martedì 5 novembre 2013

Attilio Mangano: FORME CONTEMPORANEE DI TOTALITARISMO





(RIPESCANDO UN MIO SCRITTO DI SETTE ANNI  FA)
FORME CONTEMPORANEE DI TOTALITARISMO



C’è una storia novecentesca, di incontro-scontro fra psicanalisi e politica, che ha inizio con un’opera di Freud destinata a essere sempre più rivalutata nel tempo, Psicologia delle masse e analisi dell’io, e prosegue con una serie di percorsi di ricerca che si intrecciano, affiancando la sinistra politica, il marxismo in modo particolare. Qui è solo possibile accennare ad alcuni passaggi: il cosiddetto freudo-marxismo degli anni trenta e quaranta, Wilhelm Reich e “La rivoluzione sessuale", ma in seguito anche Lacan, sono ad esempio, pur nella loro diversità di impostazione, il punto di avvio. Quello che si va sedimentando non è affatto un percorso unico, anzi va incontro alle sue differenze, al formarsi di scuole di pensiero, e tuttavia non esime dalla costituzione di un sottofondo, quasi una vulgata, che trova la sua sintesi provvisoria nel famoso testo di Marcuse L’uomo a una dimensione (Einaudi, 1967), uscito alla vigilia del 1968 e divenuto un classico riferimento della nascente nuova sinistra.



La convinzione che la stessa democrazia politica delle società occidentali di capitalismo maturo sia un involucro formale che occulta in qualche modo i meccanismi profondamente autoritari di formazione del consenso e di allineamento del pensiero critico alle regole della società di massa, si incontra a suo modo con la vulgata comunista del Lenin di Stato e rivoluzione (non in Marcuse, certo, che ben conosceva la falsa coscienza di quel modello, basti ricordare il suo celebre libro sul Soviet Marxism, Guanda, Parma, 1968). È la storia di un modello estremista di cultura politica che va prendendo corpo e che non dipende più nemmeno dai testi di riferimento, ma dal costituirsi di un senso comune.



C’è anche una seconda storia per certi versi affine, ma diversa nel tipo di risonanza e di implicazioni, quella della filosofa Hannah Arendt e del suo famosissimo studio su Le origini del totalitarismo (Edizioni di Comunità, 1967), col suo modello interpretativo di fondo che accomuna nazismo e stalinismo come sistemi totali. È noto che da più parti è stata sollevata l’obiezione che non era possibile accostare due regimi ideologicamente diversi, uno “di destra” e l’altro “di sinistra”, senza prendere atto che lo studio della Arendt vuole appunto dare luogo ad una teoria politica del potere totale supportata da basi sociologiche e storiche. Per questo motivo il suo lavoro costituisce un classico esempio di equilibrio fra ricerca empirica ed elaborazione di un vero e proprio modello teorico, Lo scontro politico ed interpretativo che ne è disceso, al di là degli schieramenti iniziali da “guerra fredda”, non ha impedito il riconoscimento di fondo della credibilità stessa del modello. Se è vero che nella vulgata ne è derivata la contrapposizione fra democrazia e totalitarismo è altrettanto vero che il concetto stesso di totalitarismo si è associato alla definizione coniata dalla Arendt ed che è ormai inseparabile dal modello.



C'è infine una terza storia, altrettanto meritoriamente famosa e significativa, quella dei grandi studi di Michel Foucault sul paradigma del potere, condotto a più riprese e con correzioni e apporti diversi, ma centrato essenzialmente sul nesso fra potere e "relazioni" che lo compongono, un nesso strutturato da specifici "dispositivi” (si pensi a quello famoso del "sorvegliare e punire"). Anche in questo caso occorre distinguere fra la complessità del modello foucaultiano, in cui l'autore stesso si guarda bene dalla generalizzazione teorica e si interroga di continuo, e la formazione di una vulgata in cui il potere è sempre e per definizione totalizzante e totalitario. La sintesi più significativa del foucaultismo si è venuta costituendo come individuazione di un passaggio peculiare al potere sui corpi stessi e quindi sulla vita nel suo insieme (da qui la formulazione assai famosa di "biopolitica"). Senza che si possa attribuire a Foucault stesso una definizione netta di totalitarismo (al contrario, come forse non è noto a molti, lo studioso francese se ne guarda bene) la vulgata finisce invece con l'appropriarsi della formula.



Se si tiene conto di tutti e tre questi approcci e del loro intersecarsi si può capire meglio il tipo di orientamento che lo psicanalista freudiano (di scuola lacaniana) Massimo Recalcati ha provato a elaborare con la pubblicazione del volume da lui curato, Forme contemporanee del totalitarismo (Bollati Boringhieri, 2007), un volume da lui curato raccogliendo contributi critici di autori diversi e suddividendoli in tre parti (forme contemporanee del totalitarismo la prima, più centrata su questioni di metodo e di definizione; figure contemporanee del potere la seconda, legami totalitari la terza, come a voler distinguere fra esempi forniti dall'immaginario e esempi forniti a loro volta dal tipo di legami o relazioni di potere). Si tratta al tempo stesso di un modo per antologizzare i diversi contributi e di metterli in gioco rispetto al modello teorico stesso, con una operazione non priva di cautele e di distinguo, giustamente aperta e problematica nel suo insieme. Al punto che in fondo nella parte seconda uno degli autori, Giovanni Bottiroli, che si occupa di Teoria della Letteratura e di Estetica, dopo avere ampiamente spaziato sui grovigli interpretativi del foucaltismo, si chiede apertamente se sia davvero il caso di parlare di totalitarismo e non piuttosto di una particolarissima "dittatura del quotidiano", poichè infine "la vera minaccia proviene da una quotidianità che sigilla gli individui in una condizione aporetica". Non avrebbe senso rimproverare Recalcati di avere scelto un simile titolo, che egli per primo problematizza, consapevole dei possibili dilemmi che si aprono. Fin dal titolo della sua introduzione, "Totalitarismo postideologico" vuole esplicitare l'impegno a non ricadere nel conflitto delle ideologie e nel sinistrismo a tutti i costi. Se la grande lezione freudiana è stata quella di delineare un primo e decisivo approccio al totalitarismo come "ipnosi verticale centrata sulla figura del padre totemico" e la grande lezione della Arendt è stata quella di delineare "l'ideale ideologico" come "fondamento ultimo dei regimi totalitari storicamente determinati" si tratta ormai di prendere atto del nuovo passaggio di fine millennio, una sorta di rovesciamento dell'ipnosi, fino all'irruzione di un "oggetto di godimento svincolato da ogni legame con l'Ideale".

Per questo contano forse di più per Recalcati stesso gli exempla rispetto al dilemma teorico se il totalitarismo sia "immanente" alle società cosiddette democratico-liberali. Quel che conta è sottolineare, lacanianamente con Zizek, il "potere dell'oggetto" (dell'oggetto del godimento che anima il mercato del grande Altro). E dedica poi gran parte della sua introduzione alla questione dei casi esemplari, all'igienismo contemporaneo come emergere di una questione iperdisciplinare di controllo della salute da parte del super-Io sociale, anche quando questo igienismo assume magari le forme ingenue delle varie culture New Age. Oppure alla esemplare questione della "macchina" e del suo linguaggio, ritornando al caso classico della neo-lingua orwelliana o alla macchina stessa della civiltà dello spettacolo, con la sua legge dell'applauso e dell'audience, in cui l'assenso è preliminare come meccanismo identificatorio che abolisce il dissenso. A vario titolo sono esempi di "configurazione tendenzialmente paranoica di ogni forma di potere", soffermandosi acutamente sul brillante esempio di uno studio di Franco Romanò che sottolinea come sussista uno squilibrio strutturale tra la presunzione di immortalità del potere stesso e lo stato di insicurezza che comunque lo avvolge, quella insicurezza che magari esplode in casi paradossali come le storie di amanti marginali (Rodolfo di Asburgo e Maria Vetsera) o nel timore che figure isolate e impossibilitate a reagire (da Trotzky a Ezra Pound) possano mettere in crisi il potere stesso.



Se posso permettermi di esprimere a mia volta un indice di gradimento, credo che i lavori più significativi siano quelli della studiosa di filosofia della politica (e della Arendt stessa) Simona Forti (Il grande corpo della totalità. Immagini e concetti per pensare il totalitarismo) e quello già ricordato di Giovanni Bottiroli (Non sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale dell'Iindisciplina). Il primo è una rivisitazione di grande respiro del dibattito filosofico politico con incursioni molteplici, fino a coniugare insieme la Arendt, Foucault e Claude Lefort, nessuna contrapposizione anzi solo se si leggono insieme "emergerebbe l'idea che il dominio totalitario, oscillando fra l'esaltazione della vera Umanità e la messa al bando di chi a quella non appartiene, miri a un duplice risultato, dagli esiti complementari: la produzione seriale di un materiale umano di scarto... e la realizzazione dell'ideale di una Iper-Umanità dall'altro". Ma proprio per questo sforzo di dare a Foucalt quello che gli appartiene, riconoscendone anche le contraddizioni, Bottiroli si caratterizza apertamente. Se si tratta di usare il richiamo al totalitarismo per sottolineare che la democrazia liberale è altrettanto totalitaria si va incontro ad una serie di inconvenienti per nulla secondari: è la tesi "scandalosa" (Simona Forti) del continuismo fra totalitarismo e democrazia, entrambi meri dispositivi di potere, quando invece "ciò che conta" è proprio "la diversità di funzionamento", è il paradosso dello stesso Foucault che parte dallo studio del potere come "relazione" e dei suoi "dispositivi" per poi ammettere che non si tratta di una teoria politica del potere stesso e concludere che " il potere non è omnisciente... Se abbiamo visto lo sviluppo di tanti sistemi di controllo, di tante forme di sorveglianza, è proprio perché il potere è sempre impotente". Ecco allora Bottiroli stesso che insinua che non solo "sorvegliare e punire" non è un paradigma ma siamo oggi in presenza di un vero e proprio dispositivo indisciplinare, col passaggio dai sorvegliati e puniti ai non sorvegliati e impuniti, che non è affatto un gioco di parole. Credo insomma che col passare degli anni, a differenza di quando nel 1982 Michael Walser (L'intellettuale militante, Il Mulino, 1991) accusava Foucault di sinistrismo infantile, che si contrappone a ogni forma di potere senza tener conto delle differenze tra potere democratico e potere totale, una rilettura attenta di Foucault porti più facilmente a scoprire la sua affinità con Hannah Arendt e a fare di lui un critico del totalitarismo e non della democrazia. Ma è qui appunto che la discussione dovrebbe ripartire, sbarazzandosi dei falsi continuismi e riscoprendo la dialettica fra potere e resistenza. E concluderne, con Bottiroli stesso, che "per ogni forma di pensiero legata alla relazione fra l'Uno e il Molteplice, cioè a una determinata versione della metafisica europea, esiste un preciso spazio di oscillazione e di ribaltamento, i cui confini sono determinati dalla complicità inconfessata tra gli opposti. L'Uno è necessariamente l'uno del molteplice... È questo il segreto che ogni rivolta della Moltitudine contro il Sovrano pretende di portare alla luce: la Moltitudine non differisce dal Sovrano, è sovranità che si ignora e che forse basterà portare a consapevolezza. L'onnipotenza del potere è in realtà impotenza".




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