domenica 22 aprile 2012

Magda Guia Cervesato/ "TSO – Un’esperienza in reparto psichiatria" [edizioni Sensibili alla foglie, 2012]: 'lunedì 25 maggio'


VIAGGIO NELLA VERTIGINE:   è un libro toccante, sconvolgente, pieno di speranza. di come la human form divine- l'umana forma divina- riesce a attraversare spazi di orrore esterno e/o interno, e a raccontarne la storia. ci vuole molto coraggio per scrivere queste cose. non è la sola a avere narrato tutto questo [si veda p.e il 'survivors history group' inglese
( http://studymore.org.uk/mpu.htm ), o la introduzione di Gregory Bateson a 'Perceval's narrative' - 'Perceval. Un paziente narra la propria psicosi, 1830-1832', a c. di P. Bertrando, Bollati Boringhieri 2005 
( e v. http://archive.org/details/percevalsnarrati007726mbp, INTERNET ARCHIVE, dalla edizione del '61)] ma il suo libro ha una carattere di forza estrema. Un po' come le lunghe pagine dedicate a una clinica psichiatrica di Mosca da V. Makanin nelle 600 pagine del suo capolavoro: 'Underground- un'eroe dei nostri tempi', del 1997. (Hegel parlava della capacità di 'tenere fermo il negativo', di guardarlo in faccia...)  GC


Lunedì 25 maggio
L’orologio bianco da parete segna le 11. Molle e pastosa come crema esondata da un pasticcino raffermo, realizzo lentamente di essere in posizione seduta. Sopra qualcosa di freddo e liscio come la pelle finta. O quella vera defunta. Intorno a me un salone, file di poltrone allineate su due pareti opposte, un tavolino quadrato al centro e un mastodontico televisore nero sospeso nell’angolo, in alto a sinistra. È strano avere un ricordo quando quello precedente non esiste: è come se mi avessero calata qui con la gru, o fossi planata su questa sedia grazie a un tornado.
Gli occhi, qualsiasi cosa li governi, mettono piano piano a fuoco l’ambiente: pare proprio la stanza in cui mi hanno “invitato” a dormire quella prima notte dopo il ricovero. Lì al centro, dove ora sta il tavolo quadrato, c’era il mio letto. Strano…
Ma perché mi hanno fatto dormire in questo salone, piazzandoci una branda sbarrata in mezzo? Forse non c’erano posti liberi nelle camere. Oppure… oppure… avevo ragione: ero davvero sotto osservazione, pesciolino pallido d’ acquario!
Un’anziana signora seduta su una poltrona accanto mi rivolge la parola distraendomi da pensieri acquosi e diradando la nebbiolina di vapore che mi avvolge.
“E tu, quanti TS hai?”.
Mi volto verso destra. “Quanti cosa?”.
“Tentati Suicidi, no? Lui ne ha cinque”. Mi indica un ragazzo di colore accasciato due poltrone più in là: ascolta musica con piccoli auricolari scuri che gli sbucano dalle orecchie. Non pare interessato alla nostra conversazione.
Osservo la sedia di pelle su cui siedo: imbruttita da anni di soggiorno in quella sala fumosa, imbrattata da residui di bevande sgocciolate da migliaia di bicchieri in bilico tra dita incerte, trivellata di forellini circolari, tutti dello stesso perfetto inconfondibile diametro a sigaretta: le poche cicatrici visibili in questo reparto d’ospedale. Le altre sono nascoste dentro i corpi che mi attorniano, coreografati in uno spettacolo monotono e incolore i cui protagonisti sono tremolii delle membra, azioni ripetitive, canti sguaiati, urla piatte. Se questo fosse un set cinematografico, sarebbero involontarie comparse sullo sfondo di attori protagonisti scordatisi di comparire.
Torno con la memoria a quella prima notte, e realizzo davvero – meglio tardi che mai! – che il teatro cui assisto e partecipo si chiama manicomio. Un manicomio dentro l’ospedale “normale”. Domande ordinariamente insensate rotolano giù dalla mia incoscienza zigzagando per un ignoto canalone, come slavine di neve fresca liberatesi della gravità che le incolla al loro dirupo grazie a un brusco raggio di sole. Che giorno è? Chi mi ci ha messo su questa poltrona stamattina? Quanto tempo ho dormito da quando sto qui? E soprattutto: perché sono qui? Mi si avvicina una ragazza. La chiamerò Fata Bionda. Rompe il ghiaccio con la solita domanda: “Ciao, sei un nuovo TS?”. Ancora? Questa volta rispondo per le rime: “Ma no figurati, nessun tentato suicidio! Non mi sono sentita bene sabato, tutto lì”. Provo irritazione, dietro al mio sorriso accennato.
“TS = Trattamento Sanitario. Volontario o Obbligatorio?” insiste, tra l’enfatico e il noncurante.
Le rivolgo un interminabile sguardo smarrito, e lei intuisce di essere di fronte a una nuova leva, e non una delle più aggiornate. La ragazza si lancia in un’eccitata lectio magistralis sulla “cura” dell’emergenza mentale in Italia. Il succo? Siamo tutti TS qua dentro. Volontari… Obbligati… tanto i Volontari, se rompono troppo le scatole, diventano Obbligati… “Sottigliezze” conclude.
Mi alzo di colpo e mi gira la testa. Tento la fuga da quei concetti ignoti. E dalle implicazioni che vanno materializzandosi nella mia zucca incredula. Placco la prima infermiera di passaggio e grido: “Voglio il mio cellulare!”. Ma quella mi ride in faccia e “consiglia” perentoria di usare il telefono a gettoni appeso al muro in mensa. “Allora mia dia il portafoglio! Dov’è? Mi servono le monete!”.
“La Sua borsa e gli effetti personali con cui è entrata sono sotto chiave nei nostri armadi fino alle Sue dimissioni: regola di reparto.”
Mi metto a caccia di forme più gentili di protesta, ma prima di riuscire a formulare una qualsivoglia intelligente supplica, l’infermiera gira gli zoccoli e se ne va.
Non mi resta che tornare alla sala comune. Mi guardo intorno, investita da un tir di rinnovate certezze: questo posto avrò modo di conoscerlo a fondo. Varcando nuovamente l’uscio del salone, ho la sensazione di entrare in una navicella spaziale abitata da pseudoumani: più che pazienti di un Trattamento Sanitario, sembriamo cosmonauti in debito d’ossigeno sperduti intorno all’orbita di una Terra Sospesa. Un vuoto compresso sospeso a mezz’aria in cui galleggiamo ciondolanti e barcollanti. Corpi senza forza, menti senza scelta. Dall’episodio del telefono mastico l’amaro sentore che, intorno a questa Terra, l’espropriazione di cellulari e borsette sia solo l’aperitivo di un luculliano pasto indigesto. Mi sa che, tra i Sospesi, ci saranno anche i nostri diritti. Rimandati, come noi, a data da destinarsi.

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