mercoledì 26 marzo 2014

ESISTENZIALISMO! [Kasparhauser, n.7, marzo 2014]


http://www.kasparhauser.net/esistenzialismo-index.html
http://www.kasparhauser.net/giardinomente/sartre/Esistenzialismo.pdf
https://www.facebook.com/pages/Kasparhauser-Come-si-accede-al-pensiero/501112283274838

A cura di Giacomo Conserva



Questo numero di "Kasparhauser" è nato dall'incrocio di diversi desideri. C'ero io, con un lavoro iniziato e condotto per anni su Sartre. E c'era Daniel Filoni: Le notti bianche di Dostoievsky. A monte, per me, un effetto quasi-abbagliante del libro di Bernard-Henry Lévy, che ripropose il "dossier Sartre" da tanto tempo messo da parte; e, tramite lui, la lettura di Benny Lévy, già leader ultramaoista con il nome di Pierre Victor, già segretario di Sartre negli ultimi anni di lui, che leggeva Sartre con il Talmud e Lévinas (e viceversa). Da questi incontri dei filamenti di discorso si sono allargati e intrecciati, persone si sono incontrate; i nomi di parecchi di loro figurano qui sotto, altri sono comunque immaterialmente presenti in questa rete. Il numero si è formato per accrezioni successive, a partire da un nucleo primario. Questo, unito agli irrimandabili impegni di lavoro di diversi di noi, spiega la quasi totale assenza di Heidegger; gli dedicheremo il numero di settembre, pensiamo, con un'analisi approfondita degliSchwarze Hefte, i Quaderni neri (Gesamtausgabe 94, 3 voll, Vittorio Klostermann, 2014), appena usciti fra tante e tanto violente discussioni.



Introduzione
di Giacomo Conserva

In primo luogo questa è un'opera non-conclusa: intendiamo tenere aperto sul sito di "Kasparhauser" uno spazio dedicato a altri interventi, commenti ecc.. Segundo: non crediamo (penso di potere usare il "noi") né alla museificazione né alla mortale garanzia dell'Accademia né alla violenza del politicamente corretto (del Man sagt, come scriveva Heidegger: si dice che...).



Homo Oeconomicus e Uomo Massa. La filosofia del malessere negli anni della società neocapitalistica
di Sonia Caporossi

In questi tempi di crisi economica, culturale, politica e sociale fa bene, a mio avviso, riflettere sulla metafora 'escrementale', di ascendenza evidentemente freudiana, che Paolo Volponi ne Il pianeta irritabile mette in bocca al nano Mamerte detto Zuppa durante l'alterco con il governatore del sommergibile Moneta, ovvero l'ultimo uomo restante al mondo assieme a lui.



Le notti bianche
di Daniel Filoni

Tutta la storia potrebbe riassumersi, nel suo andamento discendente, nelle quattro battute finali. Il romanzo risulta costruito intorno a un accordo tematico fondamentale: il ritmo della narrazione alterna la solitudine del protagonista, nella quale si compie l'ascesa nella natura.



Dostoevskij e la vergogna di esistere
di Stefano Scrima

I barlumi messaggeri di una nuova era, che richiederebbe fondamenta teoriche inedite, già formavano parte di una traccia che Rosa M. R. Magda percorreva nel 1989 quando pubblicò La sonrisa de Saturno, il cui sottotitolo rivelava le sue intenzioni...



Considerazioni di un nauseato
di Fabio Ciriachi

Riflettevo su questo ieri mattina quando, con una nostalgia inattesa ho ripensato a mio padre, Antoine Roquentin. Ma tuo padre, obietterebbe chi mi conosce bene, non si chiamava Fernando? Non c'era forse il suo nome su quei certificati di un tempo quando era d'obbligo scrivere le generalità e ci si rallegrava per la fortuna di non dover riempire con n.n. lo spazio riservato al nome del padre?



Il giorno della marmotta. Clinica Sartriana
di Maurizio Montanari

La Nausea è un'opera che fornisce notevoli strumenti clinico-teorici utili a chi si occupa di psicoanalisi. In quell'opera le parole entravano piano, dopo le cose. Rimasi stupito dalla capacità dell'autore di descrivere il quotidiano narrando un'emozione che decantava senza essere strozzata dai vocaboli.



Una nota su La Nausea
di Giacomo Conserva

Non so quante volte ho letto La Nausea. All'inizio degli anni '60 all'istituto magistrale di Suzzara quattro ragazze crebbero nel culto (mediato da una amata insegnante) di "Sartre e la Simone". Nel '68 mi misi con una delle quattro, e infine la sposai.



Sartre vs Bataille. Il nuovo mistico vedovo di Dio e il pensiero lento del filosofo
di Daniele Baron

Che cosa è in gioco nella sfida che ha contrapposto i due pensatori francesi? Alla luce di un confronto tra le due posizioni e del loro pensiero, ci possiamo domandare se si è trattata di una vera e propria contrapposizione oppure se c’è possibilità di trovare un punto in comune.



Camus. Colpevole e felice
di Stefano Scrima

La caduta (1956) è il testamento romanzato di Albert Camus, il compendio di una vita vissuta tra gli uomini e gli incubi quotidiani, i quali, anche se annegati nei tentativi di significazione e in un’ossessiva richiesta di felicità, restano sempre lì, incrostati nell’anima.



E Baader libero
di Giacomo Conserva

Qui ci andrebbe un'introduzione sulla rimozione del lottarmatismo degli anni Settanta, dei riferimenti alla situazione in Germania, un paragone con la situazione italiana - magari con una citazione della poesia di Fortini dedicata ai morti di Stammheim ecc..



La nave
di Daniel Filoni

Una nave appena salpata che senza fretta spumeggia sulle acque, lasciandosi alle spalle il grigiore del porto appena abbandonato. Una nave grande, in legno di abete, costruita con maestria, proprio come si faceva un tempo. Attorno ad essa una foschia leggera che la avvolge sottilmente, ma senza ottenebrarla. Il cielo di sopra è grigio e non sembra felice dell'aria che lo circonda. Dei gabbiani intanto volteggiano in semicerchi, formando arabeschi non decifrabili.



INIZI (Inceptions): una riflessione sull’esistenzialismo
di Giacomo Conserva

Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.



Gli autori





martedì 25 marzo 2014

LINK: FRANCESCA BRENCIO, " Heidegger e la fede cristiana, fra Seinsfrage e attesa paolina" ["Il mio ultimo scritto su Heidegger, frutto di un Referat con il Prof. Casper qui a Freiburg"- Kasparhauser fb, 24 marzo 2014]





«Il presente viene sempre dopo l’avvenire. [...]
L’Inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi»  
Martin Heidegger


I. Heidegger e la religione

Il rapporto che Heidegger ha vissuto per tutta la sua esistenza con la religione è una delle questioni più intime e problematiche di cui si interessa la critica. Riflettere sulla dimensione religiosa in Heidegger è una sfida audace, la quale implica il riconoscimento di alcuni influssi che il suo pensiero accolse. Gadamer ricorda che egli trasse dalla filosofia di Kierkegaard le sue proprie tematiche: «Tuttavia la categoria kierkegaardiana della ripetizione, coniata proprio sulla memoria, sull’illusione di un ritorno dell’identico, divenne sbiadita, dal momento che essa non viene esperita come il paradosso della storicità, come la ripetizione dell’irripetibile, come tempo al di là di ogni tempo. Questa era l’esperienza del tempo che Heidegger riconobbe in Paolo, quella del ritorno di Cristo [...]. Soprattutto dovette trovare una conferma nei discorsi religiosi di Kierkegaard [...]. Non fu con l’aiuto della teologia, bensì nell’allontanamento dalla metafisica e dall’“ontologia” che dominavano la teologia, che la dimensione religiosa di Heidegger cercò il proprio linguaggio». [1]

La famiglia da cui Heidegger proveniva era cattolica, come è noto, e lui stesso venne educato alla religione cattolica. Dopo aver frequentato il ginnasio a Costanza, per un certo periodo fu nell’istituto dei gesuiti a Feldkirch, per poi passare alla frequentazione del Collegio Borromeo di Friburgo. La provenienza del giovane Heidegger da studi teologici è il punto di partenza delle sue indagini sul cristianesimo delle origini e sull’esperienza protocristiana della vita. In particolar modo, egli era interessato all’esperienza del tempo così come veniva percepita e vissuta nelle prime comunità cristiane, con un’insistenza sul tema dell’istante cairologico. I suoi studi su San Paolo volgono per lo più nella direzione della comprensione cristiana della “fine del tempo”. [2]

Il giovane Heidegger, allora brillante assistente di Husserl e più degno rappresentante dell’insegnamento del maestro, approfondisce il suo interesse per la filosofia della religione proprio a seguito delle sue personali vicende. Le numerose biografie su Heidegger insistono concordemente sul fatto che il suo interesse filosofico non fu mai scisso, sin dal suo sorgere, dall’interesse religioso, ma anzi l’uno si configurava come elemento di confronto per l’affermarsi dell’altro. L’incontro con il dogmatico Carl Braig, esponente della teologia sistematica, fu lo stimolo essenziale a Heidegger per la comprensione della tensione fra ontologia e teologia: nel 1909 lo studio di Vom Sein. Abriss der Ontologie (1896) apre ad Heidegger uno spazio di riflessione sul problema dell’essere e della teologia speculativa: «Da lui appresi per la prima volta, durante le passeggiate in cui potevo accompagnarlo, dell’importanza di Schelling e di Hegel per la teologia speculativa nei confronti del sistema concettuale della scolastica. Così nell’orizzonte della mia ricerca si formava la frattura fra ontologia e teologia speculativa come strutture di fondazione della metafisica». [3]

Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza dello studio di Braig per la formazione del pensiero heideggeriano in riferimento alla problematica dell’essere; l’ispirazione platonico-agostiniana e insieme francescana di questo autore è fondamentale per la sua speculazione in riferimento alla differenza ontologica. Successivamente, lo studio dei Discorsi sulla religione di Schleiermacher accrebbero la crisi religiosa che egli iniziò ad attraversare intorno al 1917, per la quale andava propendendo per un “ateismo di principio”; proprio l’attenzione rivolta a Schleiermacher gli permise un’attenta la lettura del testo di Rudolf Otto, Il sacro (1917) che rimarrà un tema privilegiato all’interno del suo Denkweg; la costante frequentazione di Meister Eckhart, di Susone, di Taulero e di Bernardo di Chiaravalle andarono ad arricchire e problematizzare il suo costante interesse religioso.

Nel 1916 la non ammissione del giovane filosofo nei gesuiti, per scarsa idoneità fisica, il progressivo allontanamento dalla diocesi arcivescovile di Friburgo si andava accompagnando ad un incontro decisivo nella sua vita: nell’estate dello stesso anno egli frequenta la giovane studentessa di economia politica dell’Università di Friburgo Elfride Petri, di confessione evangelico-luterana, sua sposa nell’anno seguente. Forse anche questa diversità di confessioni contribuì all’allontanamento di Heidegger dal cattolicesimo. [4]

Nel 1918 Krebs, professore di dogmatica a Friburgo, amico di Heidegger e della neo sposa, annota nel suo diario un colloquio avvenuto tra Elfride Heidegger e lui stesso, in cui Elfride disse:
«Mio marito non possiede più la sua fede religiosa, e io non l’ho mai trovata. Fin da quando ci siamo sposati la sua fede era minata da dubbi, ma io sollecitavo il matrimonio cattolico e speravo col suo aiuto di trovare la fede. Insieme abbiamo perciò letto molto, parlato, pensato e pregato, e il risultato è che entrambi siamo arrivati solo a pensare come protestanti, vale a dire senza il saldo vincolo del dogma; crediamo in un dio personale, lo preghiamo nello spirito di Cristo, ma senza l’ortodossia né protestante né cattolica». [5]
È proprio nel 1919 che si consuma l’abbandono della fede e l’adesione al cattolicesimo, così emerge dalla lettera all’amico sacerdote Krebs del 9 Gennaio 1919:
«Le mie convinzioni sul piano gnoseologico, che si estendono alla teoria della conoscenza storica, hanno reso per me problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo — non il cristianesimo e la metafisica in quanto tale, determinazioni che però hanno assunto un senso nuovo […]. È difficile vivere come filosofo: l’intimo amore per la verità, nei confronti di se stessi e in relazione a coloro per i quali si deve essere insegnanti, pretende sacrifici, rinunce e lotte che restano sempre estranei alla ricerca scientifica. Credo di possedere la vocazione interiore per la filosofia e per la sua realizzazione nella ricerca e nell’insegnamento, orientati alla definizione esterna dell’uomo in quanto tale; solo in virtù di questo credo di poter compiere ciò che è nelle mie forze e in questo modo giustificare davanti a Dio la mia esistenza e operato». [6]
In un curriculum vitae da lui stesso scritto nel 1922 e spedito al Prof. Georg Misch egli scrive: «A quel tempo il mio rapporto con la ricerca fenomenologica era ancora incerto. Nei principi che ispiravano il mio orientamento scientifico ritenevo ancora conciliabile la ricerca scientifica con un cattolicesimo liberamente inteso, nel senso di un interesse puramente storico per la storia spirituale del Medioevo. Sottovalutavo ancora la portata che il necessario approfondimento delle domande prime deve necessariamente avere in vista di una storia dei problemi filosofici […]. Sin dall’inizio della mia attività accademica mi fu chiaro che un’indagine autenticamente scientifica, libera da ogni riserva e da qualsiasi vincolo occulto non è possibile continuando a essere realmente fedeli al punto di vista della fede cattolica. Per me stesso, nella mia ininterrotta occupazione con il Cristianesimo delle origini, nel senso della moderna scuola di storia della religione, questo stesso era diventato insostenibile. Le mie lezioni furono proibite agli studenti di teologia». [7]

La formazione del Denkweg heideggeriano in direzione dell’ontologia come suo traguardo ultimo avviene già presto; nella sua presentazione in occasione dell’ammissione all’Accademia delle Scienze di Heidelberg, Heidegger scrisse: «Nell’anno 1907 un amico paterno, Conrad Gröber, ex arcivescovo di Friburgo, mio compaesano, mi mise in mano la dissertazione di Brentano, Sul molteplice significato dell’essere secondo Aristotele (1862). Le numerose e piuttosto estese citazioni in greco fanno per me le veci delle edizioni di Aristotele che ancora non posseggo, ma che un anno fa si trovavano sulla mia scrivania, prese in prestito dalla biblioteca dell’internato. La questione dell’“Uno e del Molteplice nell’Essere” che allora mi si presentò in modo oscuro, vacillante e incerto, resta, tra inversioni di marcia, percorsi sbagliati e perplessità, il motivo incalzante e inesausto del trattato Sein und Zeit apparso due decenni più tardi». [8]

Alla luce di queste preliminari considerazioni e proprio in virtù di questa impossibilità di scindere il fronte ontologico da quello esistenziale, appare ancora più problematico affrontare il tema del rapporto fra filosofia e teologia in Heidegger.

Dopo la fine dei sistemi forti, cioè di quelle speculazioni in grado di spiegare, giustificare e fondare la realtà more geometrico, la “morte di Dio” occupa un posto privilegiato nella speculazione novecentesca: teorizzazione hegeliana, aforisma nietzscheano, visione del mondo, impasse metafisica contro cui il filosofare stesso si è imbattuto e ha dovuto rimettersi in discussione per cercare di rispondere all’interrogativo che nasceva dal vuoto occupato dal fondamento, come origine del tutto, da ogni fondamento, sia esso religioso, trascendente o metafisico. Proprio il vuoto rivelato da questa scoperta, definita da Nietzsche come il “più grande evento recente”, mostra la caduta di quella volta del paradiso, cioè di quel cielo che copriva un mondo ordinato secondo categorie predeterminate metafisicamente dove l’uomo per secoli aveva abitato, almeno intellettualmente; con la “morte di Dio” «il “soprasensibile”, l’“aldilà” e il “cielo” sono stati annientati, rimane soltanto la terra». [9] Heidegger sembra essere uno degli ultimi filosofi a far cadere l’ultimo frammento di questa volta celeste. E in tal senso l’esito della sua riflessione ontologica rischia di apparire come un messaggio “di povertà”, con uno scarto esistenziale prima e teoretico dopo, che rimaneva ignoto alla sua interpretazione della poesia. Se, infatti, in questa sua interpretazione egli riservava alla poesia il compito di custodire e cantare il ritorno della pienezza, proprio questo era il compito ultimo che la poesia doveva assolvere; contrariamente, alla filosofia appare difficile attendere questa pienezza e patirne l’assenza. «La filosofia è giunta alla fine […]. Nella fine della filosofia si compie quella direttiva che, sin dal suo inizio, il pensiero filosofico segue lungo il cammino della propria storia. Alla fine della filosofia il problema dell’ultima possibilità del suo pensiero diviene affare serio». [10]

Se la “morte di Dio” rappresenta lo sprofondarsi della verità prima — sia essa religiosa che metafisica — nell’immanenza, nel finito, la “fine della filosofia” rappresenta l’impossibilità stessa di ridurre il pensare unicamente all’ambito del finito, creando così uno iato insuperabile che caratterizza tanta parte della riflessione contemporanea. [11] Questa duplice impossibilità da parte del pensiero, cioè impossibilità sia di essere unicamente pensiero del finito sia di essere sostenuto dal finito stesso, caratterizza in modo radicale e unico quella che Heidegger chiama la “fine della filosofia”, rendendo la fine stessa una “fine senza fine”. «La filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del dio nel tramonto». [12]

In questa “fine senza fine” anche Dio è chiamato in causa come parte assente, come figura lontana dall’uomo, il quale appare sempre di più in attesa del suo ritorno. In questo stato di cose, di attesa che attende il suo proprio compimento, l’uomo fa esperienza della sdivinizzazione, cioè di quello «stato di indecisione rispetto a Dio e agli Dei» [13] che priva le cose del loro valore, del loro senso ultimo. Se è vero che il mondo e la realtà tutta possiedono un valore ultimo, trascendente rispetto alla materialità che li contraddistingue, questo senso ultimo è ciò di cui è privato l’uomo contemporaneo nell’esperienza della sdivinizzazione, la quale sottolinea così quel vuoto che circonda tutta la realtà. Questa sdivinizzazione «esclude così poco la religiosità, che è proprio attraverso la sdivinizzazione che il rapporto agli dei si trasforma in esperienza vissuta religiosa». [14] Essa perciò non è un concetto aporetico, bensì ancipite: se da un lato non indica l’ateismo grossolano, bensì «il processo per cui l’immagine del mondo si cristianizza, ponendo a base del mondo l’infinito, l’incondizionato, l’assoluto», [15] dall’altro permette al cristianesimo di intendere «la sua cristianità come visione del mondo», rendendosi così moderno. La sdivinizzazione quindi non si configura come un concetto con cui coprire gli esiti individualistici dell’ontologia fondamentale heideggeriana, piuttosto solleva un interrogativo che smaschera ogni fede inautentica: «La presunta fede ontica in Dio non è in fondo un ateismo? E l’autentico metafisico non è più religioso dei fedeli, dei membri abituali di una “chiesa” o addirittura dei “teologi” di ogni confessione?». [16]

In tal senso, forse, si può dire che Heidegger non si sia sottratto alla considerazione del problema della fede in stretto riferimento a quanto la secolarizzazione del cristianesimo, consumatasi nel corso del XIX secolo, ha prodotto, anche se poi egli non ha mai manifestato l’intenzione di percorrere fino in fondo questa via, confrontandosi direttamente con il problema di Dio e del suo rapporto con l’uomo. Eppure, nel suo silenzio, Heidegger ha posto molti interrogativi alla teologia a lui contemporanea, sottolineando quei limiti che proprio la filosofia e la teologia hanno tracciato. Quasi per una sorta di implosione del pensiero su se stesso, a seguito di una volontà di “positività”, di dare cioè una fondazione razionale alla stessa fede e al religioso, la teologia come scienza positiva è diventata bisognosa della filosofia, di quella stessa filosofia che per secoli ha messo alla porta e che ha giudicato inadeguata.

«Della filosofia» — scrive Heidegger — «non ha bisogno la fede, ma la scienza della fede in quanto scienza positiva […]. La scienza positiva della fede ha bisogno della filosofia […] solo in rapporto alla sua scientificità, e anche questo in un modo che, pur essendo fondamentale, ha dei limiti particolari. In quanto scienza, la teologia sottostà all’esigenza di legittimare e di adeguare i suoi concetti all’ente della cui interpretazione si è fatta carico. Ma l’ente che i concetti teologici devono interpretare non è appunto svelato esclusivamente dalla fede, per la fede e nella fede?». [17]

La messa in questione di un certo sapere teologico proprio della filosofia cristiana, avviene perciò alla luce della critica che Heidegger opera nei confronti della stessa filosofia cristiana, «una specie di “ferro ligneo” e un malinteso», [18] dal momento che «la fede è quell’esistere che comprende credendo e, ponendosi nella storia, si manifesta, cioè accade, col crocifisso», [19] e quindi non necessita di alcuna filosofia. Tanto Hegel quanto Heidegger hanno ricondotto entro i confini del logos filosofico ciò che consideravano il nucleo essenziale della fede cristiana; ma, mentre per il primo esso consisteva nel dogma dell’unità dell’umano e del divino, per il secondo era l’attesa di un’imminente fine dei tempi (di un compimento definitivo e irreversibile della storia), in altri termini la proiezione, nel linguaggio del mito, dell’esperienza e del pensiero della morte. [20]


II. Introduzione alla fenomenologia della religione

Nel semestre invernale 1920/21 Martin Heidegger tenne all’Università di Freiburg il corso «Introduzione alla fenomenologia della religione». Il testo pubblicato [21] è costituito da due parti di uguale estensione: la prima è un’«introduzione metodica», cioè un’«introduzione» a un’«introduzione», mentre la seconda è l’«esplicazione [Explikation] fenomenologica dell’esperienza cristiana della vita», quale risulta dalle Lettere di Paolo di Tarso, in particolare da quella ai Galati e soprattutto dalle due Lettere ai Tessalonicesi. Attraverso il metodo fenomenologico, il giovane Heidegger vuole riportare la filosofia alle fonti primarie dell’esistenza, dal momento che essa non è altro che «ritorno allo storico-originario [Rückgang ins Urspünglich-Historisch ist die Philosophie]». [22]

Il primo confronto della fenomenologia, intesa non solo come metodo ma anche come vera e propria filosofia, è dunque con Paolo di Tarso e l’elemento storico di cui le sue Lettere trattano. Impegnarsi filosoficamente con Paolo su ciò che è «storico» vuol dire incontrare nelle lettere paoline una testimonianza di vita non conforme a quanto narrano i Vangeli sinottici. Paolo non nasce cristiano né conosce personalmente Cristo, ma diventa cristiano [Gewordensein]: l’ebreo Saulo compie un’esperienza di fede e di vita così radicale che muta il segno della sua esistenza e consegna questa stessa esperienza ai destinatari delle sue lettere. In queste il contenuto soteriologico (la parousia di Gesù) si accompagna alla dimensione strettamente personale (“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”, scrive in 1 Co 15, 12-16) e si staglia sullo scenario escatologico della temporalità storica (il kairós). Il tempo di cui Paolo, l’ebreo in lotta con se stesso e con la sua gente, narra è il tempo giusto, il kairós, per un divenire autenticamente vivente e vissuto. Ogni altro tempo, greco o moderno, non è che un «ordinamento» [Einstellung] di fatti neutri all’interno di un’«oggettività» estranea al divenire che è proprio della vita.

Questa radicalità dell’esperienza del tempo e della storicità della vita è così piena e fondante in Paolo che Heidegger non scorge qualcosa simile nemmeno in Agostino, nonostante il libro X delle Confessiones. Sebbene proprio nel semestre estivo dell’anno seguente (1921) egli terrà il corso su Agostino e il Neoplatonismo, tuttavia Heidegger scorge nel filosofo di Ippona l’inclinazione a non emanciparsi dall’«oggettività» greca: «Oggettività di Dio. Deus lux, dilectio, summum bonum, incommutabilis substantia, summa pulchritudo. […] In definitiva l’esplicazione dell’esperienza di Dio in Agostino è specificamente “greca” (nel senso in cui anche tutta la nostra filosofia è ancora “greca”). Non si perviene a una problematizzazione critica radicale, a una considerazione originaria (distruzione)». [23]

Agostino rivelerebbe, agli occhi di Heidegger, il bisogno di fare del tempo un «oggetto», bisogno questo del tutto estraneo a Paolo. Agostino collocherebbe il tempo in un «ordine» al quale resta estraneo il tempo vissuto da chi, «divenuto» cristiano, vive il tempo nell’imminenza e nell’attesa del ritorno di Cristo. Questo tempo non ha bisogno di altro quadro di riferimento che non sia il tempo stesso di un’attesa che, proprio in quanto non bisognosa di alcuna fissazione temporale, è già presenza, tempo compiuto; la religiosità cristiana vive la temporalità come tale: è un tempo senza un proprio ordine e senza posti certi. Questa temporalità è impossibile incontrarla a partire da un qualsiasi concetto oggettivo del tempo. Il “quando” non è in alcun modo comprensibile oggettivamente». [24]

Nel suo incontro con Paolo, Heidegger si sofferma su due concetti guida della sua fede e della conseguente teologia: il kairós e l’attesa. Paolo è infatti colui che, pur vivendo il tempo giusto per la propria vita e per la storia, il kairós, rimane in attesa e narra della vicinanza del ritorno glorioso di Cristo. Tutta la storia, a partire dalla promessa del ritorno, diventa così storia dell’attesa, ermeneutica dei segni che narrano l’avvento del Regno di Dio. In questo attendere, in questo esser vicini, Paolo ricorda ai “fratelli nella fede in Cristo” che il naufragio del tempo è l’inveramento del tempo; è proprio nella prima lettera alla comunità dei Tessalonicesi che Paolo scrive: «Quanto ai tempi e ai momenti, non avete bisogno, fratelli, che qualcuno ve ne scriva. Sapete voi stessi esattamente che il giorno del Signore viene come un ladro nella notte. [...] Non apparteniamo alla notte e alla tenebra: dunque non dormiamo come gli altri, ma rimaniamo svegli e sobri» (1 Ts 5, 1-7).

Se l’attesa è il perimetro di cui si alimenta la fede nella promessa (“Spe salvi facti sumus” Rm 8, 24), allora il ritardo nella ritorno del Messia è la prova della fede. Già nella seconda lettera ai Tessalonicesi Paolo introduce questo «fattore di ritardo» della venuta del giorno del Signore, e per scongiurare il pericolo di un vano agitarsi nella spasmodica attesa della fine o di un lassismo attendista dalle disastrose conseguenze morali e sociali, egli rassicura i credenti, forse eccessivamente turbati dall’imminenza ed imprevedibilità dell’avvento del Regno proclamate nella prima lettera, affermando che «prima dovranno avvenire l’apostasia e manifestarsi l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario che s’innalza sopra tutto ciò che porta il nome di Dio o riceve culto, tanto da sedersi nel tempio di Dio, mostrandosi come se fosse Dio» (II Tes 2, 3-4). Paolo è, dunque, costretto ad introdurre un «tempo intermedio», relativamente stabile e definito, se pure breve.

L’interpretazione heideggeriana del cristianesimo delle origini è stata valutata dai primi commentatori in modo molto aspro, come una appropriazione strumentale di un determinato fenomeno funzionale al progetto dell’ontologia pensato in Sein und Zeit; secondo alcuni commentatori, il rischio dell’interpretazione heideggeriana era quello di svuotare alcuni tratti caratteristici dell’escatologia cristiana. [25] In realtà, a mio avviso, il rapporto di Heidegger con il cristianesimo paolino e con la tradizione apocalittico-gnostica è molto più complesso.

L’esperienza della cristianità delle origini è per Heidegger la grande immagine storica della discontinuità del tempo, il primo atto di radicale sovversione ‘esistenziale’ della temporalità così come essa si era costituita all’interno della metafisica platonico-aristotelica poi dominante in tutta la storia dell’Occidente. Il kairós paolino è l’inserimento dell’eternità nel tempo cronologico, è lo squarcio dell’essere. [26] Vivere intimamente questa temporalità significa, come nelle prime comunità cristiane, de-cidersi per il più radicale «abbandono del tempo»; ciò necessita un’apertura all’evento in quanto avvento della promessa e una «vigilanza estrema» a cui Paolo richiama incessantemente i fedeli (analoghi appelli alla vigilanza si ritrovano nei vangeli: Lc 12, 35-40; Mt 24, 42-51 e nell’Apocalisse di Giovanni: «Ecco, vengo come un ladro. Beato chi si tiene sveglio» — Ap 16, 15).

L’interesse di Heidegger si concentra proprio sulla perfetta confluenza del fenomeno religioso con la temporalità messianica e la vigilanza estrema. Egli, infatti, così enuncia le due determinazioni fondamentali della religiosità del cristianesimo delle origini: «1. La religiosità protocristiana si dà nell’esperienza protocristiana della vita ed è essa stessa un’esperienza siffatta. 2. L’esperienza effettiva della vita è storica [historisch]. La religiosità cristiana vive la temporalità in quanto tale». [27] In particolare Heidegger si sofferma sull’annuncio dell’evento pasquale: l’annuncio della parousia non è altro che la manifestazione di un “angoscioso presagio” che getta l’uomo in una situazione di necessità [Not] e di assoluto allontanamento dal mondo. L’annuncio di Paolo, la buona novella di Gesù, è la promessa verso un’apertura che è avvenire. Proprio nell’accogliere tale annuncio si compie la trasformazione del singolo, la trasformazione della sua esistenza, decidendosi per la fede. In ciò Heidegger vede il carattere fondamentale dell’esperienza di vita del proto-cristianesimo ed in ciò consiste la decisiva attuazione della vita [Vollzug des Lebens]: «Credere significa decidersi. Il filosofare invece significa solo un libero interrogare sulle possibilità, sui rapporti esistenziali dell’esserci come tale». [28]


III. La prima lettera ai Tessalonicesi di S. Paolo

Nel corso del 1920/21 Heidegger si confronta con due lettere paoline: le due lettere ai Tessalonicesi e la lettera ai Galati.

La prima lettera ai Tessalonicesi è datata tra il 50 e il 51 d. C. e fu inviata da Corinto ai fratelli della comunità di Tessalonica. In entrambe le lettere ai Tessalonicesi Paolo è consapevole di essere «storico»: egli sa, cioè, che questo suo sapere e sapersi era impossibile prima della morte e resurrezione di Cristo. Questa sua consapevolezza è accompagnata dalla certezza di sapere che la storicità di questa «vita nuova» non è un suo privilegio personale, ma un’«esperienza effettiva di vita» che egli con-vive con tutti quelli che vivono la sua fede.

Heidegger sottolinea l’insistenza con cui Paolo collega il «sapere» dei Tessalonicesi al loro «essere divenuti». Il loro non è un sapere astratto, universale, eterno; è invece un’esperienza «fattuale», propria di chi vive di fede, è soprattutto un’esperienza che non teme il tempo ma che anzi lo vive e lo tiene vivo, perché proprio questo tempo è per loro di vitale importanza. Se non mantenessero vivo il loro essere divenuti, e se dunque non continuassero a guardarsi dalla tentazione di farne un «oggetto» da incasellare in una «teoria», verrebbe meno anche il loro «sapere» e con questo verrebbe meno anche il loro vivere, dato che «il loro essere-diventati [Gewordensein] è il loro essere attuale». [29]

Heidegger indirizza l’attenzione al «modo» [wie] con cui Paolo e i Tessalonicesi danno senso al fatto [Gehaltssinn] che ha cambiato loro la vita, e al «modo» con cui essi si pongono conseguentemente in rapporto [Bezugssinn] con se stessi, con gli altri, con Dio. Questo cambiamento non può essere «esplicato» in altro modo che facendo ricorso al metodo fenomenologico. Infatti, quando Paolo si congratula con i Tessalonicesi per il loro essersi «allontanati dagli idoli per servire Dio» (1 Ts 1, 11), Heidegger può cogliere, nel modo con cui avviene questa conversione, non tanto il semplice passare dal culto degli idoli a quello del vero Dio, ma il vero modo di rapportarsi a Dio. L’abbandono degli idoli è solo il corollario, e in questo senso non ciò che è decisivo, di una conversione più profonda, che consiste nel non rapportarsi più a Dio come a un «oggetto»: «Il rivolgersi a Dio è la cosa primaria. Da ciò, e insieme a ciò, si determina l’allontanarsi dagli εἰδωλα. Questo allontanarsi è secondario […]. Per l’esplicazione si dà il compito di determinare il senso dell’oggettività di Dio. Se Dio viene inteso come oggetto della speculazione, allora siamo di fronte a una caduta dall’autentico comprendere. Ciò lo si può percepire se si esegue l’esplicazione del contesto concettuale. Ma questo non è mai stato tentato poiché la filosofia greca si è introdotta nel cristianesimo. Solo Lutero ha fatto un tentativo in tale direzione, e da questo ci si spiega il suo odio per Aristotele». [30] Questo non pensare a Dio nei termini di un oggetto vuol dire, per Heidegger, non inserirlo nell’ordinamento [Einstellung] temporale, non conciliare la sua esistenza con gli oggetti che occupano il nostro mondo. La pensabilità di Dio nei termini di non oggettività sta tutta nella sua trascendenza e solo allorquando l’uomo si rivolge a Dio nella sua irriducibile trascendenza si dà la storicità dell’esistere. Parafrasando Kierkegaard, lo scandalo cristiano è la salvezza dell’esistenza nel tempo.

Perché Heidegger si interessa così attentamente a questa lettera?

Perché Paolo è, secondo Heidegger, maestro di fenomenologia in materia di temporalità cristiana. Il tempo cristiano è vissuto come un attendere che non è legato a un «quando» oggettivo, e per questo può essere un attendere che già ora è un incondizionato servire «il Dio vivo e vero» nel non ancora del suo ritorno. La storicità di Paolo si fonda sulla parousia, la sua temporalità si dis-vela nell’apertura della rivelazione che si sposta sempre più oltre nell’orizzonte della temporalità. La parousia è incompatibile con ogni fuga dal tempo vissuto: il “quando” del ritorno del Messia non trova posto in quella storicità che sfugge dai calcoli della mondanità. «Paolo non risponde alla domanda in senso mondano. Si tiene del tutto lontano da un procedere concernente l’aspetto conoscitivo, ma non per questo dice che la faccenda sia inconoscibile. Paolo compie la risposta mettendo l’un contro l’altro due modi di vivere: ὅταν λέγωσιν ί (v. 3), e ὑμεîς δ ί (v. 4). È decisivo come io mi rapporto a questo nella vita autentica. Da ciò viene il senso del “quando?”». [31] Lo scacco della dimensione del calcolo, dell’interesse, del tornaconto, della certezza è il centro della storicità del cristiano: «Per il vivere cristiano non si dà nessuna sicurezza; la costante insicurezza è anche ciò che è caratteristico per le significatività del vivere fattuale. La dimensione dell’insicuro non è casuale, ma necessaria. Questa necessità non è logica o naturale. Per vederci chiaro si deve riflettere sulla propria vita e sul suo compimento». [32]

Secondo Heidegger, Paolo, nel suo rapportarsi ai fedeli, fa esperienza della loro mutata condizione esistenziale [das Gewordensein] e, contemporaneamente, della loro consapevolezza di questo cambiamento. Questo particolare tipo di sapere, che scaturisce dalla «situazione» dell’esperienza cristiana di vita, determina il senso della effettività, su cui Heidegger sarebbe tornato nel semestre estivo del 1923 dedicato all’ermeneutica dell’effettività. «L’essere divenuti [das Gewordensein] non è un avvenimento qualsiasi nella vita, bensì è costantemente co-esperito, in modo che il loro essere attuale è il loro essere divenuti. Il loro essere divenuti è il loro essere attuale». [33] Il Gewordensein viene, quindi, identificato con l’accettazione dell’annuncio che avviene nella «più grande afflizione», ma tale accettazione consiste per i cristiani anche nel ricevere, come dono insperato, la gioia dello Spirito Santo (1 Ts 1, 6). L’accogliere l’annuncio comporta, dunque, nient’altro che un radicale rivolgimento [Umwendung] del modo di comportarsi nella vita effettiva e Paolo attribuisce ciò alla nuova posizione che i credenti assumono al cospetto di Dio. Accogliere l’annuncio consiste, infine, nell’accedere ad una condizione di emergenza, necessità e bisogno della vita [34] [Not des Lebens] che sopraggiunge immancabilmente non appena si è prestato ascolto alla chiamata.

Il mutamento di cui i Tessalonicesi sono consapevoli e di cui Paolo si rallegra (1 Ts 2; 3) indica l’essere divenuti sensibili a tale angosciosa emergenza che si esprime nell’apprensione per il ritardo del ritorno del Signore. Questa apprensione [Bedrängnis], in cui risiede l’essenziale della cristianità al di là di qualunque principio teologico, e che può apparire come insicurezza, smarrimento e debolezza, è, invece, la sua vera potenza rivoluzionaria, poiché in essa si concentrano i germi della rivolta escatologica del mondo.

Ma «fino a quando» durerà tale angoscia?

A questa domanda Paolo non risponde attraverso un calcolo cronologico del tempo che ancora manca all’avvento del giorno del Signore, piuttosto egli si limita ad ammaestrare sul modo in cui va vissuta l’attesa e sostenuta l’angoscia del tempo della fine (1 Ts 5, 1-12): «Decisivo è il modo in cui mi rapporto a ciò nella vita autentica [eigentlichen]. Ne risulta il senso del «quando», il tempo e l’attimo». [35] La domanda sul «quando» della parousia non è una questione conoscitiva; essa, piuttosto, rimanda a quel particolare sapere dell’autocomprensione esistenziale che i Tessalonicesi posseggono in quanto Gewordene, ossia in quanto colpiti e trasfigurati dall’annuncio, per cui ciò che è decisivo in tale domanda dipende dalla vita nella sua irriducibile effettività. Il «quando» della parousia viene riassorbito nel «come» della vita effettiva; esso rimanda sempre ad una decisione sul proprio esserci che può esplicarsi secondo due modalità corrispondenti a due forme dell’attuazione della vita, una autentica e l’altra inautentica. Scrive Heidegger, commentando il quinto paragrafo della prima lettera ai Tessalonicesi: «Coloro che in questo mondo trovano quiete e sicurezza sono coloro che si attaccano al mondo, poiché esso offre loro pace e sicurezza. [...] Il loro attendere si assorbe in ciò che la vita arreca loro. E poiché vivono in questa attesa, la rovina li colpisce in modo che non possono sfuggirle. Non possono salvare se stessi perché non hanno se stessi, perché hanno dimenticato il proprio sé; perché non hanno se stessi nella chiarezza del sapere autentico». [36]

I primi cristiani, nella loro religiosità, vivono una temporalità escatologica; vivere tale temporalità significa rinunciare a qualunque sicurezza e accettare la più assoluta precarietà ed irrisolvibile problematicità.


IV. La seconda lettera ai Tessalonicesi e la lettera ai Galati

La seconda lettera ai Tessalonicesi è datata 51 d. C. ed è inviata da Corinto. Essa è tutta centrata sulla visibilità nel tempo dell’evento escatologico che metterà fine al tempo. Nell’interpretarla Heidegger critica aspramente la tradizione esegetica che ha visto nell’introduzione dei segni preliminari della parousia del Signore un venir meno dell’angosciosa incombenza della parusia: per Heidegger, invece, nella seconda lettera non vi è nessun ridimensionamento del messaggio escatologico, anzi in essa si trova una tensione ancora maggiore: «Tutta la lettera è ancora più angustiante della prima, e non comunica un ripensamento, bensì un’accresciuta tensione». [37] L’aspetto teoretico-dogmatico di questa lettera è del tutto dipendente dall’attuazione dell’esperienza cristiana di vita e dal suo contesto spirituale. È su questo piano, infatti, che i cristiani si rapportano agli eventi escatologici e non su un piano meramente teoretico-dottrinale. L’accettazione o il rifiuto della chiamata avvengono sempre con una decisione che si colloca all’interno della situazione determinata dalla tensione dell’attesa e dalla cura che tale situazione richiede.

Proprio dal momento che l’Anticristo con i suoi prodigi e sconvolgimenti dà la «sensazione» della parousia— così come gli idoli si spacciano per Dio — esso costituisce l’estrema prova cui i credenti sono sottoposti. La sua apparizione illumina la tendenza deiettiva [abfallende] della vita, quella cioè, secondo cui, l’attesa della parousia viene intesa solo in termini oggettivi; essa, allora, non è solo un accadimento temporaneo, ma qualcosa in cui si decide il destino di ognuno. Coloro che si abbandonano [sich verfallen] all’Anticristo, vanno in rovina [verfallen] in quanto perdono la possibilità di esperire pienamente l’effettività della vita. Coloro, invece, che vivono l’attesa secondo il senso dell’attuazione [Vollzugssinn] della vita effettiva riescono a riconoscere l’inganno dell’Anticristo.

È proprio nel confronto con la concezione paolina dell’avvento dell’Anticristo che maturano i primi germi della nozione heideggeriana di Ereignis. Per Paolo, infatti, l’evento, a differenza dei semplici «fatti», non rientra nella storia ma è grazia [charis], donazione pura; esso non può essere né conosciuto né previsto in alcun modo, ad esso si può solo prestare fede. L’evento è consegnato all’incertezza dell’accettazione da parte dei fedeli che da esso vengono interpellati: esso è nudo, senza prove, senza miracoli, senza segni irrevocabilmente probanti. La precarietà e fragilità dell’evento, così inteso, è descritta dalla celebre immagine che si trova in 2 Cor 4, 7: «Ma questo tesoro l’abbiamo in vasi di coccio, affinché questa potenza smisurata sia quella di Dio e non provenga da noi». Il tesoro è l’evento della grazia che coloro che sono stati chiamati devono umilmente custodire e mantenere proprio nella sua estrema fragilità, senza credere di poter fondare su di esso una qualunque solida certezza o legge vincolante. La supremazia della grazia sulla legge, su cui insiste in più luoghi Paolo, si realizza tramite la sua «sovrabbondanza» nei confronti del peccato. Questo carattere di sovrabbondanza, di eccedenza della grazia rispetto alle costrizioni della legge, che Paolo scorge soprattutto nell’evento fondante della resurrezione di Cristo, diverrà, attraverso la mediazione del ripensamento della alétheia, uno dei tratti più importanti della figura heideggeriana dell’Ereignis.

Come poter dare senso positivo a un «compimento» che apparentemente è un ritrarsi?

Ciò è possibile se si considera che l’esperienza cristiana implica la «tribolazione». Il ritrarsi dal mondano è in tal senso un «essere divenuto», un’intensificazione di un vivere che per questo nulla perde del vissuto precedente. I pregressi rapporti con il mondo non vengono intaccati; vengono anzi conservati nell’orizzonte dell’autentica temporalità. Il «non» del «come se non», λ᾽ὡϛ μή, esprime questo loro essere divenuti che dà un senso del tutto nuovo a ciò che resta, dato che proprio il «restare» nel mondo ha acquisito un nuovo senso: «Il γεσέσϑαι è un μένειν. Nonostante ogni genere di trasformazione qualcosa resta. In che senso è da intendere il restare? Forse che il senso del restare, per quanto concerne il che cosa e il come, viene preso dentro nel divenire in modo che esso si determina proprio a partire dall’essere divenuto? Si mostra con ciò una caratteristica configurazione di senso: questi rapporti al mondo ambiente non ricevono il loro senso dalla significatività contenutistica verso cui si dirigono, ma al contrario il rapporto e il senso della significatività vissuta si determinano a partire dal compimento originario. Schematicamente: qualcosa resta immutato, e tuttavia viene radicalmente mutato». [38]

La temporalità cristiana è un’esperienza inaudita e irriducibile alle categorie dell’«oggettività». Lo schiavo divenuto cristiano resta schiavo per tutto quanto riguarda il mondo che lo circonda, ma radicalmente diverso è il modo con cui lui vive il tempo del suo restare uno schiavo. Questa sua condizione resta quella di prima, ma diventa anche radicalmente diversa in quanto vissuta nel tempo in senso nuovo, anzi in un senso per la prima volta autenticamente «temporale». Ciò non equivale a fuggire dal tempo per rifugiarsi nell’eterno, ma è «a partire dall’essere divenuto che le significatività concernenti il mondo ambiente diventano beni temporali. Il senso della fattualità rivolta in questa direzione si determina come temporalità. Finora il senso del rapporto con il mondo ambiente e il mondo degli altri fu determinato in modo puramente negativo. Ma dato che questi rapporti non hanno la possibilità di motivare il senso arcontico della religiosità dei primi cristiani, ecco che sorge la domanda positiva circa il rapporto del cristiano con il mondo-ambiente e il mondo degli altri». [39]

Vivere la temporalità cristiana significa poter fruire della possibilità, che questa sola sa donare, di rendere urgente ogni attimo di vita. Il «compimento» diviene il dovere di vivere fino in fondo tutto il tempo che ancora è dato al cristiano nell’attesa che appaia di nuovo il messia già apparso: «Resta solo ancora poco tempo. Il cristiano vive costantemente nel “solo ancora” che innalza la sua tribolazione. La temporalità compressa è costitutiva per la religiosità cristiana: un “solo ancora”; non c’è più tempo per dilazionare. I cristiani devono essere tali che quelli che hanno una moglie l’hanno a tal punto da non averla». [40]

La lettera ai Galati venne composta tra il 56/57 d. C. ed è di incerta collocazione geografica: non si sa se Paolo si trovasse ad Efeso, a Corinto o in Macedonia. Essa contiene un resoconto storico della conversione di Paolo e della lotta intestina fra fede e legge. Tutta la lettera è segnata dalla lotta: Paolo è in lotta: la sua esperienza di vita cristiana lo pone in contrasto con il mondo circostante, con la sua gente.

Di questa lettera Heidegger si limita a elencare i versetti in cui è esplicito il vissuto di chi la scrive. Là dove Paolo afferma: «In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio» (Gal 2, 19), Heidegger stringatamente commenta: «Molto importante! Forma concentrata di tutta la dogmatica paolina. ἀπέϑανεν νόμῳ διά νόμου soltanto eticamente [bloß etisch]. Dato che Cristo è divenuto identico con la legge, ecco che la legge è morta con lui (e ugualmente Paolo)». [41]

Nel vissuto di Paolo si è prodotto come un reale morire. Egli ha vissuto il morire in Cristo, non un morire qualsiasi, ma il morire alla «legge»: a qualcosa che pretende di valere a prescindere dal tempo, o meglio per paura del tempo. Paolo vive il tempo in quanto muore a ciò che vorrebbe fare morire il tempo. Questo morire a una legge di morte è quel vivere il tempo che trae costante alimento dalla fede in Cristo morto in croce. La morte di Cristo non è una morte qualsiasi: è, come Paolo afferma in Gal 5, 11, uno scandalo: «τὸ σκάνδαλον τοῦ σταυροῦ: Questo è l’autentico elemento fondamentale del cristianesimo, di fronte al quale si dà solo fede o non fede». [42] Se lo scandalo è il fondamento della fede cristiana, allora questa non può consistere in un tranquillizzante tenere per vero, una volta per tutte, fuori dal tempo. La fede basata sullo scandalo della Croce obbliga il credente a vivere il tempo, o meglio gli consente di vivere il tempo, e non più nel tempo insieme con la costante paura del tempo. Non si dà via di mezzo: o «fede» nel tempo o «non fede» insieme con la paura del tempo. Paolo vive la «vita nuova». Non solo. In questa «esperienza di vita» Heidegger coglie non la novità come fatto da aggiungere ai fatti di prima, ma «esplica» lo sbocciare in Paolo della consapevolezza della storicità di tutta la sua vita. La «comprensione storica» è il frutto della morte alla Legge e della vita nella Croce. È una scoperta cristiana. Passato, presente e futuro non sono più quelli di prima. Un vero futuro diventa per la prima volta possibile con il restare operosi nel tempo degli uomini: «Per intendere il comportamento fondamentale di Paolo è da tener presente Fil 3, 135: certezza di sé circa il posto nella sua propria vita — rottura della sua esistenza — originaria comprensione storica del suo sé e del suo esserci. A partire da ciò si compie la sua opera come apostolo e uomo». [43]


V. Conclusioni: il tempo dell’attesa

«Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono», scrive Paolo nella 1 lettera ai Corinzi. La resurrezione di Cristo, l’annuncio pasquale che la parola paolina proclama è il centro del messaggio del cristianesimo. La promessa di Cristo è quella della resurrezione del corpo, della carne, della membra che sono state attraversate dalla morte, dalla putrescenza della carne. Il greco biblico usa l’espressioneanastaseos nekron, che letteralmente significa “rialzarsi dai morti” e il senso di questa espressione va tutta a vantaggio del corpo: questo mio corpo, questa mia carne, attraversata dal dolore fisico, è ciò che risorgerà. Questa era la grande bestemmia che i sadducei imputavano a Gesù di Nazareth e che riporta la riflessione sulla resurrezione verso Gerusalemme, distogliendo la mente da quanto la filosofia greca ci ha insegnato: ad Atene, sovente si era parlato di una resurrezione dell’anima e della sua stessa immortalità, ma non così a Gerusalemme, dove poter solo pensare che il corpo potesse risorgere era bestemmiare contro l’Altissimo.

Dinanzi a questo annuncio, di cui la predicazione paolina si fa testimone, si è chiamati alla fede nel tempo dell’attesa. L’attesa è l’unico concetto in grado di fungere da nesso tra la fede, l’ontologia e la filosofia della religione: attesa che assume, all’interno della fenomenologia dell’essere di Heidegger, il tratto dell’Evento, unica “figura” in grado di restituire la pienezza e tale da condurre tutta la storia dell’essere ad una riappropriazione del suo senso originario, realizzando e compiendo il suo mistero. A differenza del poeta che, vate e custode della promessa del ritorno degli dei e della pienezza, realizza il suo compito e in un certo qual modo anche la propria pienezza, il proprio “paradiso”, nel “qui e ora” della custodia della memoria, il filosofo, e più in generale l’uomo, si trova invece sulla soglia del tempo.

«La rappresentazione storiografica della storia come successione dell’accadere impedisce di esperire in che termini la storia autentica è sempre at–tesa in un senso essenziale […]. La storia autentica è at-tesa (Gegen–wart). L’at-tesa è l’avvenire in quanto pretesa dell’iniziale, ossia di ciò che già perdura, che è essenzialmente essente, e della sua celata riunione. L’at–tesa è l’appello del già stato che, a noi diretto, ci riguarda». [44] Proprio alla luce della com-presenzialità che caratterizza il tempo, il futuro si manifesta nell’essente-già-stato. È a tal proposito che la categoria dell’attesa potrebbe risultare svuotata, privata in un certo qual modo di quel senso di mistero e di incognito che invece la caratterizza, riducendosi così a mera riproposizione di ciò che già è stato. In tal senso la riflessione heideggeriana invalida questo eventualità poiché proprio dal riconoscimento del proprium dell’essente stato si può rivelare una autentica possibilità per la comprensione del futuro, e il novum può solo far riferimento all’antico. Se l’attesa rappresenta autenticamente l’unica categoria in grado di penetrare il concetto di salvezza, tuttavia è proprio nell’attendere tale attesa che si consuma lo smarrimento dell’uomo contemporaneo. «La spaesatezza diviene un destino mondiale […]. Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come alienazione dell’uomo, affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno». [45] Questa spaesatezza caratterizza in toto ogni dimensione dell’essere e dell’agire dell’uomo, senza escludere il pensare stesso: «Il nostro pensiero non ha ancora trovato la sua strada. Incontriamo soltanto divergenti disposizioni del pensiero. Dubbio e disperazione da un lato, cieco fanatismo di principi non dimostrati dall’altro, si fronteggiano contrapponendosi. Paura e angoscia si mescolano a speranza e fiducia». [46]

La riduzione logico-scientifica del pensare, più volte sottolineata da Heidegger, il suo affrancarsi dall’elemento essenziale, cioè la domanda sul senso dell’essere, rendono lo stesso pensare prossimo alla fine. Ancora una volta la fine della filosofia è il termine ultimo con cui il pensiero deve confrontarsi. «Quella che è stata la funzione della filosofia fino ad oggi è stata ereditata dalle scienze […]. La filosofia si dissolve in singole scienze: la psicologia, la logica, la politologia», [47] la cui unificazione «sotto nuova forma si profila nella cibernetica», [48] un fenomeno non accidentale ma destinale, in quanto esso stesso iscritto nella storia della filosofia e nella sua fine. Indicativo, o forse scoraggiante per i filosofi di oggi, che il pensiero a venire, secondo Heidegger, non sia più la filosofia: «È tempo di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e quindi chiederle troppo. Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria meno filosofia e più attenzione al pensiero, meno letteratura e più cura della lettera delle parole […]. Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa. Ma il pensiero a venire non può neppure più, come pretendeva Hegel, abbandonare il nome di “amore della sapienza“ e divenire la sapienza stessa nella forma del sapere assoluto. Il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria». [49]

L’attendere l’attesa si fa un rimanere sulla soglia, in cui, un’autocomprensione critica della finitezza dell’uomo e delle sue facoltà può rendere manifesto ciò che è latente nell’essenza stessa del pensare, cioè che «la ragione glorificata da secoli è la più accanita nemica del pensiero». [50]

Scrive Heidegger: «Il tempo è povero non soltanto perché Dio è morto, ma perché […] la morte si ritrae dell’enigmatico. Il mistero del dolore resta velato. Non si impara ad amare […]. Povera è questa povertà stessa perché dilegua la regione essenziale in cui dolore, morte e amore si raccolgono». [51] Quel tempo è ora lontano. Ciò che è rimasto all’uomo è la possibilità dell’attesa di un Dio che possa modificare lo stato presente delle cose, salvando l’uomo dal baratro in cui è sprofondato. Sulla china del baratro sta la tecnica e la sua sopraffazione sulla capacità dell’uomo di saperla utilizzare; l’impianto della tecnica è ciò che reclama la spoliazione dell’uomo: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra […]. Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui oggi l’uomo vive». [52]

In questa situazione di sradicamento e di smarrimento, l’uomo può solo continuare ad attendere e disporsi ad una apertura verso l’attesa. Ciò non significa «aspettare finché all’uomo in trecento anni non venga in mente qualcosa, bensì di pensare a partire dai tratti non ancora pensati dell’età attuale verso il tempo futuro senza pretese profetiche». [53] Pensare, quindi, a partire dalle medesime domande che hanno posto in essere il pensare; pensare a partire dalla medesima provenienza e destinazione. Heidegger è molto chiaro a tal riguardo: non occorre assumere il buddismo zen o esperienze orientali del mondo. Occorre piuttosto ricondurre il pensiero dinanzi alla sua cosa — l’uomo e la sua costitutiva finitezza.

Forse, allora, l’attesa non svuota il senso dell’attendere, non consuma il senso del fare filosofia, né tradisce il compimento della promessa evangelica, bensì invera questi elementi avvicinando l’ambito escatologico della promessa al desiderio dell’uomo: la vita — oltre la morte, oltre l’orizzonte del tempo.


[1] H. G. Gadamer, La dimensione religiosa in Heidegger, trad. it. a cura di G. Moretti, in “Itinerari”, 1980, n. 3, pp. 11 e ss..

[2] Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa (1920/1921), trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003, p. 142 e s..

[3] Testimonianza di Heidegger riportata in H. Ott, Heidegger. Sentieri biografici, trad. it. a cura di F. Cassinari, Sugarco, Milano 1990, p. 56.

[4] Come ricorda Ott, la difficoltà da parte dei genitori di Heidegger di accettare un matrimonio del figlio con una donna di confessione diversa era evidente.

[5] Colloquio tra Elfride Heidegger e padre Krebs riportato dal diario di quest’ultimo in H. Ott, Heidegger. Sentieri biografici, cit., p. 99.

[6] Ivi, cit., p. 98. Come ricorda Ott, «è però decisivo che Heidegger non riuscisse più a trovarsi nella Chiesa cattolica, nel sistema del cattolicesimo, da lui sentito come vincolo extrafilosofico, ma si riconoscesse invece nel cristianesimo, cioè nella tradizione del Nuovo Testamento e forse di quella della Patristica, sebbene egli si astenga dal fare dichiarazioni più precise in merito» (Ibidem).

[7] M. Heidegger, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita (1910 – 1976), trad. it. a cura di N. Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, p. 42.

[8] H. Ott, Heidegger. Sentieri biografici, cit., p. 51.

[9] M. Heidegger, Nietzsche (1946), trad. it a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 569.

[10] M. Heidegger, Filosofia e Cibernetica (1984), trad. it. a cura A. Fabris, ETS, Pisa 1988. p. 30 e s..

[11] Cfr. F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne Editrice, Roma 2013.

[12] M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare (1985), trad. it. a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987 p. 136.

[13] M. Heidegger, «L’epoca dell’immagine del mondo», in Sentieri Interrotti (1950), trad. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 73.

[14] Ivi, p. 73.

[15] Ivi, p. 72.

[16] M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, Klostermann Verlag, F. am Main 2007, p. 211.

[17] M. Heidegger, «Fenomenologia e teologia», in Segnavia (1961), trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 18.

[18] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica (1935), trad. it. a cura di G. Masi, Mursia, Milano 1967, p. 19. [19] M. Heidegger,Fenomenologia e teologia, cit., p. 11.

[20] C. Angelino, Il religioso nel pensiero di Martin Heidegger, in M. Heidegger, L’abbandono (1959), trad. it. a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1989, p. 14.

[21] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», in Id., Phänomenologie des religiösen Lebens, Gesamtausgabe 60, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, pp. 1-156. Gli editori, Matthias Jung e Thomas Regehly, nonostante le accurate ricerche compiute, non hanno rinvenuto il manoscritto di questo corso. Il testo pubblicato è frutto della collazione di alcune trascrizioni stenografiche da parte degli uditori. L’opera è stata tradotta in italiano da G. Gurisatti per Adelphi: M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2003.

[22] Ivi, p. 90.

[23] M. Heidegger, «Agostinus und der Neuplatonismus», in Id., Phänomenologie des religiösen Lebens, Gesamtausgabe 60, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, p. 292.

[24] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., p. 104.

[25] Prima della pubblicazione dei corsi friburghesi del semestre invernale 1920/21 su Paolo e il cristianesimo primitivo, Otto Pöggeler si sofferma sull’accentuazione heideggeriana di storicità e attualità dell’esperienza di vita dei primi cristiani: «Secondo Heidegger [...] l’esperienza di vita protocristiana è un’esperienza reale e storica, un’esperienza della vita nella sua attualità, proprio perché essa vede nel senso del compimento, non nel senso del contenuto, la struttura dominante della vita. [...] Attraverso la riflessione sulla religiosità protocristiana come modello dell’esperienza reale della vita, Heidegger si impadronisce di quei concetti-chiave che pongono in luce la struttura della vita reale, o come dirà Heidegger più tardi, della ‘esistenza reale’» (O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, trad. it. di G. Varnier, Guida, Napoli 1991, pp. 41-42). Per Thomas Sheehan, Heidegger analizza il fenomeno del cristianesimo delle origini con l’intento di rinvenire quella temporalità originaria e autentica che è al centro di Sein und Zeit; lo scopo di Heidegger sarebbe, quindi, «l’elaborazione del significato di temporalità dell’escatologia di San Paolo. [...] La tesi fondamentale di Heidegger è la seguente: l’autentica relazione cristiana con la Parousía fondamentale non è l’attesa di un evento futuro. [...] Riferirsi autenticamente alla Parousía significa «vegliare», non il mero aspettare con ansia un evento futuro. Il problema del «quando» della Parousía si riduce alla questione del «come» della vita, e cioè wachsam sein, all’essere svegli. [...] Il significato della fattività è la temporalità, e il significato della temporalità è determinato nella relazione individuale con Dio. [...] La vita religiosa cristiana non è nient’altro che il vivere all’interno di questa unica temporalità» (T. Sheehan, «Heidegger e il suo corso sulla Fenomenologia della religione (1920-21)», in “Filosofia”, XXXI 3, 1980, pp. 443-444). Per Karl Lehmann, Heidegger vuole separare il contenuto della temporalità del cristianesimo delle origini dalla forma della temporalità escatologica: «Il kairós non è solo una ‘possibilità’, ma è sentito come una costante ‘minaccia’. [...] Se la riflessione filosofica include il kairós e l’‘essere’ ad esso collegato nella storia dell’attuazione [Vollzugsgeschichte] della vita umana, allora si presenta il pericolo che i momenti costitutivi di una simile esperienza vengano negati proprio nella loro diversità e ridotti alle usuali strutture soggettive ed immanenti» (K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger, p. 146). Sul rapporto tra la critica mossa da Heidegger alla soggettività metafisica e la temporalità cairologica del protocristianesimo cfr. D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textgeschichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, pp. 153-161. Sull’interpretazione heideggeriana della temporalità cairologica nel cristianesimo primitivo cfr. U. Regina, L’esistenza cairologica, in Servire l’essere con Heidegger, Morcelliana, Brescia 1995; J. Greisch, L’arbre de vie et l’arbre du savoir. Le chemin phénomenologique de l’herméneutique heideggérienne (1919-1923), Les Éditions du Cerf, Paris 2000, pp. 185-218; A. Ardovino, Heidegger. Esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale (1919-1927), Guerini, Milano 1998, pp. 85-112.

[26] Su questo tema rimando a S. Gorgone, Il tempo che viene. Martin Heidegger. Dal kairós all’Ereignis, Guida, Napoli 2005.

[27] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., p. 80.

[28] B. Casper, «L’esistenziale della tentatio», in AA. VV., Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’Epistolario paolino, a cura di A. Molinaro, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, p. 34.

[29] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., p. 94.

[30] Ivi, p. 97.

[31] Ivi, p. 99.

[32] Ivi, p. 105.

[33] Ivi, p. 94.

[34] Il tema della Not ritorna in vari luoghi delle opere di Heidegger, soprattutto nei Beiträge e nei corsi degli anni ’30 e ’40, ma raggiunge la sua più radicale formulazione in uno scritto della metà degli anni ’40 (Die seinsgeschichtliche Bestimmung des Nihilismus). Cfr. M. Heidegger, «Die seinsgeschichtliche Bestimmung des Nihilismus (1944-1946)», in Nietzsche, Neske, Pfüllingen 1961.

[35] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., pp. 99-100.

[36] Ivi, p. 103.

[37] Ivi, p. 108.

[38] Ivi, p. 118.

[39] Ivi, p. 119.

[40] Ivi, pp. 119-120.

[41] Ivi, p. 70.

[42] Ivi, p. 71.

[43] Ivi, pp. 73-74.

[44] M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo (1957), trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2002, p. 113 e s..

[45] Ivi, p. 292.

[46] M. Heidegger, Che cos’è la filosofia? (1955), trad. it. a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1981, p. 45.

[47] M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 139 e s..

[48] M. Heidegger, Filosofia e cibernetica, cit., p. 33.

[49] Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 314 e s. Sul tema della fine della filosofia, Cfr. P. De Vitiis, Heidegger e la fine della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1974.

[50] M. Heidegger, «La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”», in Sentieri interrotti, cit., p. 246.

[51] M. Heidegger, «Perché i poeti?» in Sentieri interrotti, cit., p. 252 e s..

[52] M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 134 e s..

[53] Ivi, p. 144.

http://www.kasparhauser.net/a-teismo/Brencio-Heidegger-Paolo.html

lunedì 17 marzo 2014

LINK: Zoapod 7: Dreams Unlimited – J. G. Ballard and Blake/ ZOAMORPHOSIS, The Blake 2.0 Blog [http://zoamorphosis.com/2010/03/zoapod-7-dreams-unlimited-j-g-ballard-and-blake-transcript/]



Zoapod 7: Dreams Unlimited – J. G. Ballard and Blake (Transcript)

Transcript of Zoamorphosis podcast. To listen to the full podcast click here.


1. Welcome to Zoamorphosis podcast 7. This podcast will concentrate on an author who has actually been a longer (though not as deep) influence on my own life and thought, J. G. Ballard, who died in April 2009. I first began reading Ballard’s science fiction when I was thirteen, around the same time that I first really started to become interested in Surrealism. Although my interest in both was slightly displaced by a love for the Romantics (which I had tried – and failed – to read around the same time), both Ballard and Surrealism were in many ways a primer for my own love of Blake’s writing and art.
2. Ballard’s own fascination with Surrealism influenced his speculative novels, whether those set in almost familiar locales in near future settings, such as Vermilion Sands or The Drowned World, or impossible dreamscapes such as The Crystal World and The Unlimited Dream Company (as well, of course, as absurdist contemporary dramas, of which Crash and Cocaine Nights are the most famous examples). It is in The Unlimited Dream Company (1979) that Ballard comes closest to Blake’s vision of London, having as it does a central character called Blake and loosely following the unfolding lines of Milton a Poem.
3. In Blake’s Milton, the poem begins with Milton unhappy though in heaven who, upon hearing the song of a bard about the struggles between Satan as one of the self-righteous and his brothers Palamabron and Rintrah, leaves Paradise to reclaim the lost female part of himself that he abandoned to enter this restrictive Eden. There he encounters both Blake and the projected, eternal form of Blake, the Prophet Los, and also Satan who he realises is his own shadow. In Ballard’s novel, there is no bardic prophecy in heaven: rather Blake is a psychologically disturbed young man working in a London airport who steals a Cessna airplane and crashes it in Shepperton, the suburb where Ballard lived for most of his adult life. Before providing these details, The Unlimited Dream Company opens with a sacred and profane, mundane and exotic description of the streets that owes much both to the beautiful nightmares of the Surrealists and Blake’s visionary psychogeography of London:
4. Soon there will be too many deserted towns for them to count. Along the Thames valley, all over Europe and the Americas, spreading outwards across Asia and Africa, ten thousand similar suburbs will empty as people gather to make their first man-powered flights. (UDC 9-10).
These lines echo those in Milton, where Ololon says:
5. Where once the Cherubs of Jerusalem spread to Lambeths Vale
Milcahs Pillars shine from Harrow to Hampstead where Hoglah
On Highgates heights magnificent Weaves over trembling Thames
To Shooters Hill and thence to Blackheath the dark Woof! Loud
Loud roll the Weights & Spindles over the whole Earth let down
On all sides round to the Four Quarters of the World, eastward on
Europe to Euphrates & Hindu, to Nile & back in Clouds
Of Death across the Atlantic to America North & South (35.10-17, E135)
6. In Milton, this scene depicts the spread of the druidic death cult across the world, Blake’s code for organised religion and materialist philosophy of his day. Ballard’s infestation of the world is more ambivalent, a return to a rampant, chaotic, psychotically gorgeous proliferation of jewelled nature. Before this can happen, however, his protagonist realises that he cannot leave Shepperton, cannot cross the wasteland that lies between the suburb and London. Attempting to prove his domination, he indulges a sick dream within the city, engorging himself in magical, illusory masculinity that gains power by rape and dreams of rampant fecundity, literally absorbing the inhabitants of the town as he attempts to gain the strength to fly away from the mundane highways and shopping centres.
7. For a time it almost appears that Ballard wishes us to indulge his antihero’s sickness, so compelling is the vivid life-in-death that supplants the monochrome existence of Shepperton’s ordinary inhabitants. He is Luvah-Orc bursting out as a pagan deity, a mixture of Aztec god and Charles Manson. Blake believes that if only he can absorb enough energy he will be able to fly:
8. Alone now in the sky, I moved in huge strides across the air. I had become an archangelic being of enormous power, at last strong enough to make my escape… I needed their young bodies and spirits to give me strength. They would play forever within me, running across the dark meadows of my heart. (UDC 160, 163)
9. For all this apparent energy, however, this superhuman strength, Blake becomes less able to leave than ever. Only slowly he realises that his sadism and violence is not the energy of release, but instead binds him to this hell that continues to sicken him even as it burns more brightly with his own infernal colours. Submitting to the desires of his libido to overturn the repressive super-ego that had beaten him into a poverty of existence in daily life, his apparent sovereignty merely exchanges one master for another. It is only when he recognises his own guilt that he is able to confront and forgive the demon that prevents him leaving this inferno, the skeleton of the dead pilot that lies in the Thames. This struggle echoes that of Milton at the end of the original poem:
10. Satan! my Spectre! I know my power thee to annihilate
And be a greater in thy place, & be thy Tabernacle
A covering for thee to do thy will, till one greater comes
And smites me as I smote thee & becomes my covering.
Such are the Laws of thy false Heavns! but Laws of Eternity
Are not such: know thou: I come to Self Annihilation …
Thy purpose & the purpose of thy Priests & of thy Churches
Is to impress on men the fear of death; to teach
Trembling & fear, terror, constriction; abject selfishness
Mine is to teach Men to despise death & to go on
In fearless majesty annihilating Self, laughing to scorn
Thy Laws & terrors[.] (38.29-42, E139)
11. In The Unlimited Dream Company, Blake is dead, and the corpse he confronts is his own. Unable to cast off the remnants of his former life, clinging to desires of selfhood that have only brought him woe, Ballard’s Blake is a re-reading and transformative salvation of William Blake, having him descend to Shepperton to cast off his own religious righteousness in the same way that the Romantic poet had rewritten the works, philosophy and theology of John Milton.






About

And the Four Zoa’s clouded rage East & West & North & South
They change their situations, in the Universal Man.
Albion groans, he sees the Elements divide before his face.
(Jerusalem 32.25-7, E178)
The Zoamorphosis Blog is part of a wider project, Blake 2.0, which is designed to take advantage of latest technologies to provide new ways of disseminating information and research about William Blake.
This site has grown out of research on the reception of William Blake, how he has been used by artists, writers and other figures in the post-war period). As such, Blake 2.0 is also concerned with the ‘second life’ – virtual and otherwise – of Blake, and this site offers new ways to present information about the artist’s works as well as encouraging innovative thinking about how we can engage with those original illustrations and texts.
Zoamorphosis.com is a magazine-style blog that provides updates on various uses of Blake in the arts, media, popular culture and some areas of scholarship, with news of Blake sightings in the press and elsewhere. In addition, you can follow regular posts on Twitter by going to http://twitter.com/blake2_0.
Why Zoamorphosis? Blake developed a personal mythology which revolved around four beings – his four zoas – who were engaged in conflict and war with each other but, when working in harmony, came together to form the perfect man. One of the exceptional features of Blake’s influence on later figures is that they tend not to approach him with reverential awe but rather engage in happy and fruitful mental fight, rather in the spirit of Blake’s own approach to earlier writers and artists such as Milton and Michelangelo. Zoamorphosis, then, is my name for the process of struggle and creative conflict that takes place between Blake and those who appreciate his art and poetry: without contraries is no progression, as Blake once wrote, and this site is dedicated to tracking down the various mutations and flowerings that have appeared and continue to appear in the twenty-first century.

About the editors

Jason Whittaker is Professor of Blake Studies at University College Falmouth in Cornwall. He is the author and editor of eleven books, including Radical Blake: Influence and Afterlife from 1827 (with Shirley Dent, Palgrave 2002), Blake, Modernity and Popular Culture (with Steve Clark, Palgrave 2007) and Blake 2.0: William Blake and Twentieth Century Art, Music and Culture (with Steve Clark and Tristanne Connolly, forthcoming, Palgrave 2011). He has also written extensively on new media and was previously the editor of the magazine PC Advisor. For more information, please visit jasonwhittaker.co.uk or falmouth.ac.uk.
Roger Whitson is a Marion L. Brittain Postdoctoral Fellow at the Georgia Institute of Technology. He is the author of several articles on Willliam Blake published byRomanticism on the Net and Interdisciplinary Literary Studies. He is also co-editor of the William Blake and Visual Culture special issue of ImageTexT: Interdisciplinary Comics Studies. He has a forthcoming article titled “Digital Blake 2.0″ for the book collection Blake 2.0: William Blake in Twentieth-Century Art, Music and Culture edited by Steve Clark, Tristanne Connolly, and Jason Whittaker. He is currently editing a collection on comics and post-Deleuzian philosophy called The Ontographical Imagination: Space, Time, and the Graphic Novel with Charlie Blake of Liverpool Hope University. For more information, please visit gatech.edu.

Other sites in the Blake 2.0 Network


lunedì 10 marzo 2014

LONDON CALLING: Anthony Stadlen's 2014 SEMINARS [http://anthonystadlen.blogspot.com/]






from a mail:

Dear colleague,

I should like to draw your attention to the overall pattern of the Inner Circle Seminars for 2014. This year includes the 50th anniversary of Laing and Esterson's fundamental book Sanity, Madness and the Family: Families of Schizophrenics, published in 1964. It also includes the 25th anniversary of Laing's death.
We shall be starting a new subseries of eleven seminars, over the coming three years, one devoted to each of the eleven families in the book. This year, 2014, all seminars explore in some way the context of this book, in ways I shall sketch below. (The first two of the eleven have, of course, already taken place.) As you will see, six most distinguished international speakers will be conducting six of the eleven seminars.

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On 19 January, Professor Paul Weindling, who in 2012 conducted a horrifying seminar on the Nazi extermination of the "mentally ill" and "mentally handicapped", reported on his extraordinarily comprehensive research on Dr John W. Thompson, the psychiatrist who, starting from his experience with victims of the Nazi concentration camps, was responsible for ensuring the criminal trials of some of  the doctors involved. He also pioneered a form of existential therapy that impressed Laing -- who said Thompson was the only person who knew more than he about "schizophrenia" -- and many other leading psychiatrists, psychotherapists, writers and poets. Thompson thus prepared the way for existential psychotherapy and for Laing and Esterson's epochmaking research and book.

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On 16 February, Dr Susannah Wilson, who had already conducted an acclaimed seminar on Camille Claudel's incarceration in a madhouse, conducted a seminar on the autobiography of an earlier incarcerated French "madwoman" of the 19th century, Hersilie Rouy. Susannah Wilson took issue with most of the secondary literature on Rouy, including Jeffrey Masson's account in Against Therapy. She argued that much of this literature tries to prove that Rouy was "sane", as if her incarceration would have been justified if she were "insane".

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On 16 March, we shall study Laing and Cooper's Reason and Violence: A Decade of Sartre's Philosophy 1950-60, published the month before Sanity, Madness and the Family. Laing and Cooper, with Sartre's strong endorsement, give a lucid, closely argued exposition of Sartre's Saint Genet, Questions of Method, and Critique of Dialectical Reason. This is the philosophical groundwork for Sanity, Madness and the Family. It also shows admirably how psychoanalysis, American sociology, anthropology, Marxism etc. may be integrated dialectically into an overall deveoping view of history always acknowledging, above all, the individual's freely chosen praxis is axiomatic. But we shall ask whether all this complexity is necessary to understand that human beings are free agents not automata. (Might not Thomas Reid's Scottish Common Sense Philosophy have served as well?)

We shall also note that, while Laing and Cooper make much of "violence" as the opposite of "love" or "reason",  they follow a trend that  Hannah Arendt was to criticise in Sartre's Critique (which influenced Fanon, as we shall see later in the year): the idealising by intellectuals of violence by the oppressed as a good in itself. We shall also look at how Laing and Cooper use the word "violence": Laing claims that the mother's first kiss is an act of "violence" and Cooper looks forward to a revolution entailing the "compassionate" use of machine-guns and bombs.

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On 27 April we celebrate the fact that this is both the 50th anniversary month of the publication of Sanity, Madness and the Family and the 450th anniversary month of Shakespeare's birth. This is, in a way, the key seminar of 2014. We shall point to parallels between what might be termed Shakespeare's existential-phenomenological social studies and Laing and Esterson's family dramas. This will be the first of a set of seminars on "'Sanity', 'Madness' and Shakespeare" interlacing the eleven seminars on the eleven Laing and Esterson families.

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On 18 May, anyone tempted to create an idealising personality cult of Jean-Paul Sartre and Simone de Beauvoir will be rudely brought down to earth by the distinguished author Carole Seymour-Jones's devastating and disillusioning account of the squalid way in which these people, with their "necessary" relationship, actually conducted their "contingent" personal and political relationships. She will present material from her researches on which her book A Dangerous Liaison: Simone de Beauvoir and Jean-Paul Sartre is based. Those who attended Carole Seymour-Jones's superb seminar on the psychiatric incarceration of T. S. Eliot's first wife Vivienne know the quality of her work.  

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On 22 June, Sarah Wise, author of the fine book Inconvenient People, will focus on another celebrated 19th-century alleged "lunatic", John Perceval, whose autobiography, republished with an introduction by Gregory Bateson, was recommended by Laing, Esterson and Cooper in lectures and seminars at Kingsley Hall in the 1960s. Bateson's profound introduction to Perceval's Narrative was taken by Laing as a paradigm of how to understand a "psychotic breakdown" as a "voyage in inner space and time...a natural way of healing our own appalling state of alienation called normality". Thus began the 1960s romanticising of "madness", a distraction from Esterson's serious work in Sanity, Madness and the Family. Esterson deplored Laing's messianic manner and mannerisms, but he too endorsed Bateson's understanding of Perceval. Susan Wise will report her further research findings to help us make socially intelligible how John Perceval came to be locked up.

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On 6 July and 28 September, we shall start the eleven detailed seminars on the eleven families of Sanity, Madness and the Family: Family 1, the Abbotts; Family 2, the Blairs.

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On 19 October, Professor Richard Rojcewicz, former Executive Director of the Simon Silverman Phenomenology Center at Duquesne University, Pittsburgh, will give a careful reading of Martin Heidegger's 1954 essay "Die Frage nach der Technik" ("The "Question Concerning Technology"). Richard Rojcewicz is one of the world's finest Heidegger translators, and his book The Gods and Technology: A Reading of Heidegger stands out in a revelatory way from the other secondary literature on Heidegger's essay on technology. Laing gave a talk, "Violence and Love", at the Institute of Contemporary Arts in London in 1964, just before Sanity, Madness and the Family was published. Laing quoted Heidegger's sentence "The Dreadful has already happened" from his essay "The Thing", which is closely linked to his essay on technology. Thus Heidegger's thinking of the 1950s was -- with Sartre's -- very much part of the context of Sanity, Madness and the Family. It is likely that participants at this seminar, having heard Richard Rojcewicz's fundamental elucidation of  Heidegger's essay, and read his new translation of it (which he will supply), will feel they have really begun to understand it for the first time.

Please note that this a subscription seminar, which must be booked by 19 April.

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On 16 November, we shall study the writings of Frantz Fanon (20 July 1925 – 6 December 1961), a Martinique-born, French-trained psychiatrist who worked in colonial Algeria. His writings (all in French) have inspired many independence movements. His Black Skin, White Masks (1952) was influenced by existential phenomenology and psychoanalysis. Jean-Paul Sartre, whose Critique of Dialectical Reason (1960) was a major influence on Fanon’s The Wretched of the Earth (1961), enthusiastically endorsed in his preface to that book Fanon’s thesis of the ‘cleansing’ power of revolutionary violence, which Fanon stated thus:

Violence alone, violence committed by the people, violence organised and educated by its leaders, makes it possible for the masses to understand social truths and gives the key to them. Without that struggle, without that knowledge of the practice of action, there’s nothing but a fancy-dress parade and the blare of the trumpets. There’s nothing but a minimum of readaptation, a few reforms at the top, a flag waving: and down there at the bottom an undivided mass, still living in the middle ages, endlessly marking time.

As Sartre put it:

The rebel’s weapon is the proof of his humanity. For in the first days of the revolt you must kill: to shoot down a European is to kill two birds with one stone, to destroy an oppressor and the man he oppresses at the same time: there remain a dead man, and a free man...

Hannah Arendt criticised this thesis in On Violence (1970). David Macey, in his biography of Fanon (2001), writes:

He certainly had a talent for hate and he did advocate and justify a violence that I can no longer justify. And yet, his first readers sensed in his work a great generosity.

There is, indeed, far more to Fanon than the advocacy of violence. To give just one example: his classic account of the police torturer who consults him as a psychotherapist to help him continue torturing but without feeling guilt is essential reading for psychotherapists of any school in any society.
  
R. D. Laing identified Fanon as one of a select few (“Artaud, Merleau-Ponty, Fanon, Marcuse, Grass”) with whom “truly contemporary experience and thought begins”. In today’s seminar we shall study Fanon as a great, if problematic, existential pioneer. We shall draw on his two books mentioned above, on his Studies in a Dying Colonialism (1959) and For the African Revolution (1964), and on Macey’s fine biography.

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On 14 December, we bring the year to an end with a seminar on his father conducted by Adrian Laing, son of R. D. Laing. Throughout 2014 we have explored Laing and Esterson’s Sanity Madness and the Family (1964) and its social and philosophical context fifty years ago. By 1966 the collaboration between R. D. Laing and  Aaron Esterson was virtually at an end (though they wrote a fine preface to the second edition of 1970). Esterson saw Laing as engaged in a frivolous, destructive messianic quest. According to Adrian Laing, his father "loved sitting up on a stage, with disciples at his feet, being adored but never challenged. He loved being treated as a guru – too much for his own good." To this day there are former colleagues of Laing who suppose that his repeated insulting, drunken and violent behaviour to them and their friends was the subtle intervention of a master psychologist and spiritual guide, therapeutically and esoterically designed to correct their idealisation of him. Nevertheless,Laing’s brilliant writing an Esterson’s original, revolutionary research made their book of 1964 a masterpiece.

Adrian Laing is a barrister. He is a former student of Michel Foucault and friend of David Cooper, and author of R. D. Laing: A Biography (1994) [second edition: R. D. Laing: A Life (2006)] and the novel Rehab Blues (2012), written as "laughter therapy", which satirises "therapies" such as "rebirthing" practised by his father. He is uniquely qualified to facilitate our quest for a balanced assessment of his father.

Please note that this is a subscription seminar, which must be booked by 14 June.

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There are significant reductions if you want to book for the remaining nine seminars of 2014.

You can find details of this year's remaining seminars and how to book for them below, or at
http://anthonystadlen.blogspot.com. I hope you will be able to come to at least some of them.  

With best wishes,

Anthony Stadlen


INNER CIRCLE SEMINARS
March 2014  to December 2014

Conducted by:  Anthony Stadlen (unless otherwise stated, in which case they are introduced by him)

Time:  Sundays, 10 a.m. to 5 p.m.

Venue:  Durrants Hotel, 26-32 George Street, Marylebone, London W1H 5BJ (http://www.durrantshotel.co.uk/) (unless otherwise stated)

Cost: Students and psychotherapy trainees £116; others £145 in advance; all-day mineral water and liquorice allsorts, morning and afternoon coffee, tea and biscuits, included; some bursaries; reductions for a year’s seminars. and for some other combinations of seminars; no refunds or transfers unless seminar cancelled

Apply to:  Anthony Stadlen, "Oakleigh", 2A Alexandra Avenue, London N22 7XE
Telephone:  +44 (0) 20 8888 6857  Email:  stadlen@aol.com 

16 March 2014
Inner Circle Seminar No. 201
REASON AND VIOLENCE;
A DECADE OF SARTRE'S PHILOSOPHY, 1950-1960
(R. D. Laing and David Cooper, March 1964)
A 50th-anniversary revaluation
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/01/laing-cooper-reason-and-violence-1964.html)

27 April 2014
Inner Circle Seminar No. 202
"SANITY", "MADNESS" AND SHAKESPEARE
1. For the 450th anniversary of Shakespeare's birth (23 April 1564)
and the 50th anniversary of Laing and Esterson's Sanity, Madness and the Family (April 1964)
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/01/sanity-madness-and-shakespeare-inner.html)

18 May 2014
CAROLE SEYMOUR-JONES
CONDUCTS
Inner Circle Seminar No. 203
A DANGEROUS LIAISON
Jean-Paul Sartre and Simone de Beauvoir
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/04/carole-seymour-jones-conducts-dangerous.html)

22 June 2014
SARAH WISE
CONDUCTS
Inner Circle Seminar No. 204
LOCKED UP: "PATIENTS" AND THEIR GAOLERS
12. JOHN PERCEVAL
(1803-1876)
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/12/locked-up-patients-and-their-gaolers-12.html)

6 July 2014
Inner Circle Seminar No. 205
LAING AND ESTERSON
SANITY, MADNESS AND THE FAMILY
Families of Schizophrenics
50 years on
Family 1: The Abbotts
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/12/laing-esterson-1-abbotts-50-years-on.html)

28 September 2014
Inner Circle Seminar No. 206
LAING AND ESTERSON
SANITY, MADNESS AND THE FAMILY
Families of Schizophrenics
50 years on
Family 2: The Blairs
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/12/laing-and-esterson-sanity-madness-and.html)

19 October 2014
RICHARD ROJCEWICZ
CONDUCTS
Inner Circle Seminar No. 207
EXISTENTIAL PIONEERS
19. MARTIN HEIDEGGER
(1889-1976)
The Question Concerning Technology (1954)
An elucidation 60 years on
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/12/existential-pioneers-19-martin.html)

16 November 2014
Inner Circle Seminar No. 208
EXISTENTIAL PIONEERS
20. FRANTZ FANON
(1925-1961)
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2013/12/frantz-fanon.html)

14 December 2014
ADRIAN LAING
CONDUCTS
Inner Circle Seminar No. 209
R. D. LAING
remembered by his son
25 years after his death
50 years after Sanity, Madness and the Family
(http://anthonystadlen.blogspot.co.uk/2014/01/r-d-laing-b-his-son-adrian-laing-inner.html)

Anthony Stadlen founded the Inner Circle Seminars in 1996 as an ethical, existential, phenomenological search for truth in psychotherapy. They have been kindly described by Thomas Szasz as "Institute for Advanced Studies in the Moral Foundations of Human Decency and Helpfulness". But they are independent of all institutes, schools and colleges.

The Inner Circle Seminars take place on Sundays, and last from 10 a.m. to 5 p.m. (occasionally to 10 p.m.). Most are conducted by Anthony Stadlen, but many have been conducted by international authorities in a number of disciplines, including Laura Barnett, Alexandra Birkert, Rachel Blass, Vladimir Bukovsky, Havi Hannah Carel, Alessandra Comini, Barry Cooper, Susan Cooper, Ernst Falzeder, Tamás Fazekas, Antony Flew, "Emma Gold", Lawrence Goldie, Tom Greeves, Daphne Hampson, Jacqueline Hamrit, Salomé Hangartner, David Harsent, John Heaton, Gitta Henning, Susannah Heschel, Alice Holzhey-Kunz, Jim Hopkins, Allan Ingram, Han Israëls, Marianne Jaccard, Uta Jaenicke, Sheila Kitzinger, Claudia Koonz, Mette Lebech, Zvi Lothane, Franz Maciejewski, Malcolm Macmillan, Rodney Mariner, Sarah Menin, Kate Millett, Jack Newman, Hansjörg Reck, Nigel Reeves, Phyllis Roth, Peter Rudnytsky, Fred Sander, Jeffrey Schaler, Morton Schatzman, Carole Seymour-Jones, Gitta Sereny, Sonu Shamdasani, Ann-Helen Siirala, Martti Siirala, David Singmaster, Richard Skues, Naomi Stadlen, Peter Swales, Thomas Szasz, Raymond Tallis, Terence Tanner, Michael Tregenza, Hugo Vickers, Antti Vihinen, Edward Walden, Paul Weindling, Karin Weisensel, Susannah Wilson, Sir Christopher Zeeman.

The seminars themselves have an international reputation. They study thinkers whose work is of incalculable importance for the foundations of psychotherapy and related disciplines: Austen, Andreas-Salomé, Becker, Binswanger, Blass, Bleuler, Boss, Bowen, Breuer, Buber, Bukovsky, Cioffi, Coleridge, Collingwood, Condrau, Cooper, Eliot, Esterson, Ferenczi, Flew, Fließ, Flournoy, Freud, Heaton, Heidegger, Heschel, Hoch, Hoche, Holzhey-Kunz, Husserl, Jaspers, Johnson, Jones, Jung, Kierkegaard, Klein, Laing, Lévinas, Lomas, Marcel, Merleau-Ponty, Millett, Minuchin, Myers, Nabokov, Patočka, Reich, Rilke, Rogers, Sander, Sartre, Schaler, Scheler, Schiller, Schreber, Siirala, Stein, Straus, Szasz, Tallis, Thompson, von Hildebrand, Watsuji, Wittgenstein, Zeeman. The seminars are both for advanced professionals and for students of psychotherapy and other disciplines who seek a place where they can explore perplexities. The heart of the seminars is discussion and dialogue, though some people prefer not to speak. You may attend as many or as few seminars as you wish. They are recognised as Continued Professional Development for psychotherapists. You will receive a certificate of attendance if you ask.

Anthony Stadlen has practised since 1970 as an existential-phenomenological individual and family analyst. He is registered as an existential psychotherapist by the United Kingdom Council for Psychotherapy (Society for Existential Analysis and Regent's School of Psychotherapy and Psychology, London) and as a psychoanalytic psychotherapist by the British Psychoanalytic Council (Senior Member, British Psychotherapy Foundation) and the United Kingdom Council for Psychotherapy (Association of Independent Psychotherapists). He is Independent Effective Member (UK) of the International Federation for Daseinsanalysis. He is an Honorary Visiting Fellow of Regent's School of Psychotherapy and Psychology, London. He is a former Research Fellow of the Freud Museum, London. His research has been sponsored by the Department of Philosophy at the University of Essex and supported by the Nuffield Foundation. He received the 2003 Thomas S. Szasz Award for Outstanding Services to the Cause of Civil Liberties (professional category) from the Center for Independent Thought, New York City.

Anthony Stadlen
"Oakleigh"
2A Alexandra Avenue
GB - London N22 7XE
Tel.: +44 (0) 20 8888 6857
Email: stadlen@aol.com
Founder (in 1996) and convenor of the Inner Circle Seminars: an ethical, existential, phenomenological search for truth in psychotherapy
See "Existential Psychotherapy & Inner Circle Seminars: Anthony Stadlen, London UK" at http://anthonystadlen.blogspot.com/ for programme of future Inner Circle Seminars and complete archive of past seminars