualcosa di più”.
Imre Kertész, Nobel per la letteratura nel 2002, deportato ad Auschwitz all’età di quattordici anni, in Kaddish per il bambino non nato scrive: “la vita è piuttosto cieca, la scrittura è piuttosto vedente, e così è un’aspirazione diversa, certo, dalla vita, forse aspira a vedere quello cui aspira la vita, e per questo, visto che non può fare altro, ripete la vita alla vita, ripassa la vita, come se anch’essa, la scrittura, fosse vita, laddove non lo è”.
Entrambi descrivono una frattura tra scrittura e vita, e insieme un di più che la scrittura può dare alla vita. Ma forse è nella frattura che si possono insinuare equivoci, mascheramenti, o la vacuità, come un certo iper-narrativismo contemporaneo che non sempre riesce a provocarci con dilemmi pertinenti al nostro tempo: pur mettendo in scena l’attualità, la finzione romanzesca si limita spesso a una cronaca senza spessore, che non lascia tracce. In certi laboratori “creativi” si incoraggia l’egocentrismo in assenza di una necessità a dire, confermando un vuoto di “aspirazioni”.
Per scrivere, anche quando è “cura di sé”, ci vogliono specifiche consapevolezze, non basta la spontaneità. Scrivere è riscrivere, un lavoro incessante di riscrittura sempre abitato da incertezze, rifacimenti, esitazioni, perdite. Qualcuno dice che va deciso quando porvi termine, non viene da sé.

Domanda:
Il “perdono” che chiedi è indizio della frattura vivere-scrivere che sembri avvertire anche tu? Quali rischi di confusione tra vita e scrittura pensi di essere riuscita a evitare? Avevi presenti pericoli su cui vegliarti o una misura cui attenerti per ottenere l’intensità del testo la cui tensione non cade mai? Quando hai capito che il testo era davvero concluso, autosufficiente?

Risposta:
Sì, qualcuno disse anche che ci si mette a scrivere quando la vita non basta. Le citazioni che nomini avvallano certamente l'ipotesi di questa frattura dal duplice volto: arricchente da un lato e 'mascherante' dall'altro. Sono d'accordo: come potrei non esserlo quando non so pensare a una sola cosa che non abbia in sé questa polarità? L'iper-narrativismo contemporaneo di cui parli esiste, come problema; come esiste il mito della funzione catartica dell'arte a prescindere, pensiero magico/infantile che, come tutti i pensieri magici, prende piede quando non si sa più che pesci pigliare. Vale per quello che ho osservato nell'ambito della salute mentale, e, più in piccolo, in quello editoriale. Certo, tutti sospettiamo che la finzione narrativa sia a volte fine a se stessa, non lasci tracce, alimenti l'egocentrismo, e i laboratori creativi siano futili surrogati narcisistici. Ma credo non sia possibile sapere in partenza che cosa si rivelerà essere fonte di un terreno più fertile del mero vuoto d'aspirazione e ispirazione, ed è quindi inevitabile che in mancanza di risposte certe sui misteri di vita e quotidiano si tenti anche questa strada. Sarebbe inevitabile anche in presenza di 'certezze', se mai si potesse dire qualcosa di simile in ambito umano. Inoltre trovo giusto ciò che dici: sono necessarie competenze, riscrittura, non basta la spontaneità. E ognuno, credo, le sceglie in modi diversi, le cerca in luoghi diversi e non esclusivi (tentativi d'apprendimento autonomi o supportati da scuola o amico in gamba che siano). Il problema secondo me risiede più nel fatto che in totale assenza di una cornice di riferimento (quale poteva essere il credo religioso), di una cosmologia ferma dentro e attorno la narrazione mobile, quei canoni di 'serietà' con cui si approcciava l'arte tendono sempre più a decadere in una indistinzione di valore. Se tutto è lecito, tutto è spiegabile, tutto in qualche modo giustificabile, il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto non hanno più ragione d'essere. E allora si potrà dire, come si dice, che non esiste un libro scritto male e uno scritto bene; cosa con cui potrei anche essere d'accordo in un tempo declinato al presente (ognuno si sintonizza su un livello pari al suo, come naturale). Ma in un tempo declinato al passato e al futuro no: in quello spazio infinito deve essere possibile seguire un criterio di buono e cattivo. E infatti lo si segue, se è vero che tutti più o meno siamo in grado di percepire che l'opera A può parlare a tanti mentre l'opera B no; tutti possiamo arrivare a comprendere, a un qualche livello, perchè un classico contenga qualcosa di universale dopo secoli, seppure magari non aderente al nostro pensiero. Per semplificare quel criterio: l'opera d'arte si riconosce perchè malgrado non ci piaccia, tuttavia ci parla. Potrebbe essere una definizione di 'classico', ma davvero solo il tempo può dire cosa lo sia.
Riguardo al rischio di confusione tra vita e scrittura che ho percepito scrivendo: se l'intento è quello diaristico, quella confusione è certo un rischio. Ma non mi sono fasciata oltre misura la testa su questo; la memoria è sempre soggettiva, anche se la si vorrebbe infallibile. Quindi ho dato per scontato che, pur volendo descrivere la realtà dei fatti, sarebbe comunque stata la realtà dei fatti visti dai miei due occhi, e non da un occhio esterno col grandangolo. Comunque un certo grado di 'romanzato' è stato da me volutamente non evitato (scusa la rima): in un diario che voglia essere letto da altri ci sono minime esigenze di struttura e compiutezza da onorare; possibili da raggiungere solo affidandosi a manipolazioni del mero ricordo (per fare un esempio: l'opportunità di arricchire un dialogo che è sì avvenuto, ma che se trascritto esattamente come ricordato potrebbe non essere comprensibile al lettore).
In ultimo: quando ho capito che il testo era davvero concluso e auto-sufficiente? Quando mi è parso (a me, all'editore, a ll'editor) sufficientemente pensabile in tutte le sue parti e contenuti che ci premeva veicolare; nonché, in quel momento e nella migliore delle mie capacità e tempi, non più stilisticamente migliorabile. Oggi, va da sé, credo che alcune cose potessero essere migliori.

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