venerdì 1 aprile 2011

note al testo di Deleuze: a proposito del marketing come controllo [Antonio Chiari]









Siamo alla fine di un ventennio incredibile, di potenza produttiva del capitalismo dei consumi che si è dato insieme o mediante la finanziarizzazione, sia che lo osserviamo dal punto di vista dei capitalisti che creavano (e creano) profitti direttamente dal denaro (denaro che crea denaro senza mediazione di merce alcuna o in cui la mediazione è la terziarizzazione, la produzione di servizi finanziari), che dal punto di vista di classe - neo marxista e non - con l’utilizzazione del “deficit spending”, quello pubblico negli anni del welfare, poi quello privato, erogato sotto forma di prestiti, mutui, carte di credito e più consono alla moderna società delle password e del controllo.

È come se tutto si sovrapponesse, si ibridasse, in divenire appunto. Divenire verso la crisi. La crisi è ora una costante visibile e materiale. Immediatamente comprensibile. Il problema non sono i pazzi, il problema è come non diventare pazzi. Cosa farne della soggettività o di quel che rimane di essa. Il capitalismo della produzione… su questo siamo tutti d’accordo: il capitalismo e i capitalisti dell’ottocento. Poi il capitalismo del consumo, la società dei consumi di massa, del marketing ossessivo e dispiegato. Il controllo sottile dell’inconscio, la produzione del desiderio, la messa al lavoro dei sogni. Più o meno cent’anni di storia del capitalismo nella sua fase consumista, dai primi balbettii che seguono la prima guerra mondiale fino ad oggi, il capitalismo che prova a mantenere il tasso di profitto massificando i consumi. Perenne o ciclica, la crisi, come il 29 o la guerra che risolve con i suoi settanta milioni di morti, poi la ricostruzione, il trentennio glorioso, i consumi compiutamente di massa in occidente e, per sostenere la produzione di merci e servizi, il debito pubblico.

I neo marxisti, Tronti, gli operaisti, già da qui introducono la forza invenzione, l'autovalorizzazione, la riappropriazione quale movimento incessante di classe. Costringono, i sessantottini lunghi e brevi, alla ristrutturazione, alla fine della società disciplinare (in parte, mai compiutamente), alla messa in crisi dei totalitarismi sovietici e cinesi. Inizia la libertà femminile, la consapevolezza della differenza come ricchezza. Il capitalismo e con lui un elite al potere di qualche milione di capitalisti transnazionali iniziano, a partire dagli anni ottanta, un nuovo cammino, in divenire. La ristrutturazione e finanziarizzazione della società sempre consumistica. Aumenta la produzione di servizi (controllo), il deficit spending si trasforma da pubblico a privato, continua si consolida la grande svolta neoliberista ove viene privatizzato tutto ciò che si può privatizzare e dove la precarizzazione del lavoro è il presupposto per riprendere il controllo versus dominio sulle lotte per il lavoro (rifiuto dello sfruttamento) e il salario. Da una parte il controllo dunque della soggettività ribelle attraverso la precarizzazione, la fine del fordismo, la nascita della fabbrica diffusa e del capitalismo cognitivo, dall'altra la ribellione contro lo sfruttamento, sempre l'autovalorizzazione.

Si può dunque leggere tutto questo come una sconfitta dei movimenti degli anni sessanta-settanta, o come una conseguenza ad essi (controrivoluzione) ma nulla è più come prima. Una società del controllo diffuso orizzontalmente a fronte di richieste di libertà individuali sempre più grandi. Il modello produttivo dispiegato resta il capitalismo e il consumo di massa. Si allargano i mercati, cadono le barriere , il muro di Berlino. La crisi del sistema sovietico inizia già con la morte di Stalin nel 53, seguita dalla rivolta operaia del 56 in Ungheria e dalla primavera di Praga del 68 terminata con l’invasione sovietica. Le società disciplinari al (versus) lavoro e i regimi di illibertà cadono uno ad uno, alla fine degli anni 80. I paesi dell’est preferiscono il controllo alla disciplina. Il controllo anche se pervasivo permette l’intelligenza dell’elusione. La disciplina è totalitaria. Gli anni novanta si manifestano nella piena espansione produttiva del capitalismo dei consumi di massa. La realtà capitalista diviene globale trasformandosi in impero. Tutto viene occupato dal mercato che si allarga spazialmente ed intensifica il controllo sottoforma di coazione al consumo. Appare potentemente la figura del consumatore. Marketing e pubblicità invadono qualsiasi spazio esterno ed interno, conscio ed inconscio. L’inconscio scompare come pure le nevrosi, mentre appaiono prepotentemente i disturbi di personalità, l’essere borderline di ognuno di noi. L’esodo dei sessantottini lunghi e brevi , ricordate gli hippy o i freak degli anni settanta, diviene sempre più difficile, quasi impossibile. Non c’è più un fuori a questo mondo, siamo sempre dentro, qualche volta contro. La coazione al consumo di cui Marcuse ci aveva detto nel suo “L’uomo ad una dimensione” è l’imperativo che accomuna destra e sinistra. Finanziarizzazione, deficit spending privato, riaccumulazione capitalistica nelle mani di una classe di ricchi transnazionali che manovrano istituzioni, banche, assicurazioni, stati e media. Estensione spaziale del mercato e del consumo. Infantilizzazione di massa attraverso il marketing. Tutti piani differenti che si intrecciano e in cui si sovrappongono punti di vista e di forza, lotte di classi e lotte singolari per sopravvivere.. alla miseria, alla pazzia, al consumo. Miliardi di persone sopravvivono con un dollaro al giorno e/o sono quotidianamente invase da migliaia di stimoli che non possono che produrre panico e pazzia (la realtà dell’infosfera, che pone la questione se siamo controllori o controllati - Facebook che cosè? Un social network? La democrazia moderna delle singolarità? Una forma di controllo sottile e continuo operato attivando il narcisismo di ciascuno di noi - ricordate il divenire borderline della società tutta?). La bulimia e l’anoressia, l’obesità di massa, il traffico caotico insostenibile, il divenire infanzia degli adulti, la serializzazione del tempo libero nelle vacanze organizzate, conformismo e iperadattamento quali nuovi scenari del disagio. Eppure il capitalismo non è in grado di sostenere la propria potenza produttiva. Il capitalismo va in crisi irrimediabilmente nel 2007.

Il capitalismo del consumo di massa e dei servizi, nonostante la finanziarizzazione e la precarizzazione del lavoro (per mantenere il saggio di profitto a fronte della sua caduta tendenziale), nonostante la globalizzazione che ha esteso alla terra tutta il mercato (per mantenere il saggio di profitto a fronte della sua caduta tendenziale), nonostante il dogma neoliberista che ha invaso il pianeta e lo strapotere di economia e tecnica sulla politica, nonostante tutto questo il capitalismo va in crisi. La più grave crisi dall’inizio della sua storia. La madre di tutte le crisi. Dal 2007 fino ad oggi.


Le risposte a questa crisi, a parte piccoli aggiustamenti finanziari operati negli Stati Uniti, sono inesistenti. Come se nulla fosse successo. Non si può credere ad una sorta di autoriforma della classe dominante dei ricchi capitalisti. Si può pensar però ad un grande inconscio all’opera. All’interno della società del controllo diffuso qualcosa succede… in profondità. La serializzazione del desiderio, cioè il marketing, questo mostro omologante, iperadattante, produce anche il suo contrario. Produce disagio, sintomi, disgusto. Le degout dicono i francesi. Il desiderio pare avere una struttura individualizzata. Desiderare la stessa cosa in milioni di persone produce la minoritarietà del disgusto, dell’esodo, della sobrietà (addirittura). Il capitalismo produce anche il non consumo. Ogni volta che noi acquistiamo oggetti, elettrodomestici, automobili, gadget la cui obsolescenza è assicurata e che presto si trasformeranno in rifiuti, introiettiamo anche un elemento depressivo. La visione infernale del ciclo dei rifiuti (a Napoli ma anche a Londra e dappertutto) ci propone la depressione come livello minimo da cui partire. Non c’è ciglio della strada, ruscello, spiaggia che non sia assediato dai rifiuti. A Parma, in Svizzera, a Bali, alle Maldive. Io credo (ottimisticamente) che ci sia una parte profonda alla coscienza che inizia a rifiutare il modello di sviluppo capitalistico con la sua produzione di servizi e merci "obsolescenti".

Deleuze parla della minorità e dice “c'è una figura universale possibile della coscienza minoritaria, questa figura è il divenire di tutti, e questo divenire è creativo”. È all’interno della mia-tua assolutà minorità che vorrei dire.

Non ho ancora iniziato a parlare del pianeta, non ho detto nulla della devastazione immane che capitalismo e socialismo, quale variante redistributiva del primo, determinano. Non è questione di idee o teorie. È questione sempre di depressione o di patologie della psiche indotte dalle dimensioni del problema. Il mantenimento del tenore di vita (concetto che non comprende solo la vita che valga la pena di essere vissuta, il miglioramento dei suoi livelli bensì lo strapotere dell’inutile, del gadget, della pubblicità, del marketing e dunque del profitto a due cifre delle grandi corporation industriali e finanziarie che arricchiscono essenzialmente l’un per cento della popolazione mondiale) comporta già ora, nonostante l’enormità della diseguaglianza sociale, un consumo del pianeta e delle sue risorse pari ad 1,3. Ci verrebbe un pianeta più un terzo di esso per soddisfare la voracità della nostra società. Difendere l’opulenza dunque è un delitto, comunque lo è, nonostante a destra e a sinistra, neoliberali e socialisti si affannino a dire il contrario. Si può tutt’al più giustificare la redistribuzione della ricchezza e dei consumi. Togliere all’occidente per dare ad oriente. Anche se l’oriente prende da solo.

Nel bel mezzo del raggiungimento, anno più anno meno del picco di estrazione di petrolio, ecco che esplode letteralmente la centrale nucleare di Fukushima. Qualcuno abbozza qua e la qualche idea. Se è vero che siamo dentro al capitalismo, irrimediabilmente, da dentro dobbiamo partire. Riemergono parole contrastate, economie de la contribution, ma anche degrowth (decrescita), dal qui ed ora della barbarie al qui ed ora del possibile. O ancora il punto di vista, lo sguardo femminile, la differenza all’opera. Il Nord Africa inizia la sua marcia verso le libertà. Dalla disciplina al controllo, dalla prigione tunisina al Cie (centro di permanenza temporaneo - centro di accoglienza?... centro di identificazione ed espulsione). Berlusconi promette il casinò a Lampedusa. L’osceno riemerge ad ogni istante.

Antonio Chiari



(POST-SCRIPTUM SULLE SOCIETA' DI CONTROLLO G.Deleuze, 1990 http://gconse.blogspot.com/2011/03/post-scriptum-sulle-societa-di.html)

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