sabato 3 dicembre 2011

La visione dalla collina/ J.P.Sartre, 'La nausea' [per Jacopo V.]




    La Nausea mi lascia un breve respiro. Ma so che ritornerà: è il mio stato normale. Soltanto, oggi il mio corpo è troppo esausto per sopportarla. Anche i malati hanno delle felici debolezze che gli tolgono per qualche ora la coscienza del loro male. Mi annoio, ecco tutto. Ogni tanto sbadiglio così forte che le lacrime mi scendono giù per le guance. È una noia profonda, profonda, il profondo cuore dell'esistenza, la materia stessa di cui son fatto. Non mi trascuro, tutt'altro: stamane ho fatto il bagno, mi son fatto la barba. Soltanto, quando ripenso a tutti questi piccoli atti solleciti non capisco come abbia potuto farli: son così vani. Sono le abitudini, senza dubbio, che li hanno compiuti per me. Non sono morte, loro, continuano a darsi da fare, a tessere pian piano, insidiosamente, le loro trame, mi lavano, mi asciugano, mi vestono, come balie. Che siano state pure esse a condurmi su questa collina? Non ricordo più come ci son venuto. Per la scalinata Dautry, senza dubbio: che davvero abbia salito uno ad uno quei centodieci gradini? Quello che forse è ancora più difficile immaginare è che tra poco li ridiscenderò. Tuttavia lo so: tra un momento mi ritroverò al piede del Poggio Verde, tra un momento, alzando la testa, potrò vedere accendersi in lontananza le finestre di queste case che ora sono cosi vicine. In lontananza. Sopra la mia testa; e quest'istante, dal quale non posso uscire, che mi rinchiude e mi limita da tutti i lati, quest'istante di cui son fatto, non sarà più che un sogno confuso. 
    Guardo ai miei piedi i grigi scintillii di Bouville. Sembra vi siano al sole mucchi di conchiglie, di scaglie, di schegge d’ossa, di ghiaia. Perdute tra questi resti, minuscole schegge di vetro o mica gettano di quando in quando leggeri bagliori. I canaletti, le trincee, i sottili solchi che corrono tra le conchiglie, tra un’ora saranno strade, ed io camminerò in quelle strade, tra i muri. Quei minuscoli ometti neri che distinguo in via Boulibet, tra un’ora sarò uno di loro. Come mi sento distante da loro, dall’alto di questa collina. Mi sembra d’appartenere ad un’altra specie. Escono dagli uffici, dopo la giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un’aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una “bella città borghese”. Non hanno paura, si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l’acqua addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l’interruttore, che gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali. Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle sedici d’inverno, e alle diciotto d’estate, il piombo fonde a 335 gradi, l’ultimo tram parte dal municipio alle ventitrè e cinque. Son pacifici, un po’ malinconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro oggi; le città non dispongono che d’una giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina. La si impennacchia un po’ la domenica. Che imbecilli. Mi ripugna pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza. Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno l’estrema stupidità di fare figli. E frattanto la grande natura incolta s’è insinuata nella loro città, s’è infiltrata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non si muove, si mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città. Io la vedo, questa natura, la vedo… So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch’essa non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza… Non ha che abitudini, e le può cambiare domani.

    E se capitasse qualcosa? Se d’un tratto si mettesse a palpitare? Allora   s’accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe di sentirsi scoppiare il cuore. A che cosa gli servirebbero, allora, le loro dighe, i loro argini, le loro centrali elettriche, i loro alto forni, i loro magli a vapore? Ciò potrebbe succedere in qualunque momento, magari subito: i presagi ci sono. Per esempio, un padre di famiglia a passeggio vedrà venire verso di lui, attraverso la strada, uno straccio rosso come spinto dal vento. E quando lo straccio gli sarà vicinissimo vedrà che è un pezzo di carne marcia, imbrattato di polvere, che si trascina strisciando, a sbalzi, un pezzo di carne torturata che si rotola nei rigagnoli proiettando a spasmi getti di sangue. Oppure una madre guarderà la guancia del suo bambino e gli domanderà:”Che cos’hai, lì,  una pustola?” e vedrà la carne gonfiarsi un poco, screpolarsi, e in fondo alla screpolatura apparirà un terzo occhio, un occhio beffardo. Oppure si sentiranno dolci sfioramenti per tutto il corpo, come le carezze che i giunchi dei fiumi fanno ai nuotatori. E si accorgeranno che le loro vesti son divenute cose viventi. E un altro si accorgerà che qualcosa lo solletica dentro la bocca. S’accosterà ad uno specchio, aprirà la bocca: e la lingua gli sarà diventata un enorme millepiedi vivo, che agiterà le zampe raschiandogli il palato. Vorrà sputarlo, ma il millepiedi sarà una parte di lui stesso, e dovrà strapparselo con le mani. E apparirà una quantità di cose per le quali bisognerà trovare nomi nuovi, l’occhio di pietra, il gran braccio tricorno, l’alluce-gruccia, il ragno-mascella. E colui che si sarà addormentato nel suo buon letto, nella sua dolce camera calda si risveglierà tutto nudo sopra un suolo bluastro, in una foresta di verghe rumoreggianti, rosse e bianche, erette verso il cielo come le ciminiere di Jouxtebouville, con grossi coglioni a metà fuori di terra, villosi e turgidi come cipolle.E attorno a quelle verghe svolazzeranno uccelli che le becchetteranno facendole sanguinare, e da queste ferite colerà  dello sperma, pian piano, lentamente, sperma mescolato a sangue, vitreo e tiepido, con piccole bolle. O anche, niente di tutto questo succederà, non vi sarà alcun cambiamento apprezzabile, ma la gente, una mattina, aprendo le persiane, sarà sorpresa da una specie di senso orribile, pesantemente posato sulle cose, e che sembrerà aver l'aria d'attendere. Null'altro che questo: ma per poco che questo duri vi saranno suicidi a centinaia. Ebbene, sì! Che tutto questo cambi un poco, non domando di meglio. Se ne vedranno altri, allora, piombati bruscamente nella solitudine. Uomini completamente soli, solissimi, con orribili mostruosità, correranno per le strade, passeranno pesantemente davanti a me, con gli occhi fissi, fuggendo i loro mali e portandoli con 
sé, con la bocca aperta e la loro lingua-insetto che sbatterà le ali. Allora io creperò dalle risa, anche se il mio corpo sarà coperto di luride croste sospette che sbocceranno in fiori di carne, in viole, in ranuncoli. M'addosserò ad un muro, e griderò al loro passaggio: - Che ne avete fatto della vostra scienza? Che ne avete fatto del 
vostro umanitarismo? dov'è andata a finire la vostra dignità di canna pensante? - Io non avrò paura — o almeno, non più che in questo momento. Forse che ciò non sarà pur sempre esistenza? delle variazioni sull'esistenza? Tutti quegli occhi che mangeranno lentamente un volto saranno di  troppo, senza dubbio, ma non più dei due primi. È dell'esistenza che io ho paura.



cfr. Benny Lévy, "LE NOM DE L'HOMME', Verdier, 1984

'Sartre's Nausea- Text, Context, Intertext', Alistair Rolls and Elizabeth Rechniewski eds., Rodopi 2005

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