mercoledì 1 maggio 2013

La Nausea 4: LES MOTS [Giacomo Conserva]








Molti anni dopo, occupandosi di etica, gli esistenzialisti accoppiarono l’etica dell’autenticità all’etica della ambiguità. E la cronaca della fine del soggiorno del Roquentin di Sartre a Bouville, e della ricerca di autenticità e verità che lui persegue, è assolutamente ambigua. Già la conclusione del romanzo è indecidibile; esso è presentato come un diario ritrovato fra le carte dell’autore, e scritto prima del suo ritono a Parigi nel febbraio 1932; il che lascia chiaramente aperte alcune possibilità ben differenti fra loro:
a. che l’autore, Roquentin, sia morto ignoto; che sia una qualche pietas, interesse antiquario o letterario a giustificare questa postuma pubblicazione;
b. che l’autore sia impazzito;
c. che sia morto, ma avendo lasciato dietro di sé qualche opera memorabile- tale da giustificare lo zelo delle ricerche su di lui.
L’ambiguità e l’indeterminatezza non si arrestano qui. Lo stile in cui il diario è redatto è realista, ma nasconde molteplici imprecisioni ed oscillazioni (di date, nomi, situazioni). Il Roquentin di Sartre è un narratore largamente inaffidabile, un testimone inattendibile. Il modo di narrare e descrivere è neutro, fattuale, piatto (quello che più tardi venne definito “il grado zero della scrittura)- ma con bruschi sbalzi di registro: si pensi al grottesco della scena della passeggiata domenicale, con i suoi echi chapliniani, alle ripetute invettive contro ‘la buona gente’, ‘i buoni borghesi’ (gli sporcaccioni o porci della visita al museo cittadino: ingegneri, politici, militari, magistrati, medici, industriali…); per non parlare della furia distruttrice, cataclismica, della visione della collina, in cui echi surrealisti ed espressionisti sono travolti da un puro corso di violenza; o della fantasia sullo stupro/morte della ragazzina scomparsa (narrata in un puro monologo interiore alla Joyce). E pure i vari personaggi sono tratteggiati con un massimo di precisione ed un massimo di stilizzazione, al tempo stesso del tutto evidenti e del tutto privati di un chiaro contesto di riferimento.
L’opera di Sartre fu quasi unanimemente acclamata alla sua apparizione- dopo una gestazione di anni-, nel 1938. Solo pochi dei recensori gli rimproverarono una immoralità, cinismo, nichilismo di fondo (ben più evidenti nell’opera successiva, la collezione di racconti ‘Il muro’). Dopo la guerra- dopo la comparsa de ‘L’Essere e il Nulla’ nel 1943, dopo l’ascesa di Sartre a intelletttuale dominante con la rivista ‘Les Temps Modernes’, le sue opere teatrali, saggi e conferenze, il ciclo di romanzi sulla Francia fra il 1938 e la Liberazione (‘I cammini della libertà’)- si vide in Roquentin il prototipo del ribelle esistenzialista, in lotta contro gli schemi falsi di una società classista, paternalista, ipocrita, impegnato (nel crollo dei valori tramandati) a trarre dal vuoto totale che lo circonda un senso per le proprie azioni e la propria vita.- In questo modo di vedere c’è qualcosa di vero e di falso. Il tema della rivolta individuale era comunque largamente diffuso nella cultura francese degli anni ’30 (mentre il paese per parte sua sfiorava ripetutamente una vera e propria guerra civile): ribelli di destra (come Drieu La Rochelle), ribelli di sinistra (come Nizan, amico e compagno di studi di Sartre alla Scuola Normale Superiore di Parigi), ribelli alla deriva, come l’eroe del primo romanzo di Celine, ‘Viaggio al fondo della notte’ (il cui titolo è di per sé programmatico): Bardamu si muove/ è mosso fra orrori della 1a Guerra Mondiale, imperi coloniali in Africa immersi nella brutalità e nello squallore, la civiltà massificata, meccanica e indifferente degli Stati Uniti, mesti sobborghi operai di Parigi, insensate storie di passione; e nulla viene concluso, nulla viene scoperto.- Il Roquentin di Sartre è una figura marginale e liminare: posizione sociale eccentrica, reddito modestissimo- saldamente borghese come formazione- una storia di lunghi anni di viaggio (nella diplomazia francese?) fra Marocco, Grecia, Vietnam, Cina etc. (qui viene citato- e respinto- tutto l’armamentario dell’esotismo di fine secolo/inizio secolo)- uno storico dilettante che si dedica per anni a una ricerca autonoma su un personaggio storico quasi insignificante della fine del ‘700 (un avventuriero, non casualmente)- un solitario che, dopo la fine di una storia d’amore si dedica solo (forse, bisogna aggiungere: è, come si diceva prima, inaffidabile nelle sue dichiarazioni) a squallidi incontri fisici (un puro scambio di liquidi corporei- “evacuazione di certe malinconie”, come dice lui)- con una riserva di violenza che almeno in una occasione (scontro con il sorvegliante della biblioteca pubblica) esplode apertamente con fulminea intensità- con un penchant omosessuale sotteso e costante. E, poi, il culto dell’arte: che si esprime in forme relativamente decadute nel trasporto per hit americani (‘The man I love’ di Anne Hanshaw, ‘Some of these days’ di Sophie Tucker) e sublimato nella fantasia (e progetto?) di mettersi lui stesso a scrivere una storia ‘bella e dura come l’acciaio, che faccia vergognare chi legge della propria vita’.
In Roquentin c’è molto di Sartre 1, come lui stesso ebbe a dichiarare, ma un Sartre senza la sua rete di rapporti, senza il ruolo sociale di professore di liceo, senza l’enorme cultura, senza la mostruosa attività e poliedricità (ma c’è abbastanza di lui perché, molti anni dopo, Sartre potesse scrivere di essere riuscito, creando quel personaggio/narratore, a salvare/giustificare sé stesso condannando al tempo stesso alla dannazione tutti gli altri). Sta di fatto che Roquentin, attraverso l’esperienza di disgusto/repulsione/angoscia che chiama ‘nausea’, ed il cui progresso è seguito nel diario, fa esperienza esattamente di quanto da tempo stava al centro delle preoccupazioni intellettuali di Sartre- il rapporto fra necessità e contingenza (o, detto in termini diversi, fra esistenza ed essenza/essere). Verosimilmente ci sono delle ragioni biografiche per cui Sartre, orfano di padre in piccolissima età, cresciuto in un mondo ottocentesco dai nonni e con un rapporto simbiotico con la giovane madre- interrotto durante la sua adolescenza dalle nuove nozze di lei con un direttore di fabbrica – si appassionasse a tutto ciò; come un tentativo di trovare radici da una parte qualunque, contro l’ordine sociale borghese ed i valori costituiti. E c’è un legame, forse, fra l’assenza totale del padre e la mostruosa presenza/assenza dell’Essere. I problemi del fondamento dell’esserci/ realtà umana (con il termine ‘realitè humaine’ tradusse il Dasein, ‘esser-ci’, di Heidegger), della estraneità al Tutto 2, della necessità/impossibilità di costruire una giustificazione per la propria esistenza e la propria libertà sono un costante sottofondo del suo pensiero nella sua scoperta dell’Assurdo- con un evidente parallelismo alla ricerca di Roquentin. Solo che, di base, questi temi Sartre li elabora; mentre Roquentin li sperimenta, e ne è quasi travolto (o travolto interamente, nel dopo-romanzo): differenza sostanziale. Naturalmente si può anche dire qualcosa a favore della esperienza diretta: l’elaborazione può essere anche una eccessiva presa di distanza (Sartre stesso parlò, a proposito di sé, di ‘nevrosi della scrittura’); con un eccesso di autocritica forse (anche l’autocritica continua può far parte del quadro).






Il lavoro attorno al libro che sarebbe diventato “La nausea” durò quasi dieci anni, passando attraverso diverse scritture e, alla fine, una serie di tagli chiesti dall’editore. Ebbe quattro diversi titoli:
‘Rapporto sulla contingenza’, non pervenuto: astratto, schematico e allegorico, al pari di altre composizioni giovanili di Sartre, che anche su consiglio di Simone de Beauvoir dilatò la narrazione, e diede molto maggior sviluppo ai personaggi e alla trama.
‘Malinconia’, titolo modellato sulla celebre incisione di Dürer (con evidente connessione con la fase di sconvolgimento attraversata dallo stesso Sartre; questo titolo venne mantenuto a lungo, ma quando si strinsero le trattative per la pubblicazione con la prestigiosa casa editrice Gallimard gli venne chiesto di cambiarlo (non sembrava abbastanza di richiamo per il pubblico).
Sartre propose a quel punto ‘Le avventure straordinarie di Antoine Roquentin’ (con una fascetta recante la scritta sarcastica ‘Non ci sono avventure’).
Lo stesso editore, Gaston Gallimard, propose ‘La nausea’- il titolo che è entrato, si può dire, nella storia.

Come si è visto, il punto di partenza fu costituito da una indagine semifilosofica sul tema dei rapporti fra contingenza e necessità, essenza ed esistenza, che da tempo era al centro delll’interesse di Sartre. Nella versione finale vi è una specie di detective story (Roquentin cerca di scoprire il significato dell’esistenza), che si sviluppa tramite la minuziosa osservazione e registrazione della sua esperienza e delle cose, e passa attraverso una serie ben precisa di luoghi fisici e di incontri con persone, il tutto temporalmente scandito e definito. Uno spazio a parte è costituito dal montare/scendere dell’angoscia: se nausea vuole dire ansia, non si tratta di un’esperienza lineare, ripetitiva, puntiforme; non è un DAP; non è nemmeno solo un ripetersi di momenti di depersonalizzazione/ derealizzazione. -Vi sono degli agiti: agiti reali, come quando si pianta un coltello nella mano; agiti desiderati- quando va vicinissimo a accoltellare al volto il suo compagno di pranzo, l’Autodidatta; agiti fantasticati- la lunga fantasia sullo stupro e uccisione della bambina scomparsa; agiti messi in atto per una buona causa- come quando si scatena contro l’odioso sorvegliante della biblioteca pubblica. Vi sono significative allusioni e fantasmi omosessuali. Vi è un alone di ostilità totale contro i borghesi, i ‘buoni cittadini’, le persone ‘regolari’: infine, tutti. Quanto alla natura, è qualcosa di pullulante, ossessionante e aliena. Non si sa nulla della sua famiglia, e molto poco dei suoi studi passati o del lavoro che ha svolto. I rapporti sessuali sono descritti con una gelida, impersonale lussuria. I discorsi sulla cultura, il progresso, la solidarietà umana, destano la sua indifferenza e/o la sua rabbia. I rapporti d’amore in senso stretto sono scomparsi dalla sua vita.-Praticamente, niente e nessuno si salva. E, tornando alla psicopatologia, vi è qualcosa che va molto vicino alle intuizioni deliranti e alle allucinazioni vere e proprie: “l’estasi orribile del giardino”, o la visione dall’alto della collina della mostruosa catastrofe che sta per abbattersi su Bouville.
Tutto questo non è stabile: va e viene; non è solo un processo automatico, ma uno sviluppo della sua personalità, della sua storia passata, degli eventi che innesca o in cui gli capita di essere coinvolto. Per certi aspetti è vicino ad un processo semipsicotico, con lo stato d’animo delirante, la stranezza del mondo, l’attesa di una trasformazione/rivelazione totale. Ma da una parte bisogna notare che la coerenza del linguaggio, il fluire del corso del pensiero non rimane sostanzialmente mai intaccato. E, d’altra parte, bisogna pure sapere che la destrutturazione di uno stato di coscienza normale può permettere a contenuti molto significativi di emergere e di affermarsi. ‘E solo l’evoluzione ulteriore, la capacità individuale (e sociale) di integrarli o meno, che decide a volte se si ha a che fare con un episodio psicotico o con un breakthrough concettuale o una rivelazione.
Roquentin, a ogni modo, riesce a preservarsi, nella sua terra di nessuno. Esule volontario, emigrato interno, soggetto di un esperimento da laboratorio di isolamento sensoriale, sa non ostante tutto galleggiare, non affondare nel mare le cui orribili profondità lo ossessionano, riesce ad avere una eperienza trascendentale (come la chiamava Laing) di quasi-puro-orrore e a scriverla; riesce infine, non ostante tutto, a formulare un progetto (tornare a Parigi; scrivere- forse- un romanzo). Il problema non è cosa succederà dopo (l’esito non è mai garantito; il cammino dell’arte pura è lastricato di sconfitta, dolore, menzogna; e sappiamo fin dall’inizio che l’autore del manoscritto è forse morto o impazzito); questa malinconia, bile nera, delectatio morosa, inverno che non finisce mai, si è comunque tradotta in un’opera. Anche l’arte non dà salvezza, redenzione o giustificazione per sempre; è un miracolo, forse, ma piccolo e limitato. Non ha nemmeno luogo, probabilmente, in una sfera superiore dell’essere, trascendente rispetto alle miserie terrene. Scrivere era però quello che Sartre sapeva meglio fare; e identificarsi con lui e imparare da lui è servito a tanti per dare- sempre in modo ambiguo- una direzione e una prospettiva alla loro sete di vita.





1 Quasi vent’anni dopo, ne ‘Le parole’, così riassume sé stesso bambino: “Un parassita stupefatto, senza fede, senza legge, senza ragione né obiettivo, fuggivo nella commedia famigliare, girando, correndo, volando di impostura in impostura”.


“…l’essere-in-sè è. Il che significa che l’essere non può né essere derivato dal possibile, né essere ricondotto al necessario. La necessità concerne il legame delle proposizioni ideali,- non quella degli esistenti. Un esistente fenomenico, in quanto esistente, non può mai essere derivato da un altro esistente. ‘E ciò che chiamiamo la contingenza dell’essere-in-sé. Ma l’essere-in-sé non può neppure essere derivato da un possibile. Il possibile è una struttura del per-sé, appartiene all’altra zona dell’essere. L’essere-in-sé non è mai possibile né impossibile, è. La coscienza esprimerà ciò- in termini antropomorfici- dicendo che esso è di troppo, cioè che non è in grado assolutamente di derivarlo da niente, né da un altro essere, né da un possibile, né da una legge necessaria. Increato, senza ragion d’essere, senza rapporto alcuno con un altro essere, l’essere-in-sé è di troppo per l’eternità”. [EN, pag. 33]

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