lunedì 30 gennaio 2012

"A proposito della chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario: le buone intenzioni di una legge “pericolosa” " [LETTERA/ APPELLO]


I fatti sono noti: negli ultimi due anni, anche a seguito di una condanna espressa dal Consiglio d’Europa, la Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, ha condotto un’indagine sui 6 Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) a tuttora aperti nel nostro paese, in cui sono internate circa 1400 persone.[1] L’indagine ha documentato, svelando ai mass media e alle istituzioni tutte, la realtà inaccettabile di questi istituti: le spaventose condizioni logistiche e organizzative, i trattamenti disumani, le morti frequenti, gli abusi riguardo alla durata dell’internamento. Questa azione, altamente meritoria, della Commissione, rischia ora di trovare un esito che non può che destare profonde preoccupazioni.
Due giorni fa, il 25 gennaio, il Senato ha approvato un emendamento, incluso nel cosiddetto “Decreto svuota carceri”, in cui si indicano “disposizioni per il definitivo superamento degli Opg”. In sintesi, l’emendamento prevede che, a decorrere dal 31 marzo 2013, le misure di sicurezza del ricovero in Opg siano eseguite esclusivamente all’interno di strutture sanitarie i cui requisiti – strutturali, tecnologici e organizzativi – saranno stabiliti entro il 31 marzo 2012, da un ulteriore Decreto definito di concerto tra il Ministro della salute, il Ministro della giustizia e la Conferenza permanente stato-regioni. Tali strutture, destinate di norma a soggetti provenienti dal territorio regionale in cui sono ubicate, dovranno essere a esclusiva gestione sanitaria, prevedendo eventualmente, in rapporto della tipologia degli internati, un’attività perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna.
L’emendamento approvato esplicita, doverosamente, che “le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul territorio, dai Dipartimenti di salute mentale”. Per la realizzazione delle strutture residenziali si prevede di stanziare un finanziamento di 120 milioni di euro per l’anno 2012, e di 60 milioni di euro per l’anno 2013. Inoltre, per concorrere alla copertura degli oneri di esercizio delle residenze psichiatriche in oggetto, si prevede la spesa di 38 milioni di euro per il 2012, e di 55 milioni di euro annui a decorrere dal 2013.
Al di là delle dichiarazioni di “definitivo superamento degli Opg” e “destinazione a strutture puramente sanitarie”, che suonano straordinariamente positive, si rilevano una serie di aporie e nodi che non vengono sciolti. Proviamo a elencarli.  
1) La nuova legislazione non tocca minimamente gli articoli dei Codici – penale e di procedura penale – riferiti ai concetti di pericolosità sociale del folle reo, di incapacità e di non imputabilità, che determinano il percorso di invio agli Opg, e quindi, d’ora in poi, l’invio alle nuove “residenze psichiatriche”. Residenze non meglio qualificate, il cui numero verrà stabilito dalle Regioni (sulla base di quali criteri?), le cui caratteristiche saranno decise da un Decreto ancora da elaborare, ma le cui finalità restano integralmente quelle proprie della gestione di una misura di sicurezza detentiva.
2) È fin troppo facile prevedere la moltiplicazione di queste residenze, ciascuna delle quali doveva essere inizialmente dotata di 20 posti letto: numero poi scomparso, in sede di definitiva approvazione del Decreto in aula. Le deplorevoli condizioni dei manicomi giudiziari, la crisi molto esplicita dei concetti di “non imputabilità” e di “pericolosità sociale” nel dibattito culturale e scientifico, hanno certamente contribuito, negli ultimi anni, a una notevole cautela nell’invio dei pazienti agli Opg da parte di numerosi magistrati. L’allestimento di “nuove residenze psichiatriche”, che si potranno supporre più appropriate sotto il profilo logistico, e più assistite sotto il profilo sanitario, legittimerà le varie istanze sanitarie e giudiziarie ad abbassare la soglia di accesso ai nuovi surrogati degli Opg. E mentre è facile prevedere un notevole aumento del numero degli internamenti, nulla garantisce che l’abnorme sistema di proroghe delle misure di sicurezza, attualmente utilizzato, venga a cessare.
3) La condizione in cui versa la gran parte dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e cura nel nostro paese, spesso a porte chiuse, con sistemi di videosorveglianza, con l’estesissimo utilizzo di mezzi di contenzione fisica per soggetti che nessun reato hanno commesso, lascia facilmente intravedere quali saranno le reali strutturazioni delle nuove residenze psichiatriche per soggetti che hanno commesso reati, considerati in sentenza “socialmente pericolosi a sé e agli altri”.
4) Rinnovare con una legge, nel 2012, la legittimità del concetto di “pericolosità sociale” collegato all’infermità mentale (concetto ormai considerato, da giuristi e psichiatri, privo di qualsiasi base scientifica ed empirica), e della nozione di “totale incapacità di intendere e di volere”, pur essa fortemente criticata da più parti negli ultimi decenni, significa assumersi la grave responsabilità di contrasto allo spirito e alla lettera della Legge 180/78, che ha abolito il nesso “malattia mentale - pericolosità sociale”, sostenendo con forza la responsabilità e i diritti di ogni cittadino, tra cui il diritto di ciascuno di essere giudicato e – se reo – condannato.
5) La proliferazione di residenze ad alta sorveglianza, dichiaratamente sanitarie, riconsegna agli psichiatri la responsabilità della custodia, ricostruendo in concreto il nesso cura-custodia, e quindi responsabilità penale del curante-custode.
6) Si continua a non stabilire garanzia alcuna per l’internato, a differenza del regime carcerario, in cui quantomeno una serie di garanzie per i detenuti – in primis la certezza di fine pena – esistono in misura molto articolata. In altre parole, si rifondano nel 2012 misure specifiche per i “folli rei”: da un lato si ribadisce un nesso inaccettabile, riproponendo uno stigma di carattere generale; dall’altro ci si collega a sistemi di sorveglianza e gestione esclusiva da parte degli psichiatri, ricostituendo in queste strutture tutte le caratteristiche dei manicomi.
7) Infine si osserva, marginalmente, l’inconsistenza dell’ipotesi di spesa, nel corso del 2012, di 120 milioni di euro per la creazione di nuove strutture. Neppure con procedure di straordinaria emergenza, tempi di questo genere sono plausibili per il nostro paese; è quindi evidente che si assisterà a una proliferazione di offerta da parte di strutture private, pronte o rapidamente allertate ai fini previsti dalla Legge. Sarà allora meglio destinare quei 120 milioni a più utili fini, a favore dei Dipartimenti di salute mentale perché attivino e migliorino servizi e opportunità per tutte le persone di quel territorio che necessitano di cure, comprese quelle che proverranno dagli Opg o per le quali si mettono in atto programmi per l’esecuzione della misura di sicurezza detentiva. A questo proposito la non modifica dei Codici, là dove prevedono la misura di sicurezza in Opg, solleverà non pochi problemi interpretativi.

In definitiva, il nostro giudizio sull’affrettato dispositivo legislativo resta di grande allarme. Al di là delle buone intenzioni del legislatore, l’emendamento votato in Senato configura un attacco formidabile alla Legge 180, con il rischio di una prosecuzione sine die – e in dimensioni non prevedibili – dell’istituto della misura di sicurezza. Istituto introdotto nella nostra legislazione in piena epoca fascista, e della cui persistenza nei nostri Codici non si sente assolutamente il bisogno.
Proponiamo quindi, come ancora più impellente, una modifica legislativa che aggredendo il nocciolo delle questioni (Art. 88 del Codice penale, codice Rocco e tutta la legislazione collegata), abroghi definitivamente e davvero il manicomio giudiziario, abrogando le leggi che ne determinano, sotto qualsiasi nuova veste, la persistenza in vita. Si tratta di smontare i concetti di “pericolosità” e di “non imputabilità”, il doppio binario delle misure di sicurezza, restituendo al generale ordinamento penale le persone con disturbo mentale. Di fronte alla giustizia non deve più esistere il “folle reo”, ma solo un reo che, se infermo di mente, incontrerà misure alternative in sede di esecuzione della pena: misure già ampiamente previste dalla legislazione vigente di fronte a diverse infermità, e forse da ulteriormente precisare nella fattispecie dell’infermità mentale. [2]


Resta l’auspicio che la Camera dei deputati possa intervenire a modificare il testo del Senato, evitando la riproposizione di strutture deputate al mero scopo di custodire i “folli rei”, valorizzando invece i servizi dei Dipartimenti di salute mentale, che potrebbero e dovrebbero essere potenziati anche al fine di prendere in carico le persone attualmente inviate in Opg.
In quest’ottica proponiamo che, se la Camera dei deputati dovesse invece approvare il testo già passato al Senato, il Ministero della sanità venga almeno impegnato dal Parlamento a erogare immediatamente alle Regioni i finanziamenti, previsti per l’esercizio dell’attività, di 38 milioni per il 2012 e di 55 milioni per il 2013, allo scopo di finanziare progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati (PTRI)[3] a favore degli attuali internati negli Opg. Utilizzando questi budget individualizzati di cura, i Dipartimenti di salute mentale di origine potranno (dovranno) prendere in carico, attraverso le strutture e i servizi già oggi presenti e disponibili, i soggetti da dimettere dagli Opg, stabilendo criteri, vincoli e tempistiche certe, di concerto con le Regioni.
Questi due provvedimenti – uno legislativo, di abrogazione, e uno amministrativo, di allocazione di risorse finalizzate, personalizzate attraverso il budget di cura – già costituivano la strada maestra da seguire. Si è invece scelto un pericoloso ibrido che, qualora confermato, richiederà di vigilare a ogni livello per ridurre il numero delle nuove strutture istituite, le loro caratteristiche custodialistiche, l’abuso del loro utilizzo.
Continuiamo a sperare di meglio dal Parlamento.
     
Trieste, 27 gennaio 2012



Franco Rotelli, Giovanna Gallio, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Del Giudice, Luciano Carrino, Mario Novello, Ota De Leonardis, Giorgio Bignami, Ernesto Venturini, Alberta Basaglia, Silvia Jop, Angelo Righetti, Chiara Strutti, Carmen Roll, Diana Mauri, Carlo F. Rotelli, Iris Caffelli, Elisa Roson , Giacomo Conserva

 



[1] Cfr. “Relazione sulle condizioni di vita e di cura all'interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”,
Relatori sen. Michele Saccomanno e sen. Daniele Bosone, approvata dalla Commissione nella seduta del 20 luglio 2011 (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/612130.pdf)
[2] Nessuno ha mai immaginato di costituire strutture deputate ai “diabetici rei”, o ai “cardiopatici rei”. L’essenza del problema di cui stiamo parlando deriva dalla persistenza di un pregiudizio ideologico, del tutto infondato, che collega l’infermità mentale alla probabilità più elevata di commissione di reati, quindi di pericolosità, quindi di rapporti di causa-effetto tra malattia mentale e reato. Se può essere vero che la malattia mentale può in certi casi ridurre la capacità di discernere e/o di volere delle persone, quel che rileva è che, dovendo lo Stato giudicare i fatti e non le persone, il numero di reati commessi da persone inferme di mente è bassissimo rispetto al numero di reati compiuti in generale, e rispetto all’elevato numero di persone affette da malattia mentale (1% secondo i dati dell’OMS, e quindi circa 600.000 in Italia). Ne deriva il non senso del nesso “folle-reo”, e di tutte le misure che su questo binomio del tutto ideologico si fondano.
[3] Il progetto terapeutico/riabilitativo personalizzato (PTRI), sostenuto da risorse economiche dedicate (budget di salute), è lo strumento fondamentale per affermare la centralità della persona e dei suoi bisogni e per garantire la continuità delle cure. Attraverso la metodologia PTRI si attivano procedure e risorse per l’identificazione delle azioni congiunte, dei costi presunti e degli obiettivi, in un’ottica di forte personalizzazione degli interventi, che necessitano di un monitoraggio delle risorse in campo e di una ottimizzazione qualitativa degli interventi in atto. Il PTRI è uno strumento che promuove percorsi abilitativi/riabilitativi individualizzati per persone che richiedono  prestazioni socio-sanitarie a elevata integrazione sanitaria. L’obiettivo è centrare la rete dei servizi socio-sanitari, coordinati dal Dsm, sul benessere e sulla qualità della vita delle persone e su interventi e azioni d’intensità variabile in ragione dei bisogni della persona e del contesto.







giovedì 26 gennaio 2012

LINK: 'State of the Union: Will the US be saved by its military?' [Mark LeVine, Al Jazeera, Jan. 25, 2012]

http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2012/01/2012125102724360795.html



There was any number of anecdotes or stories with which President Obama could have begun his talk to the nation. But he decided to begin with the most overused trick in any leader's rhetorical arsenal - to celebrate the military.
"We gather tonight knowing that this generation of heroes has made the United States safer and more respected around the world."
Does the President really believe that the United States is more respected around the world because of its military activities? Did no one point out to him that the morning of his speech, the marine sergeant who led the 2005 assault on Haditha that killed 24 Iraqi civilians received no jail time for his action, same as the seven other American soldiers who were part of the raid? As the LA Times reported in the wake of the decision, "The lack of trial convictions in the Haditha case is likely to further inflame anti-US sentiment in Iraq, as well as fuel criticism by some legal analysts of the 6-year-long investigation and prosecution."

We can thank Obama for completing the withdrawal of most troops from Iraq - he carefully said that there were no troops "fighting in Iraq", but there are still thousands of Americans there, training Iraqis and otherwise engaged in security-related activities. But where is the apology for a war he owes his rise to power on condemning?
It's true the President was speaking to an American audience in an election year, but if there was ever a time to take stock of American actions and own up to the "blood and treasure" - not just American, but much more Iraqi - that was lost on an illegal war that permanently damaged the US' position and respect in the world, this was it.
Saviour of the nation?
The army as saviour of the nation. A claim that would sound familiar to most Egyptians. In fact, in both countries the military - or rather the conglomeration of forces tying the military to leading economic actors with whom they disproportionately control their country's political and economic life - is perhaps the single most important factor responsible for the lack of democratic accountability or sustainable and broadly distributed economic growth.
Egypt's young revolutionaries have risked arrest, torture and death to force the army "back to the barracks". But in the US, the uncritical celebration of the military is so strong that it clouds over its role in draining a huge share of the country's economic lifeblood away from areas where it's desperately needed or in fomenting precisely the kinds of wars and violence that have permanently eroded the view of the US around the world. How Egypt's generals must envy the ease with which their American comrades ensure their continued grip on a huge share of the country's power and wealth.
Sure, a State of the Union address, with the entire military leadership staring at you from the floor of the Congress, is not the easiest place for a President to speak truth to power. But at least he doesn't have to provide even more cover for an institution that already holds far too much sway over the country's politics and plays a crucial role in perpetuating the growing inequality that the President listed as among the most pressing problems facing the United States.
And yet, rather than at least beginning to talk about the need to build a post-military society, President Obama declared that "at a time when too many of our institutions have let us down, they exceed all expectations. They're not consumed with personal ambition. They don't obsess over their differences. They focus on the mission at hand. They work together."
"Imagine what we could accomplish if we followed their example."
Yes, imagine - a country that takes hundreds of thousands of its young men and women, puts them in harm's way for the benefit of a small elite, doesn't provide them with an economy that can absorb them when they've completed their service, doesn't provide them with adequate healthcare, doesn't deal with the emotional and physical costs of the violence it asks them to unleash and suffer, and thinks not a whit about the people on whom that violence is exercised.
Imagine if the US as a whole behaved even more like its military. Or, moving to the seemingly opposite end of the spectrum, think if American corporations all followed the example of Apple, today among the most profitable and powerful corporations in the world, which even as its profits have soared has squeezed its suppliers to charge even less for the products and labour they provide, and in so doing ensure that hundreds of thousands of poor workers in China continue to work for ludicrously low wages in suicide-inducing jobs all so that more Americans can buy iPhones or iPads for $5 less than they'd otherwise pay.
Whether it's the Pentagon, Cupertino (Apple's headquarters), or Wall Street, this kind of rapacious and often mafia-like capitalism is precisely what created, in Obama's words, the "house of cards" that "collapsed" in 2008.
Moreover, the military in particular is characterised by the "outsourcing, bad debt and phony financial profits" (in the form of exorbitant and wasteful expenditures that funnel tens of billions of dollars to defence contractors for weapons and services the US doesn't need in the first place) that the President blames for ruining the American economy.
Finding another role model
This is not to say that President Obama has not outlined many worthy goals in the State of the Union, from developing clean energy to making college educations more affordable and prosecuting financial crimes more aggressively. But the reality is that if he hopes to build a fairer, more just, equalitarian, sustainable and healthy society, the military is just about the worst model the President could follow.
Whether in Caesar's day or our own, militaries do three things well - they kill large numbers of people, including (and often disproportionately) civilians; they arrogate an ever-increasing share of a society's wealth to themselves and their allies; and they weaken the dynamics of accountability between rulers and ruled without which democracy cannot survive.
If Obama can't talk openly to the American people about the reality of its military's role in the world, both historically and today, there is almost no chance he'll be able to shepherd the kind of transformation in the US' political economy that he outlined, because the military has always been intimately tied to the worst excesses of capitalism and nationalism that produced precisely the collapse from which the US has yet to recover.
The reality is that the society Obama hopes to build cannot come into being without a major transformation in the role and power of its armed forces and security establishment. And if his State of the Union speech is any guide, it seems that, tragically, the President is not up to the job. And judging by the response his speech has received, it seems neither is anyone else.
Mark LeVine is a professor of history at UC Irvine and Distinguished Visiting professor at the Centre for Middle Eastern Studies at Lund University in Sweden. His most recent books are Heavy Metal Islam (Random House), Impossible Peace: Israel/Palestine Since 1989 (Zed Books) and the forthcoming The Five Year Old Who Toppled a Pharaoh (University of California Press).

"William Blake, 'POESIE', cura e trad. Giacomo Conserva', Newton Compton 2a ed. (4a ristampa) [1976.-Pubblicità per me stesso. Tanto tempo è passato]




Non cercare mai di dire al tuo amore 
amore che mai non si può dire;
perché il vento gentile si muove
silenzioso, invisibile.

Ho detto il mio amore, ho detto il mio amore,
le ho detto tutto il mio cuore;
tremante, gelido, in terribili paure–
ah, se ne va via.

Non appena se ne fu andata da me
uno straniero passò per caso;
silenzioso, invisibile–
oh, non ci fu rifiuto.









Via da Avalon; Akven [GC, 1977; il movimento del '77]


   

    DOVE IL SOLE CALA C’ERA UN PAESE INCANTATO, IL PAESE DELLE MELE. STAVANO TUTTO L’ANNO SUGLI ALBERI, ROSSE E TONDE E SPLENDENTI, E LE FOGLIE NON APPASSIVANO E NON TIRAVA BREZZA. IL SIGNORE DI QUEL LUOGO SI CHIAMAVA AKVEN. UN GIORNO- ERA FORTE E BIONDO E BELLO- DISSE  ADDIO AI SUOI AMICI, PERCHÉ SENTIVA UNA VOCE CHE LO CHIAMAVA, E NON SI POTEVA FERMARE. PRESE POCHE COSE  CON SÉ, UNA BISACCIA E UNO SCUDO DI LEGNO E DUE AMULETI DI CASTORO, E SI INOLTRÒ  NELL’ISOLA, INIZIANDO IL CAMMINO PER TORNARE NEL MONDO.
    LE LEGGENDE NARRANO COME LA GENTE DI AKVEN, FUGGENDO DALLA GUERRA, FOSSE ARRIVATA AL PAESE DELLE MELE. E COME L’AVESSE COLONIZZATO E RESO PIÙ DOLCE, COPRENDOLO DI NUOVI FIORI E COLORI. E COME AKVEN SI MUOVESSE, LEGGERO SULLE SUE GAMBE UMANE, PER TRACCIARE UNA NUOVA ROTTA PER IL RITORNO. NON FU UN CAMMINO FACILE. UN GIORNO GLI SI FECE INCONTRO UN LEONE, AD UN GUADO. POI DOVETTE COMBATTERE CON I MOSTRI DELLA FORESTA, E RIPARARSI DALLA PIOGGIA SOTTO LE FOGLIE, E CERCARE DI SCALDARSI UN PO’ LA NOTTE CON UN PO’ DI FUOCO. VIDE DISTESE IMMENSE COPERTE DI BUFALI, IN LONTANANZA; UN LAGO DI CRISTALLO DOVE L’ACQUA MUOVEVA LENTE CORRENTI DI MILLE COLORI; CAMMINÒ SUL GHIACCIO, PER SCALARE UNA MONTAGNA, E DISPERÒ DI SALVARSI, PERCHÉ TROPPO INTENSO ERA IL GELO CHE GLI ENTRAVA NELLE OSSA; GIUNSE AD UNA CAPANNA, ABBANDONATA SOTTO UN COLLE; LÌ SI FECE DA MANGIARE.
    NON POTEVA PIÙ DIRE QUANTO TEMPO FOSSE PASSATO, E LA SUA ESISTENZA GLI SEMBRAVA UN SOGNO. VOLTI UN TEMPO CONOSCIUTI E AMATI SCOMPARIVANO COME FUMO, SOLI & LUNE CONTINUAVANO IL LORO CAMMINO. RIMASE FERMO LÌ, A LUNGO, A GUARDARE LE STAGIONI MUTARE, NUTRENDOSI DI RADICI, DI PESCI ARGENTEI CATTURATI NELLO STAGNO, DI ERBE. COMINCIÒ A PENSARE CHE L’ISOLA IN EFFETTI FOSSE UN CONTINENTE. CHE NON AVESSERO MAI LASCIATO LA TERRA NATIVA, O CHE , AL CONTRARIO, AVESSERO INCONTRATO MOLTO PIÙ DI QUANTO SI ASPETTAVANO: CARAZ, FORSE, O BRASIL. TUTTO QUESTO NON IMPORTAVA MOLTO, DEL RESTO: TANTO NUOVE ERANO AD OGNI MOMENTO LE CONFIGURAZIONI DELLE NUVOLE O LO SCHERMO DELLA CORDIGLIERA; E TANTO NUOVO ERA LO STRIDERE DEGLI UCCELLI NELLA VASCA DEL CIELO.
    COMPONEVA POESIE A VOLTE, E CANTAVA. DI FATTI E VOLTI CHE AVEVA INCONTRATO, O IMMAGINATO, O DESIDERATO SEMPLICEMENTE. LA CAPANNA ADESSO ERA TUTTA COPERTA DI MUSCHIO E FELCI, E PIENA DI NIDI. A PRIMAVERA FIORIVA TUTTA COME IL PRATO; D’INVERNO ERA BIANCA COME LA MORTE.

    CARAZ VENNE A LUI CON UNA SCHIERA DI UOMINI ARMATI CHE LO TRASSERO IN SCHIAVITÙ. VIDE LE LORO CITTÀ DALLE MOLTE SPIRE, I TEMPLI D’ORO, LE ARENE DOVE VENIVANO CELEBRATI I SACRIFICI. LARGHI FIUMI ATTRAVERSAVANO LE SUE PIANURE, COSTEGGIANDO CAMPI COLTIVATI CON CURA, LINDI, PIENI DI TRISTEZZA. ANNI ED ANNI, ANCORA, A REMARE SU NAVI D’AMBRA, A CAVARE IL MARMO, A SCAVARE FOSSATI. ANNI ED ANNI SENZA UN SENSO, IN CARAZ DALLE DIECIMILA AQUILE.
     QUANDO DESIDERÒ ANDARSENE (GIOVANE? BELLO?) SE NE ANDÒ. C’ERA UN’ISOLA IN MEZZO AL LAGO, DOVE CRESCEVANO PINI VIOLA E CIPRESSI VIOLA E ERBA VIOLA. IL CIELO ERA COME UNO SMERALDO, L’ARIA SOTTILE DI MILLE PROFUMI. ERA LARGA 1.000 KM, O 10.000; IL TEMPO SCORREVA LENTO, COME UNA LOCUSTA COLORATA. QUI INVENTÒ MOLTI GIOCHI CON LE CASCATE DEI RUSCELLI, GETTÒ DIAMANTI AL VENTO, SI INTESSÈ VESTITI DI FUSTAGNO VERDE E D’ARGENTO. PIÙ TARDI, NELLA FOSCHIA TENUE DELLA NOTTE DI LUNA PIENA, GIUNSE ALLA CASA.





martedì 24 gennaio 2012

Learning Russian 9: ANNA ACHMATOVA, Песня последней встречи/ Song of the final meeting [1911; tr. Andrey Kneller]


(Jean-paul Charles: il mio mondo interiore se ne va- my whole inner world is taking leave)


Песня последней встречи

Так беспомощно грудь холодела,
Но шаги мои были легки.
Я на правую руку надела
Перчатку с левой руки.

Показалось, что много ступеней,
А я знала - их только три!
Между кленов шепот осенний
Попросил: "Со мною умри!

Я обманут моей унылой
Переменчивой, злой судьбой".
Я ответила: "Милый, милый -
И я тоже. Умру с тобой!"

Это песня последней встречи.
Я взглянула на темный дом.
Только в спальне горели свечи
Равнодушно-желтым огнем.

1911


Song of the final meeting

How helplessly chilled was my chest, yet
My footsteps were nimble and light.
The glove that belonged on my left hand
I unconsciously put on my right.

It seemed that the stairs were endless,
But I knew -- there were only three!
Autumn, whispering through the maples,
Pleaded: “Die here with me!

I was blindly deceived by my dreary,
Dismal, changeable Fate.” “And I too,”
I responded, “My darling, my dear one,
And I’ll also die here with you.”

This is the song of the final meeting.
I looked up at your house, - all dark inside.
Just the bedroom candles burned with a fleeting,
Indifferent and yellowish light.

1911


Zastoi



On 29 Дек., 11:37, vkarla...@xxxxxxxxx wrote:

DK wrote:
In article <1167378652.859513.64...@xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx>, chapkov...@xxxxxxxxx wrote:
I am looking for some hypotheses about origins of the word 'zastoi' -
[Brezhnev]'s stagnation?Not to be confused with "otstoi" - the word that characterizes
Yeltsin's rule.


I don't think there can be any doubt about it.

Zastoj:
Literal: a part of the river with no or little flow; typically
becoming a fen/wetland/marsh. Also "zastoj krovi" =
blood congestion, hemostasis.
Figural: a situation characterized by a lack of progress,
standstill, stagnation, depression.

Derives from the verb "stoyat'" = to stand still or stand up.
"Za-" is a common prefix frequently denoting certainty,
overcoming certain threshold or a fact of being done.
Cf. zabrat' (to take from), zaigrat'sya (to overplay),
zagranitca (an abroad), zastava (a fort).

DK


lunedì 23 gennaio 2012

IL PASSATO MORTO: Ennio Abate, 'DIARIO DI TRE MESI DEL 1978' [POLISCRITTURE 8, DICEMBRE 2011]

















Nel 1978 quando scrissi queste note di diario, avevo trentasette anni. Volevo titolarle «Taccuino di un militante», ma in realtà già non lo ero più. Forse prima, ma sicuramente dal 1977 (anno del mio primo distacco di retina, simbolico nella mia mitologia personale), ero fuori da Avanguardia Operaia, organizzazione comunista a cui avevo aderito con molte incertezze dopo la mia partecipazione da “cane sciolto” all’occupazione studentesca della Statale di Milano nel 1968. Il diario di quei tre mesi del 1978 è, ancora oggi, la testimonianza di un io/noi che cercava di orientarsi nelle trame sempre più oscure della dimensione politica in cui si era immerso. Pur dicendo ‘io’ tendevo ancora a parlare come un ‘noi’. Non sapevo quanto fosse definitivo il mio isolamento, dopo la sbornia di “socialità” degli anni di militanza. Come se volessi continuare a parlare anche nell’isolamento quella lingua, che era stata o mi era sembrata comune a tanti, ad usare quel lessico (comunismo, capitalismo, classe operaia, sinistra, compagni) che prima, per me, che venivo dalla provincia meridionale più grettamente cattolica, era impronunciabile; e non accettare la fine a un tempo della mia giovinezza e di una storia collettiva. Eppure gli eventi esterni (o interiori come i sogni), che in quei tre mesi registravo (parte minima di quelli magari percepiti, ma non entrati nel reliquario della scrittura): suicidi, separazioni di coppie, notizie deprimenti dai giornali, “imborghesimenti” di contestatori solo quella fine mi segnalavano con insistenza. E forse, allora il senso della fine me lo dissi in coincidenza con il rapimento di Moro, ma senza intenderlo in pieno al momento, più in poesia («Scrivere?/ Testimoniare?/ Mi basta pensarlo il marcio della crisi/ l’albero ha dato tutti i suoi frutti/ il ’68 è questo/ non di più»; «l’intelligenza si fa di pietra/ il luogo comune della conservazione s’espande/ solido/ materiale»). Poi, al posto della politica, ci fu solo la quotidianità che ci avvolse, ci fece scorrere in altri discorsi quasi politici ma che continuamente ci hanno rimandato un vuoto (quello del «Conflitto sconfitto»). EA

GENNAIO
Il capitalismo si scurisce, va in fondo al nostro paesaggio mentale, come un temporale. Riemerge un mondo di rapporti subordinati che somiglia a quello assaggiato a scuola da giovane negli anni Cinquanta coi professori. Ma anche in «Avanguar-dia Operaia» Marx e Lenin li ho accostati in un rapporto non dissimile: noi eravamo i meridionali, quelli che alle loro spalle avevano studi interrotti e tradizioni sospette (cattoliche, non di sinistra). Le coppie dei compagni si disfano. Sono processi sotterranei. Ne seguo segmenti. La compagna che se ne va in ferie da sola, senza figli né marito. L’altra che pianta il marito. Una terza che torna ad abitare con sua madre. Dei vari casi si discute sorpresi, ma senza moralismi. Chi se la sente di sostenere che la febbre non lo riguardi? Da questa crisi o nasce una capacità di rispettare i bisogni veri di uomini e donne oppure di tutte queste passioni resteranno chiacchiere. Scontri di piazza. Poche le occasioni in cui mi sono trovato a confronto diretto con carabinieri e polizia; e sempre l’ho scampata. Una volta a Cinisello, quando io di AO, da solo, ero andato alle case occupate da Lotta Continua. Stavano per sgomberarle. Caricarono e me la svignai con alcuni che neppure conoscevo. Di corsa attraversammo rischiando la tangenziale, che in quel momento era molto trafficata. Ci inseguivano due con l’elmetto e non mollarono per un bel po’. Un’altra a Merate, dove eravamo confluiti in tanti e di vari gruppi dalle zone circostanti per impedire un comizio elettorale di Almirante. Anche allora non conoscevo né il paese né i compagni con cui mi ritrovai. Ricordo uno di Lotta Continua (poi seppi che era Mauro Rostagno) che, prima dell’inizio della manifestazione diceva in un capannello: - Qua io prima di tutto mi vado a fare una cacata. I cara-binieri per un po’ ci lasciarono gridare slogan antifascisti. Poi si scatenarono. Grida. Qualcuno inciampò e cadde. Fuga. In tre ci rifugiammo in una vecchia corte e ci nascondemmo in uno sgabuzzino aperto, quello della spazzatura. I carabinieri inseguitori passarono oltre; e per fortuna nessuno dei residenti accese la luce. In genere sono capitato in mezzo a scontri fisici smorzati, mai direttamente alle spalle dei servizi d’ordine; e sempre per un pelo mai a mal partito. Come successe a Franceschi, Serantini, Varalli, giovani manifestanti come noi che facevano parte del mucchio; e polizia e carabinieri colpirono e spararono sul mucchio. Al mercato del martedì in Piazza Italia e dintorni. Ci vengo di rado. A volte solo per esplorare le facce stanche di quelli che vivono, come me, negli spazi costipati di questa periferia, che non ho mai amato. Sono volti - penso - che vedrò una volta e forse mai più. Starei ore a osservarli. Ma afferrerei così il senso della loro vita dimessa e faticosa quanto la mia? Guardo questa signora grassa e placida. Quanta roba compra dal fruttivendolo. E con che aria metodica. E come la sento distante da tutto ciò che vado pensando “di politico” di questi tempi! Mentre in alto si fanno i grandi giochi della politica e lontano - a Torino, Cassino, Roma - infuriano vendette e attentati, qui a Milano, dopo l’Innocenti, comincia il calvario per i dipendenti dell’Unidal. Ho chiuso con Avanguardia Operaia e non sono entrato in Democrazia Proletaria. Non rassegnato alla solitudine, vado in via Solferino a conoscere quelli della rivista «Praxis». Leggendo i loro articoli ho ritrovato echi fastidiosi da nuova sinistra, ma mi attira il loro tentativo, vicino al mio (mi pare), di “fare inchiesta”. Attorno al palazzone illuminato del «Corriere della sera» soldati con giubbotto antiproiettili. Infagottati. Si muovono a coppie. Un po’ stanno fermi e un po’ passeggiano. Citofono. La casa è quella tipica dei “compagni dirigenti”: molti libri, stuoini, poltrone comode, colori vivaci. Uno baffuto, calmo, mi fa parlare e mi esamina. Vuol sapere la mia “posizione”. Gliela spiego: 

prevenuto verso quelli de «il manifesto»; deboli simpatie per «Lotta Continua», che vedo però navigare a vele afflosciate. Alla fine mi espone la loro ipotesi: un’opposizione operaia al PCI. Mi annuncia pure un convegno operaio da preparare in collaborazione con «Democrazia proletaria». Resto deluso. R Ironizza sulla mia ossessiva ricerca di “fare qualcosa” con gli altri che vengono dal ‘68, ancora adesso, da sconfitto. Lei pensa, invece, che fra qualche anno tutta la generazione del ’68 sarà completamen-te rincitrullita; e legge in tanti suicidi il segno di una fine irreparabile.
28.1.’78. Rapidissimo sguardo ai giornali. Cose grosse in alto fra PCI e DC. Tutti gli altri partiti si spostano di conseguenza. Paginone di Lotta Continua dedicato ai gulag. Esorcismo? Paura sotto i toni beffardi? Il «manifesto» s’accuccia ai piedi del PCI: l’ultimo Comitato Centrale del partito avrebbe    “bloccato” Andreotti. Il «Quotidiano dei lavoratori» parla, invece, di resa incondizionata del PCI alla DC: il capo indiano Lama (spuntata) firma la resa.

FEBBRAIO
In metropolitana. Intervengo contro un tipo aggressivo in difesa di tre bambine zingare: « Ma dica almeno cosa le hanno rubato! Se non le hanno rubato nulla, è un razzista!». «Se ne devono andare dal nostro paese. Vedi, ci deridono anche!». Silverio Corvisieri
1 minacciato dalle BR risponde sdegnato. Ma il suo discorso - il socialismo come “espansione massima della democrazia” - mi pare davvero povero. È possibile un passaggio da questa democrazia al socialismo senza rotture e smarrimenti anche dolorosi? Corvisieri si è distanziato non solo da quanti sono accusati di “fare il gioco della reazione”, ma anche dai movimenti. Ora esalta il “fior fiore della classe operaia”, che sarebbe quella organizzata nel sindacato. Queste espressioni ora mi danno nausea. Perché aggregarsi al coro anti-BR e anti-terrorismo? Mi sento sciolto da questa coazione. E neppure sento simpatia per i “compagni che sbagliano”. Sto con gli incerti e i dubbiosi, perché diffido delle posizioni delle parti che si stanno scontrando. 1 Uno dei fondatori di AO. Stava passando nell PCI in quei frangenti. 


MARZO
All’assemblea di Lotta Continua sugli scontri fra Movimento Lavoratori per il Socialismo e Autonomia. Ci vado per residua curiosità. Assisto a una seduta di psicoanalisi di massa. È un rituale per me, che in Avanguardia Operaia ero abituato alla classica “analisi della situazione”, insolito. Vedo accavallarsi e urtarsi inconciliati sfoghi di vissuto personale e formule dell’ideologia. Nel primo caso con un linguaggio fortemente metaforico, “poetico”. Nel secondo con richiami al formulario “utopico”: bisogno di comunismo, cambiare la vita. La comunicazione assembleare è solo in apparenza orizzontale, egualitaria; è, invece, strutturata gerarchicamente quanto gli altri tipi di comunicazione. Un pregio, però, l’ha: fa venir fuori la contraddittorietà del reale con immediatezza emotiva. Ad esempio, il fattaccio dello scontro di via Amadeo è stato raccontato con una testimonianza a bruciapelo. Ma che sintesi è poi possibile? Qualsiasi “proposta chiara” risulterà sempre limitativa o intempestiva.
R Mi riporta con insistenza temi della ricerca femminista, a cui partecipa in modi non occasionali. In apparenza mi fa dei “doni”, ma traspare il sottile timore che io tradisca la sua fiducia e la presunzione che io non possa davvero capire, “perché maschio”.
17.3.’78. Rapimento di Aldo Moro. Appunti: Immensa/ incontrollabile/ dicono che è all’opera/ la macchina dello Stato italiano/ per rifarsi dello scacco inatteso/ Se fosse efficace/ avremmo meno da temere/ Allo shock ci inchiodano/ i titoloni del Corsera/ l’intelligenza si fa di pietra/ il luogo comune della conservazione s’espande/ solido/ materiale/ Droga l’efficienza dei terroristi/ per attimi aggancia fantasmi oscuri/ di giustizia e vendetta assieme/ fantasmi nostri + fantasmi televisivi/ il gioco è fatto/ scompare la realtà/ Quanto studio sul luogo prescelto/ e i telefoni della zona bloccati/ e l’ondata di notizie false/ e il fioraio che trova bucate le ruote del suo furgone/ e il berretto blu con visiera/ gli ottanta bossoli di proiettili calibro nove/ se tutti veri/ dove in quale oscuro Olimpo/ gli eventi sono stati preparati?/ e noi quanto vi siamo distanti?/ “Uno che ha capito” scrive Fortebraccio/ e parallela a quella dei terroristi-mostri/ spunta la leggenda di sant’Aldo Moro martire/ politico che con delicatezza e riguardo/ lottava/ e con malinconia profonda/ e segreta solidarietà/ A milioni costretti all’ovvio repubblicano/ soli esclusi quei “raggruppa-menti mascherati sotto vari nomi”/ noi dentro di sicuro/ noi non credenti al miracolo/ detto “straordinario sussulto democratico” che/ Br ringraziando/ avrebbe saldato “Paese reale e Paese legale”/ noi zitti in piazza/ mentre De Carlini vaneggia/ infilando in ideale trinità/ Matteotti Togliatti e Moro/ di fronte alle truppe finalmente gongolanti dei ciellini/ PCI/ non una virgola in più di Cossiga/ sol così si fa Stato/
18.3.’78 Non vogliamo farci Stato, né essere simpatizzanti passivi delle BR. Dovrei riconscermi in uno Stato che, col pretesto di schiacciare i terroristi, limita le nostre libertà? O simpatizzare per i terroristi che trascinano anche noi - confusi e disarmati - in una situazione d’emergenza? Sono andato a vedere in piazza la strumentalizzazione delle emozioni a favore della DC, del governo e del “patto a sei”. C’erano “le masse”. Ma moltissimi erano silenziosi e non ascoltavano le trombonate degli oratori. La situazione non è quella che viene presentata da giornali e televisione. Si va verso una società con più disoccupati, più emarginati, meno libertà per i suoi cittadini e più potere allo Stato, alle burocrazie e ai gruppi economici dominanti. Per tentare di evitarla, c’era da riconoscere e imboccare la strada della distinzione fra interessi dei lavoratori e interessi dei capitalisti. La “solidarietà nazionale”, la “politica dei sacrifici” (per i lavoratori) porta soltanto alla cooptazione di un ceto dirigente di sinistra nella maggioranza governativa e nelle istituzioni.
1.4. 1978 Dopo assemblea della “Costituente di Democrazia Proletaria” a Villa Casati. Curiosità. Una certa voglia di ritrovare compagni che conoscevo in Avanguardia Operaia. Ma i discorsi di S., F. e anche di M. sono vecchio stile: pedanti, comizieschi, emergenziali. Come dice G., la nuova sinistra non sa costruire un suo progetto, si muove sempre in funzione del PCI. Io poi penso che si dovrebbeandare oltre Lotta Continua, Avanguardia operaia e Pdup. È vano stirare le differeze fra queste ex organizzazioni. Bisogna liberarsi dalle croste che altri ci hanno costruito addosso, mentre noi credevamo di far politica. La vicenda di Corvisieri dà da pensare. Riscopre la bontà della via pacifica al socialismo proprio quando degenera. Come degenera la via militarista delle Brigate Rosse, mentre lo Stato democristiano sembra andare in putrefazione. Attestarsi sulle “modeste certezze” degli ultimi trent’anni – il PCI che s’aggrappa allo Stato nato dalla resistenza, Democrazia Proletaria che s’aggrappa alla costruzione del partito - non fa uscire da nessuna crisi. Fortini. Riflettere sulla sua esortazione a «scrivere di questioni concrete, non di teoria politica; meglio allora una problematica etica». Dobbiamo essere drastici: il periodo del marxismo-leninismo-pensiero di Mao Tse Tung è morto. Non si tratta di colmare lacune. Volessimo riaccostarci agli stessi testi letti in fretta o male, dovremmo prima ripulirci dagli schemi ideologici di questi ultimi anni. E lo stesso vale per i temi “d’attualità”: femminismo, teoria dei bisogni. Non possiamo affrontarli col “taglio da partito”. Non bastano gli interlocutori rispettabili presenti nella «nuova sinistra». Dobbiamo guardare a compagni ancora più ai margini. Fortini, per me, è uno. Ma ce ne saranno altri; e non tanto fra le masse (che è un concetto anch’esso di partito), ma fra gli individui concreti e spesso fuori dalla cerchia dei politicizzati.
2.4. 1978 L’esperienza di Avanguardia Operaia. I bilanci di Vinci e Campi
1 Allora quel mio disagio presente dagli inizi della mia adesione, non era segno di una debolezza personale. Che errore aver proseguito assieme a loro... 1 Luigi Vinci e Aurelio Campi erano stati i due promotori della “scissione” di AO. Il primo fu poi di DP, l’altro passò al Pdup e più tardi al PCI.
4.4.1978 Ricordo mio padre che tornava alle due del pomeriggio dal negozio di accessori idraulici dove lavorava come commesso. Prima di mangiare, quasi per togliersi un po’ di stanchezza dal volto, si lavava la faccia. Collettivo Itis a casa di G. Discutiamo di Brigate Rosse. Hanno metodi ottocenteschi, si dice. Abbiamo però ancora delle riserve a scaricare l’Ottocento. Pensiamo a tante violenze, a tanti massacri. G. ricorda suoi colloqui con compagni palestinesi. Dobbiamo disfarci sbrigativamente di tutti i discorsi fatti sulla violenza proletaria, di tut-te le analisi sulla guerra? Abbiamo però tutti la sensazione di essere ormai tagliati fuori dalla vita politica. E che ne facciamo di tutti i discorsi circolati nelle organizzazioni extraparlamentari ormai distrutte? Le scelte decisive si giocano fra PCI, DC, PSI e Brigate Rosse. La sensazione è di essere trattati come bambini o di essere chiamati a fare i tifosi, le truppe di rincalzo. Mi sento in una retrovia, in mezzo a compagni dalle idee confuse. Documento della direzione del Pdup sulla crisi italiana dopo il rapimento di Moro ( il manifesto 4 aprile 1978). Ancora e soltanto delusione. È un ricalco delle posizioni del PCI. Il Pdup parla di «terrorismo» e di «golpismo». I due fenomeni sono posti sullo stesso piano. Si dice contrario alla posizione «né con le Br né con lo Stato», che smarrirebbe la distinzione fra «regime democristiano o vecchio stato burocratico sopravvissuto al fascismo e quelle istituzioni e quelle prassi democratiche che sono cresciute attraverso la lotta di massa». Accordo pieno, dunque, con il PCI su cosa intendere per «difesa della democrazia»: in questa fase la difesa della democrazia coincide con la difesa delle «istituzioni di questa costituzione». Più nessun cenno al grado di democraticità reale di tali istituzioni.
5.4.1978 Esorcismi. Tutti esorcizzano il discorso sulla morte e la violenza che le Brigate Rosse hanno riproposto come elemento ineliminabile della lotta di classe. Vedo falsa coscienza in tanti episodi di quest’ultimo anno: dibattito del manifesto sul terrorismo prima del rapimento Moro, discorsi sui servizi segreti strumentaliz-zatori delle BR, letture delle azioni delle BR come spettacolo. Colgo idealismi anche il discorso sulla democrazia di Stame.
1 Dubito dei discorsi democratici. Ci sento una sorta di ricatto. L’appello di Cases2 sul manifesto pare sia stato bloccato; e pubblicato invece da Quotidiano dei lavoratori e Lotta continua. 1 Federico Stame era un collaboratore dei «Quaderni Piacentini». 2 Cesare Cases, saggista e germanista (Milano 1920–Firenze 2005)


Un’intervista ad Althusser (il manifesto 4.4.1978) offre spunti di contrapposizione (dall’interno?) al PCI.
6.4.1978 Entrare nel PCI. Chi nell’ultimo anno non ha sputato addosso a Corvisieri? Non farei però dell’ingresso nel PCI una sorta di colonne d’ercole da non superare. Basta forse non entrare nel PCI per pensare e agire in modi non subordinati? Le analisi del manifesto, ad esempio, sono quelle di prima delle elezioni del 20 giugno 1975. Malgrado tutte le “gravi” scelte, sembra che il PCI abbia tanta democrazia depositata nei suoi forzieri da poterla sprecare senza danni.
C. «Ma oggi ti arrestano anche se sei contro le BR, basta essere contro lo Stato». Le BR: «saranno peggiori di noi, ma non dello Stato». Uno che ha scritto tanto e ha sempre cercato di costruire assieme agli altri, può finire mai simpatizzante delle BR? Ha ragione Sciascia. Tutto il suo lavoro testimonia del suo pensiero. E Lama lo squalifica! Schierarsi subito è cedere al ricatto. A Villa Casati: «comitato antifascista etcetera sul terrorismo». Parecchio pubblico, in prevalenza militanti del PCI e della DC. Quando arrivo, C. sta introducendo. Sottolinea con orgoglio le voci autocritiche che si levano dalla sinistra. Vedete L’Espresso di questa settimana, leggete le dichiarazioni di Colletti, di Amendola, distinguiamo la politica dall’utopia. Il primo a intervenire è un professore del partito repubblicano. Attacca con il discorso che gli extraparlamentari sono i padri del terrorismo. Lo interrompo, chiedendogli chi sono i padri della strage di Piazza Fontana. Diventa rosso. Trambusto. C. grida ad alta voce che ora anche Democrazia Proletaria siede in parlamento, che non bisogna offendere chi interviene. Dopo un discorso per me appena accettabile di uno del PSI, parla F. del PCI. Mi distraggo. Afferro però il passaggio in cui dice che i comunisti hanno sempre difeso questo Stato, anche quando non erano nell’area di governo, figurarsi oggi. Poi è il turno del figlio di P. Pur essendo giovane, declama con un tono enfatico, che mi ricorda gli interventi dei vecchi militanti anni Cinquanta, le fesserie che qualcuno più istruito gli ha scritto su un foglio. Intervengo: non si possono assolvere i 30 anni di regime democristiano; le leggi contro il terrorismo sono anticostituzionali; la campagna dell’arco costituzionale contro le posizioni di dissenso viene condotta in modi ricattatori e antidemocratici; quelli che dissentono non sono quattro gatti; lo slogan Né con le BR né con lo Stato è già stato corretto con quello Contro lo Stato e contro le BR; la partita che si gioca è fra democrazia autoritaria e democrazia di massa; gli unici a curarsi parados-salmente della vita di Moro sono stati proprio gli extraparlamentari. Nessuno riprende i temi o mi obietta. Dopo di me interviene T. Sottolinea che lui è nel PCI, ma da cattolico e che è uscito dalla DC, perché questa appoggia il capitalismo. Stavo per gridargli: Il PCI invece…Parlano poi le due mamme del Leoncavallo e la P. Sono discorsi emotivi, ma comunque ostili al clima cerimonioso della serata. Al margine una scenetta fra il grottesco e il penoso. Il portinaio del condominio X, che già all’inizio, da solo ed intempestivamente, aveva battuto le mani quando C. aveva intro-dotto la serata, mentre il repubblicano inviperito inveiva contro gli extraparlamentari, ha cominciato anche lui a urlare, perché alcuni di loro avevano rubato per strada la borsa a sua moglie. Poi, fra risa e sogghigni, s’è messo a fare gesti sbracati contro le donne che tentavano di azzittirlo. Parlare a esplosione. La gente ieri sera a Villa Casati. Che miscela emotiva veniva fuori quando parlava! Non preparata a ribellarsi, costretta a tacere per anni nelle riunioni di partito e un po’ dovunque. Oppure a parlare approssimativamente. Quando le capita l’occasione, grida, bestemmia, straparla. E viene subito corretta, rimproverata. E ancora una volta non si esprime e non afferra le questioni. E la prossima volta capiterà la stessa cosa. La trappola di queste assemblee è sempre quella: o taci o applaudi o devi intervenire sotto minaccia; e non è facile.
9.4.1978 BR. Dire «Né con le BR…» non vuol di-re aver simpatia per loro. Ma, nel dirlo, una contrad-dizione, per noi che veniamo dal ’68-’69, c’è. Negli anni passato tutti abbiamo parlato di transizione, di presa del potere, di violenza proletaria. Abbiamo preso, perciò, in considerazione la produzione di eventi che prevedevano anche la morte dei nemici (e nostra o di nostri amici). Altri, in clandestinità, questi omicidi mai esclusi di fatto dalla lotta politica, li hanno preparati e compiuti secondo una logica politica riferibile alla tradizione marxista. E ce li hanno imposti, sopravanzandoci, giocando il tutto per tutto. In forme e in momenti, certo, da noi non previste, ma non distanti dalle teorizzazioni circolate anche nei gruppi extraparlamentari. Tra un seminario su Stato e rivoluzione e le azioni delle BR c’è, forse, solo discontinuità? Era stabilito in anticipo che i nostri seminari sullo stesso libro di Lenin da loro studiato, sarebbero rimasti esercizi di platonismo? Certo le pratiche della violenza nella storia sono varie e un’azione cospirativa di pochi non è la stessa cosa di un’azione di massa. Ma tali distinzioni restano oggi quasi bizantine, troppo raffinate… Garantisti per sconfitta. Garantista è la posizione in cui, senza grande soddisfazione e in mancanza di meglio, ci siamo attestati. È la posizione di Stame, del manifesto, di DP. Con sfumature d’accento sul giudizio dello Stato: soprattutto repressivo con aggiunta di consenso; anche repressivo, ma capace di consenso. Siamo stati spiazzati dagli avvenimenti. Le nostre posizioni ad ogni modo sono subordinate: ai democratici, con cui ancora parliamo; agli autonomi, coi quali neppure riusciamo a parlare. Né ci potrà essere una rimonta rispetto alle BR. Ogni discorso sulla violenza anche armata è per noi chiuso. Altro che violenza chirurgica. Siamo ridotti a spettatori di una corrida fra eroi e mostri. I nostri ex compagni possono indicarci il terreno della democrazia, ma resta il sospetto per il loro opportunismo. Oggi che dovevano essere più leninisti, s’accucciano ai piedi del PCI.
Letture: DWF, numero 5 ott.-dic. 1977 su movimento e istituzioni. «Che farmene di un comunismo che non segni anche la liberazione del mio corpo mercificato, mutilato, represso» (pag. 129).
11. 4. 1978 Sogni. 1) C. (è il consigliere di DP a Brugherio) viene a casa mia con i suoi due figli. Sono stanchi. Devo farli dormire in qualche modo. Quasi al buio mi do da fare per riordinare la stanza. In un angolo trovo merda e piscio della mia cagnetta. 2) Ad un’assemblea o ad un comizio. Distribuivano uno strano depliant elettorale. Aprendolo mostrava delle antiche colonne di un tempio classico. I ruderi che si vedevano a sinistra man mano apparivano restaurati e riprendevano il loro aspetto intatto spostandosi a destra. Era un messaggio di restaurazione, mi dicevo. Mi hanno zittito. Quello era un depliant del PCI e del PSI. Ma proprio perché sono dei compagni – ho esclamato – non si può tacere. 3) In un paese del Sud, forse a Salerno. Pare che la mafia abbia organizzato un attentato durante una manifestazione. Vedevo da un balcone un’immensa folla (come quella che si vede nelle foto dei funerali di Fausto e Iaio). I compagni di Cologno filmavano la scena. Ero angosciato perché sapevo quello che stava per avvenire. Ed, infatti, ho sentito prima un botto e poi spari di fucili. La sensazione è che la scena si sia ripetuta due volte: dapprima senza folla e poi con la folla.
Interruzioni- Generazione che invecchia e scivola accanto a turpi e veloci vicende di altre generazioni- Generazioni che intiepidendosi muoiono. Hanno lasciato segni impercettibili nei vicoli, nei paesini, nelle periferie. Che sfumature! «Per lui (un certo Minopoli, dirigente della FGCI) il terrorismo non può avere basi ideologiche o culturali, né tanto meno può essere fatto risalire ad una tradizione terzinternazionalistica o stalinista: è solo delinquenza comune, criminalità politica, finanziata da centrali segrete» ( Lotta continua, 12.4. 1978)
13.4. 1978 Ricordo «Bive dint’a a coccia e paret’e». Così mio padre (o mia madre?) mi raccontavano l’episodio del re vincitore che aveva preso in sposa la figlia del suo nemico. Amalasunta, lei? Alarico, lui? Boh! Letture: Vittorio Strada, Se il messaggio delirante viene dall’antiterrorista (Repubblica 13.4.1978). Uno che parla chiaro. Il terrorismo è la spia di problemi irrisolti. La storia lo dimostra.
15.4. 1978 Colloquio con T. Siamo entrambi della generazione del ’68 e non siamo rassegnati al lento deperimento che ci hanno preparato. Non ci siamo associati al coro restauratore. Però i parametri culturali sono sconvolti. Non è facile rimettersi al passo con questa realtà. Tutti e due abbiamo lasciato perdere il movimento del ’77. Abbiamo sfiorato l’elemento tragico che sta al fondo di quel che chiamiamo comunismo. Lo potremo mai più riaccostare con una memoria del passato in testa, con una spinta utopistica? Se ce ne distraiamo, faremo chiacchiere. O strisceremo verso il futuro come vermi. Lasciamo ad altri le doppiezze: una verità ai dirigenti, un’altra alla base.
19.4.1978 Moro ucciso? I partiti hanno già pronta la campagna d’orientamento e d’intimidazione. Attenzione alle posizioni eccentriche di Moravia e Sciascia. Ma il grosso si svolgerà sui binari già ribaditi nelle ultime settimane. I fatti incalzano. Compagni di Cologno volatilizzati. G. Ha un figlio chiuso a San Vittore. Va a trovarlo ogni domenica. Mi dice che il vicecomandante delle guardie ucciso dalle BR era «una carogna». Le cose, le storie vissute qui in basso non sono meno pesanti. TG1: Appello del papa, dichiarazioni della DC. Vogliono persuaderci che sono i più forti e  che, per questo, sarebbero anche nel giusto. Sono sordi. Trasmettono anche un filmato: una cittadina sovietica che s’incatena al cancello di una ambasciata (?) a Mosca. La figlia disperata urla contro i poliziotti che la portano via.
23.4. 1978 Scrittura e rapimento Moro. Ho fatto l’ipotesi di scrivere in forma narrativa e saggistica sul rapimento di Moro. La vicenda mi ha col-pito molto e ne ho seguito quotidianamente lo svolgimento da radio, giornali e TV. Il tema potrebbe rappresentare una riflessione sul mio rapporto con la politica (modello: I cani del Sinai di Fortini). Il rapimento è avvenuto quasi a conclusione di un processo di deterioramento della mia esistenza (fine di Avanguardia Operaia, mia autoesclusione dalla militanza, rottura di legami di amicizia nella scuola e a Cologno; e c’è persino la coincidenza con l’operazione all’occhio per distacco di retina). Ho sentito questo evento come un’aggressione del Potere alla vita quotidiana. (Il potere s’affaccia mostruoso come un King Kong alla mia finestra mentre sto alzando la tapparella). Penso anche alle perquisizioni in corso. Ho visto posti di blocco sulla Palmanova o su Via Di Vittorio a Sesto S. Giovanni, mentre andavo a scuola. Mi si svela l’allarmante conferma di un bubbone (quello del terrorismo) che non pareva così pericoloso. Lo leggo come una malattia nostra contro tutte le tendenze esorcistiche, anche provenienti da voci autorevoli del movimento operaio. Mi confermo la necessità di non rinunciare ad una ricerca della verità, anche se dovesse rimanere isolata o clandestina.
(Penso alla vicenda degli eretici conosciuta stu-diando Cantimori). Parlando con D: rapimento Moro e suicidio di L. P. T. mi dà notizia che questa compagna di Cusano Milanino (aveva lavorato anche a qui a Cologno attorno al ’70) ha tentato il suicidio ed è in coma. L’avevo vista muoversi tranquilla in mezzo alla folla di piazza Duomo durante la manifestazione indetta per il rapimento di Moro. D. sul rapimento ha scelto senza tentennamenti «l’opzione democratica» e parla di «diritto alla vita di tutti». Io non riesco a tacere sulle ambiguità di questi discorsi. Ammetto di avere qualcosa in comune anche con i nemici, ma non me la sento di affermare che «bisogna difendere la vita dell’ operaio come quella del deputato (democristiano)».
Villa reale di Monza: Mostra degli Alinari Visioni nitide. Immagini doppiamente immobili (nella fissità richiesta dalla tecnica di fine Ottocento, nel richiamo alla morte che immancabilmente suscitano). Mi viene da pensare ai nostri figli o nipoti o gente anonima che guarderanno le nostre foto di morti. Quel volto di bimba che si affacciava al vetro rigato di pioggia dell’auto in attesa al semaforo davanti alla nostra…
25.4.1978 Sogno. Io e D. entravamo in un locale. C’erano vecchi dirigenti di Avanguardia Operaia. Avevano un’aria derisoria e sorniona verso di noi, che eravamo andati là per contribuire ad una sottoscrizione.
26.4.1978 Pensieri labili. «Erano in cinquantamila in piazza Duomo. Questa democrazia non è bella, ma resiste. Io non voglio vedere i miei libri bruciati come in Cile». Questo è il ragionamento che corre. Ma perché non riesco a rassegnarmi alla democrazia? Perché in essa mi sento un clandestino?
29.4.1978 Suicidio di L. P. Arriva la conferma. Pochi i dubbi. Pezzi di noi si staccano e scompaiono definitivamente. «Pare che fosse stata già ricoverata». «E chi s’era accorto del suo dolore? I compagni della Candy sono pieni di rimorsi: stare insieme in tanti anni di riunioni e non capire nulla di lei». Recuperando il numero da una vecchia agenda, telefono alla T. di Cormano: «È stata una cosa inaspettata. Cinque minuti prima aveva chiesto il medico».
Compagni, colognosità. A. e P. non si fanno più vedere alle riunioni dopo che gli ho detto chiaramente cosa pensavo della loro indefinita richiesta di studiare “tutto Marx”. M., P. e T. saltano la prevista riunione e, incontrati per strada, neppure vi accennano. Sono questi i modi in cui si prendono le decisioni. Senza neppure dichiararle. Per abbandono silenzioso.