domenica 27 gennaio 2013

Aaron e Bartleby [pubblicata da Franco Berardi il giorno Sabato 26 gennaio 2013 alle ore 21.21]








https://www.facebook.com/notes/franco-berardi/aaron-e-bartleby/10151276474750369


Non ho mai conosciuto personalmente Aaron Swartz, e non posso interpretare il suo suicidio, perché quella scelta non è mai effetto di una singola causa ed è comunque impossibile da “spiegare”.

Eppure.
Eppure io so qualcosa su quel che l’ha spinto a fare quello che ha fatto.
Aaron era un programmatore, creatore del formato RSS, e anche scrittore, attivista e ricercatore. Recentemente ha svolto un ruolo centrale nella campagna SOPA (Stop online piracy act) che si è conclusa con un successo e ha impedito una limitazione dei diritti della rete. Era conosciuto dai suoi amici, ma anche dall’FBI per aver scaricato grandi quantità di dati per usarli nella sua ricerca e per rendere pubblici documenti soggetti a proprietà privata. Nel 2008 Swartz aveva scaricato e messo a disposizione di tutti circa il 20% del database Public Access to Court Electronic Records (PACER) gestiti dall’Administrative Office degli Stati Uniti.
Inoltre, secondo le autorità federali Swartz aveva messo in rete gratuitamente un gran numero di articoli accademici dato che come ricercatore disponeva di un account JSTOR.
JSTOR è un archivio digitale, e come altri database accademici rende disponibile testi a pagamento. Ogni articolo costa tra 19 e 39 dollari. Inoltre JSTOR accetta sottoscrizioni solo da istituzioni, il che significa che uno studioso indipendente o un ricercatore senza affiliazione istituzionale o un ricercatore precario non può accedervi.
Come spiega Ana Texeira Pinto (In memory of Aaron Swartz, e-flux journal 01/2013) si tratta di una forma di privatizzazione della conoscenza e di sfruttamento del lavoro precario cognitivo: né gli autori né i recensori di questi articoli sono pagati, i testi sono finanziati da fondi pubblici oppure sono prodotto di lavoro volontario.
Il 6 gennaio del 2011 Aaron era stato arrestato vicino al campus di Harvard da due guardie private del MIT e da un agente segreto, con l’accusa di essersi introdotto nell’edificio con l’intenzione di commettere un crimine. Secondo il Pubblico Ministero Carmen Ortiz zelante persecutrice di Aaron “se condannato per queste accuse Swartz potrebbe dover affrontare fino a 35 anni di prigione, più tre anni di domicilio coatto , più una multa di circa un milione di dollari.”
Io non so perché Aaron abbia deciso di fare quello che ha fatto l’11 gennaio del 2013, ma so che stava subendo una persecuzione per aver fatto quel che dovremmo fare ogni giorno: restituire alla comunità dei lavoratori cognitivi quel che le compagnie private hanno rubato. Aaron ha agito secondo un principio largamente condiviso: le leggi di proprietà sono illegittime nel campo della conoscenza, e la nuova realtà della produzione digitale è incompatibile con la privatizzazione.

Ciò detto, penso di non avere ancora detto nulla sul punto cruciale. Coloro che hanno perseguitato Aaron in nome dei profitti privati, coloro che lo hanno minacciato di prigione e multe milionarie, dicono che si è ucciso perché era vittima della depressione.
Per quanto ciò suoni falso in bocca a costoro, è vero che Aaron soffriva di depressione.
Lo stesso giorno in cui ho ricevuto la notizia della morte di Aaron ho ricevuto anche una chiamata da un amico che era sconvolto dal suicidio di un giovane amico della figlia, un ragazzo di ventidue anni da tempo considerato affetto da depressione e crisi di panico.
Il suicidio è diventato la principale questione culturale e politica della generazione precaria.
Anche Muhamed Barghouzy era depresso, quando decise di uccidersi perché non poteva andare all’università ed era povero e disoccupato e la polizia tunisina gli impediva di vendere frutta sulla pubblica via. Aaron Swartz non era povero come Muhammed Barghouzi, ma condivideva lo stesso sentimento di solitudine e precarietà.
La depressione ha qualcosa a che vedere con la povertà la disoccupazione e la disperazione e molto a che vedere con il rifiuto di sopportare il peso intollerabile della violenza.
Tutti i discorso politico sulla democrazia e sui meravigliosi orizzonti delle nuove tecnologie sono merda, se non teniamo conto della solitudine contemporanea, effetto principale del processo di virtualizzazione nelle condizioni presenti di competizione economica.
La depressione è profondamente iscritta negli intimi recessi digitali della vita precaria, e il suicidio di Aaron Swartz mette in questione la forma presente di alienazione digitale: irrealizzazione e solitudine fisica. La rete è un territorio in costante espansione che produce costante eccitazione senza ritorno affettivo, senza singolarità dell’incontro, senza corporeità. Gesti parole e click codificati prendono il posto dell’amicizia e questa non significa più nulla se non un automatismo informatico.
Secondo il World Health Organization negli ultimi decenni il tasso di suicidio è aumentato del 60% nel mondo. Suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani di 15-19 anni, e questi dati non includono i tentativi di suicidio che sono venti volte più numerosi dei suicidi riusciti.
Io credo che il suicidio sia il fenomeno cruciale dei nostri tempi, ma la mia attenzione non si concentra sull’aumento impressionante di persone che si uccidono, ma sul significato particolare che questo atto acquista a livello sociale e culturale. Un sentimento mortifero permea l’inconscio collettivo, la cultura e la sensibilità della generazione precaria. C’è una via d’uscita da questa sindrome suicidaria che ogni giorno uccide nella fabbriche cinesi nelle aree rurali dell’India, tra i giovani islamisti e tra i lavoratori cognitivi precari?
Se c’è sta nella creazione di luoghi in cui l’amicizia è incontro di corpi che parlano e di parole che hanno un corpo.

A Bologna la polizia è intervenuta qualche giorno fa per sgomberare Bartleby, che era nata e viveva come luogo in cui i corpi si parlano e in cui le parole hanno un corpo. Una sessantina di tristi accademici di quella triste città hanno sottoscritto un triste documento in cui si ripetono tristi banalità, per giustificare lo sgombero di un luogo in cui si produceva cultura e si respirava amicizia. Non mette conto di occuparsi di ciò che dice il rettore Dionigi e un manipolo di docenti la cui irrilevanza intellettuale gareggia solo con l’ipocrisia.Sono gli stessi che qualche mese fa hanno consegnato una laurea honoris causa all'ex presidente della Banca Centrale Europea, jean Claude Trichet, che passerà alla storia come responsabile di un fallimento che sta pagando la società europea. Lasciamoli perdere.
E’ più utile occupare un altro posto nel quale i corpi e le parole possano incontrarsi. Come d’altronde è già accaduto, sabato 16 gennaio, vero le cinque e mezza.






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