mercoledì 17 aprile 2013

Ennio Abate: 'L'albero' [ da "La pòlis che non c'è", ediz. CFR 2013, premio Fortini 2012/ John Keats ]






L’albero



Non fate morire quell’albero gramo
che nella mente matura ribelli semi vermigli.
Ambascia ci porta, ma insieme pensieri
tolti alla morte. E carezze al futuro.

L’ombra di lui mitoleggia nel tutto del mondo
e palpita in brio in brina al buio, fra lugubri tonfi d’eventi.
O sta nel bianco solitario slimitato potato dal logico gioco.

La sua radice non dice più a che ramo conduce
ma, solo per lui, puliti miti oscuri nostri gemelli
ancora vanno, operosi su incerti sentieri;
e accendono luci tutto tatto nelle celle cupe della sera
dove ondula, austera, minacciosa, la biblica mela.

Lo scriba, arrestato da immoti dolosi discorsi
descrive a stento un suo calco, che subito stinge.

L’albero gli sfugge in traballanti visioni
freme negli scarabocchi, sviene in canti alti;
né nenia l’intrattiene. Per terra finito,
sotterra, lui pure interrato, sotto messo
da morte, atterrito, vien dato da molti,
che volentieri o furenti colmano per finta
la poderosa fossa da lui ereditata
di gioie più prossime, minuscoli affetti
e stenti sentimenti senza sementi.

Ma l’albero svetta là, sulla strada dimenticata.
Orrido non è. Alle belle onde non cede.
Non gocciola spiccioli d’imposti doveri.
Dà dolore vero. Poiché innalza il conflitto
sconfitto, scorcia il nostro sgomento
e fermo a quello lo ritorce.

(2002)










La pòlis che non c’è di Ennio Abate sembra partire proprio da questo presupposto: ossia la necessità di «[ri-]raccontare altrimenti gli avvenimenti fondatori» dell’odierna società italiana, intrecciando vicende personali e storia collettiva, in un groviglio mai districabile.

Le date entro cui sono state stati scritti questi straccetti rovelli artigliate sono quanto mai esemplificative: 2012, cioè l’oggi, per quanto concerne il termine ultimo; il 1978, naturalmente scelto «per ragioni non solo biografiche» (dalla Nota dell’Autore), il punto di partenza. È nel ’78 del resto che il Rapimento di Aldo Moro dà avvio da un lato alla marginalizzazione delle voci critiche (già il 16 marzo, scrive Abate, «noi zitti in piazza / mentre De Carlini vaneggia / infilando in trinità / Matteotti Togliatti e Moro») e alla correlata speranza di riscatto sociale degli ultimi, e dall’altro all’istituzione, nei suoi tratti fondamentali, di un nuovo stato repubblicano italiano: «a milioni siamo condotti all’ovvio repubblicano / a contemplare il miracolo / detto “straordinario sussulto democratico” che / BR permettendo / salderebbe “Paese reale e Paese legale”». Sicché il 1978 diventa l’anno fondatore, e il rapimento Moro l’evento in seguito al quale lo stato dei vincitori, quelli che partecipano «al saccheggio della ricchezza esistente» (Oh, che bel rifiuto del lavoro Madame Dorè!), si impone, appianando le contraddizioni in una tonda, ovattata e morbida armonia sociale e culturale.

Sia detto subito. Quella di Ennio Abate non è una poesia impegnata, se per “impegno” intendiamo una presa di posizione ideologica facilmente codificabile con formule a portata di mano (lo stesso autore avverte che queste «non sono poesie che mi sento di definire, come si suol dire, civile o politiche», Nota dell’Autore); e non lo è nemmeno se si cerca in essa la difesa “degli umili e degli oppressi”, secondo una retorica che vorrebbe far raccontare la storia non più solo con il sangue dei vinti, ma anche con le loro parole. Nulla di tutto questo. Quella di Abate è una poesia impegnata, e aggiungerei “politica e civile”, perché riflette e punta l’indice sui nodi irrisolti, che non riguardano solo chi è più in basso (semmai costoro sono coloro che pagano di più), ma il concetto di stesso di comunità e di identità collettiva: la pòlis appunto. [Massimiliano Tortora- dalla presentazione del libro]







una cosa bella è una gioia per sempre
(KEATS)


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